20 - SENSE AND 𝐹𝑅𝐴𝐺𝐼𝐿𝐼𝑇𝑌

Quando il sole sorse sulle strade bianche dello Snodo, Hannaline, stretta nella sua vestaglia, era già sveglia. Dalla finestra dell'accogliente residenza adibita alla Convergenza, osservava il grande palco innalzato nella piazza antistante alla Reggia Rossa. Era un giorno importante, delicato, e gli ultimi eventi la impensierivano. Fu così presa dai suoi pensieri che quasi non si accorse delle braccia forti che le cinsero la vita.

«Cosa ti preoccupa?» All'orecchio, la voce di Bruce era dolce.

Sorrise. «Chi ti dice che lo sia?»

«Io. Che marito sarei se non lo capissi da me?»

«Un mese e quattro giorni. Poi saremo sposati.» Hannaline si aggrappò alle sue braccia, con la schiena appoggiata al suo petto. Profumava di dopobarba e sigari: un odore che aveva imparato ad amare. «E non so ancora cosa indossare. Forse l'uniforme.»

«Ho un'idea migliore.» Bruce le sfilò la vestaglia e le portò le mani sotto la setosa camicia da notte. «Così sei perfetta.»

Rise. «Non è decoroso.»

«Che importa.» Con le dita indurite da anni di servizio militare, le sfiorò il ventre. «La nostra famiglia sarà splendida.»

«Noi due, sì» disse granitica.

Bruce capì da sé e tornò alla sua domanda. «Vuoi dirmi cosa ti preoccupa?» Sulla spalle nuda le scoccò un bacio soffice, senza il ruvido della barba. «Di solito la Commemorazione dell'ex principe Xavier ti piace.»

Il suo ruolo le imponeva di tacere, ma con Bruce non riusciva. «È la prima in cui presenzierà suo figlio. Nella confusione, può succedere di tutto.»

«A te?»

Fece spallucce. «È probabile. Dopotutto, Bastien è morto perché ha appoggiato la mia proposta.» La stretta sulla sua pelle aumentò e s'ammonì. Forse era stata troppo diretta. Si voltò e lo guardò. Era cambiato molto - entrambi lo erano- ma per lei era sempre quel ragazzino che tanto l'aveva tormentata durante l'Accademia, che arrossiva al più stupido dei complimenti. Gli carezzò la guancia liscia. «Hai fatto bene a raderti. Sei più ordinato.»

«Tesoro», l'angoscia gli graffiò la voce, «sono serio. Se dovesse succederti...»

Non finì. Hannaline lo baciò, così come la loro storia le aveva insegnato: intensamente, con una lieve sfumatura di tristezza, quasi dovesse essere l'ultimo. Era sempre stato così, sin da ragazzini, quando nessuno sapeva di loro e Bruce, nel periodo di leva, era costretto a partire per le zone turbolente di Hemera.

«Andrà tutto bene», disse quando s'allontanò, «ma tu per quest'anno resta qui. Per sicurezza.» Con un secondo bacio, lo lasciò. Si preparò con l'aiuto di MW5309, ovvero, Michela Wrenwood, che Bruce aveva portato con sé, per farle una sorpresa. Poi si avviò.

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Era una giornata splendida, e l'aria, dopo la pioggia del giorno prima, era leggera e sapeva di fresco.

La piazza della Reggia Rossa era gremita. Tra fiori e striscioni, chiacchiericci e schiamazzi c'era un allegro quanto frenetico trambusto. Quando arrivò trovò subito Portia, con al collo il suo monile di zaffiri grande quando la sua faccia, ed Emile che, agitato quanto una foglia al vento, le stava appiccicato. Come una pentola di fagioli, Cyrus borbottava cattiverie su Anteo, che s'assicurava della sicurezza e degli uomini dell'esercito. Andrew chiacchierava sorridente con grazioso ragazzo in vesti nere.... vicino a una delle svolazzanti telecamere di Krafti News Channel, il canale d'informazione più seguito di Hemera.

In una mossa di mano, Hannaline la frantumò, stritolandola con spessi lacci erbosi. E se l'Asservito si defilò in fretta e furia, andando a sbattere su un'Asservita esile dai lunghi capelli scurissi e carnagione ambrata, Andrew fissò i resti sfrigolanti della telecamera sparsi per terra.

«Non ci hai ancora fatto l'abitudine?» le chiese.

«I giornalisti sono sciacalli e non amo che sbattano la mia faccia su uno dei loro schermi.»

Arrivano ne aveva già visti tre, tra i palazzi: enormi, sfrigolanti d'energia luminosa. A turno, comparivano i loro volti o quelli di qualche simpaticone che si sbracciava. Avrebbe preferito che ci fosse un bel temporale: senza luce sufficiente quelle diavolerie sarebbero scomparse.

«Tu sembri volerci finire» continuò aspra. «Le classi inferiori ti piacciono proprio»

Sorrise. «Solo uno.»

«Per Hemera, Andrew. È disgustoso.»

«Sono persone che apprezzano davvero ciò che hanno.»

Hannaline liquidò il discorso. Parlare di Asserviti con lui era come farlo con sua sorella. La loro visione ottusa la irritava e basta. Si ritrovò gli occhi puntati su Emile, dai folti capelli mossi e bruni, che ciondolava sulle gambe lunghe. «È negato.»

«È solo agitato» giustificò Andrew. «Come lo siamo stati tutti. E come lo sarà chi ci sostituirà.»

«Tuo nipote sarà più giovane di Emile» constatò dopo un rapido calcolo. «Credi che ce la farà?»

«Tu ci sei riuscita» osservò. «Tutt'ora sei più giovane di Emile.»

Il mento di Han s'alzò in un moto di superbia. «La mia bravura non è un valido pretesto per giustificare l'incompetenza altrui.» Andrew rise a labbra serrate e lei si stizzì. «Cosa ti diverte?»

«Ho idea che mio nipote ti piacerà» disse. Non aggiunse altro e Hannaline non domandò, perché Remus ed Ernest li raggiunsero a passo di marcia, tesi come corde di violino.

«Cosa succede?» domandò Han.

Remus frenò un sospiro. «Abbiamo un problema.»

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Nel frattempo che la Convergenza e lo Snodo attendevano, Valentine era nel giardino della Reggia. Nella sua uniforme bianca, girava tra le piante di camelie, godendosi la brezza e gli ultimi raggi di sole prima d'un inverno che si preannunciava rigido. Era certo che avrebbe trascorso lì la mattinata. Dopotutto, si disse, era una giornata così bella, calda, piacevole...

Mentre raccoglieva una delle camelie -stupenda, rosa, scevra di difetti - un fruscio familiare lo sorprese alle spalle. Si voltò e posò gli occhi sulla figura ricoperta da capo a piedi di drappi bianchi. «Gini.»

Sin da quando aveva memoria, al limitare della sua visuale questa c'era sempre stata. Negli anni la persona sotto i veli era cambiata, ma l'essenza era rimasta la stessa: silenziosa, trafelata. Da bambino, lo spaventava il suo eccessivo mutismo; una volta sostituito il padre, lo inquietava quando apriva bocca.

Le mostrò il fiore. «Non trovi che sia bellissima?»

«Tutto ciò che per voi è bello, lo è per me» rispose con voce ovattata. «Per voi lo è?»

È perfetta. Non lo disse. Sapeva bene che non tutti godevano della sua stessa sensibilità. Si trattava di persone rare. «Sei qui per...» Non lo ricordava.

«Sono quasi le dieci» disse. «La Commemorazione di vostro padre sarebbe dovuta iniziare alle nove. Qualcuno potrebbe pensare che...»

Gli tornò in mente, come un fulmine a ciel sereno.

«Non mi importi?» l'anticipò il principe. Si morse le labbra per evitare d'aggiungere che forse, nel profondo, potesse essere vero. Aveva accettato solo perché Gini aveva insistito, per l'ennesimo anno di fila. «Dopo la cerimonia, potresti portarmi il...»

«Me lo avete già chiesto, Altezza.»

Sorrise lieve. Doveva essersi scordato anche quello. «Precedimi, allora. Arrivo.»

In una riverenza Gini si congedò e il principe si avviò verso sola stanza che non amava della Reggia: la Camera di Seta. Era quella più a est, sorpassato il grazioso teatro desiderato da sua madre, alla fine della Galleria degli Specchi. Di tanto in tanto, la fantasia d'abbatterla e lasciare tutto ciò che conteneva sotto le macerie l'allettava, un sogno liberatorio. Ma non poteva e, suo malgrado, un giorno all'anno, era costretto a recarvisi.

Con ancora la camelia in mano, dischiuse i portoni a due ante e varcò la soglia per la settantaquattresima volta in vita sua.

Dimenticava sempre quanto fosse bella, dal lucido pavimento di marmo nero agli splendidi tendaggi di seta rossa; sia che fosse vuota, sia che, come quel giorno, strabordasse di fiori e doni.

Avanzò verso il centro e si fermò davanti alla bara bianca. Non sorrise.

«Ciao, papà» disse, piatto. «È passato un altro anno. Sarai felice.»

Aspettò un minuto, in silenzio. Poi fece per andarsene, come sempre. Ma si bloccò. Riguardò la bara e osò fare ciò che mai si era permesso: l'aprì.

Non posò gli occhi rossi sul mucchio d'ossa che s'aspettava.

Suo padre era intatto, col viso troppo giovane per gli anni che aveva vissuto. Sembrava che dormisse.

«La morte deve adorarti» disse come se potesse sentirlo e rispondergli, rigirandosi la camelia tra le mani. «Oggi officerò la tua commemorazione. Il discorso è già scritto, ma è la prima volta, quindi non aspettarti granché.»

In settantaquattro anni, si era sempre rifiutato. Usava la scusa del dolore, della troppa tristezza, ma era una bugia. Semplicemente, non voleva perché, se gli avessero chiesto di descrivere suo padre, senza le belle parole decise da qualcun altro, non sarebbe stato lusinghiero...

E sapeva cosa c'era in piazza. «Mi chiedo come possano ancora amarti. Come facesse», Chiuse gli occhi e, nel buio delle palpebre, apparve l'immagine biondissima di sua madre, che sbiadiva ogni giorno di più, «la mamma ad amarti tanto. Sei stato un pessimo uomo, marito...», schiarì la voce, «un pessimo padre. Eppure, quelle persone tutti gli anni vengono qui, quasi s'aspettassero di vederti vivo e vegeto.» Lo guardò e si sentì trascinato a quando aveva poco più di una ventina d'anni, in quella stessa camera davanti a quella stessa bara, mentre osservava suo padre... morto. Non ricordava cosa avesse provato. Triste? Amareggiato? Felice? Forse aveva pianto quel poco che bastava per bagnarsi le guance. O forse no. Non avrebbe saputo dirlo.

Suo padre, Xavier, era sempre stato così intransigente: aveva sempre odiato tutto ciò che gli piaceva, il che, agli occhi di un bimbo, equivaleva a odiare lui stesso. Quello lo ricordava bene.

Abbassò gli occhi sulla camelia tra le dita. «Non so perché l'abbia portata. Con te è uno spreco. Non hai mai saputo apprezzare simili delicatezze, premure. O... qualunque altra cosa» disse con un astio che non si aspettò di possedere in gola. «Non hai mai avuto alcuna sensibilità...».

Si scostò dalla bara.

«Buon anniversario di morte, papà.» Gli posò la camelia perfetta sul petto. «Non temere, ti elogerò. Loderò le tue opere, la tua visione, benché ci siano persone più meritevoli di te da ricordare oggi. E perdonami se non ho ancora trovato il modo, o il coraggio, d'amarti.»

Abbandonando la bara aperta, se ne andò.

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In un angolo interdetto alle riprese delle telecamere, Hannaline, assieme ai colleghi, fissava Remus. «Intendi un'eclissi?»

«No», rispose prontamente il Wizja, «solo buio.»

«È la seconda volta che blateri di visioni nere» sputò Cyrus, occhi bruni incattiviti. «Dillo, Remus, le tue sono stronzate.»

«Modera i toni» rimbeccò Portia, lisciandosi l'imponente collana come se fosse la testa di un gatto, «c'è gente.» Emile, al suo fianco, era un lenzuolo slavato, ma la supportò. Anteo, poco distante, sembrò turbato.

«Sai dirci di più, Remus?» domandò scettico Ernest mentre si lisciava la barba caprina.

«Credevo d'essere diventato cieco» disse. «C'erano urla. Pianti. E un odore... orribile.»

«Sei certo che accadrà oggi?» chiese Andrew, apprensivo.

Il Wizja annuì.

«Allora, la soluzione è semplice» proruppe Hannaline. «Se il principe è a rischio, la Commemorazione va interrotta.»

Portia reagì come se avesse sentito una bestemmia. «Impossibile. Non si è mai saltata una Commemorazione del principe Xavier. Deve proseguire. Spero che siate tutti d'accordo con me.»

Raggiunse in fretta la maggioranza: Cyrus, Ernest, Anteo ed Emile, come un cagnolino, l'appoggiarono. Solo Andrew e Hannaline si schierarono dalla parte di Remus. In qualità di più anziana della Convergenza, Portia li invitò a prendere i propri posti in riga sul palco, e così fecero.

Tranne il Wizja, occhi piantati sul suolo.

Hannaline, impensierita, restò con lui. «Stai bene?»

«Quel che ho visto è vero.» Emise un sospiro grave. «Non cosa voglia dire, ma avverrà.»

«Non è ciò che ti ho chiesto.»

Remus temporeggiò. «Mi prometti che, se dovesse succedere qualcosa di pericoloso, te ne andrai?» Han tacque; lui capì da sé. Stirò le labbra in un sorriso mesto e la colse alla sprovvista quando la guardò e le carezzò una guancia. «Allora no, non sto bene.»

Raggiunsero il palco appena in tempo per assistere all'ingresso del principe Valentine, seguito a un passo di distanza dal suo consigliere in bianco, sulle note dell'altisonante inno del Principato. Hannaline notò qualcosa di diverso in lui: le labbra erano tirate come fili e l'incedere più rigido, quando cominciò a parlare dal banchetto innalzato sul palco, la voce era rigida, impostata. Tutto nel principe sembrava essersi incupito. Se ne chiese il motivo. Forse perché era la sua prima Commemorazione in pubblico.

D'un tratto, nella folla, una mano che si dimenava per aria catturò l'attirò. Era Bruce, tutto sorridente in abiti civili. Alle volte, quell'uomo aveva il potere di farla imbestialire.

Se ascoltasse...

Gli lanciò un'occhiata dardeggiante, ma si concentrò sul discorso del principe.

«Sono passati settantaquattro anni da quando mio padre, Xavier, ci ha lasciato. Anni di pace, di gioia, grazie», fece una breve pausa, «al suo impegno. Ha ricostruito un paese dilaniato da una guerra, ha dato a tutti noi un posto da chiamare casa, una legge e un'organizzazione che ci protegge.» Di colpo, tacque a lungo. Il silenzio regnò sulla piazza. Si voltò appena, per una frazione di secondo. Hannaline non avrebbe potuto dirlo con certezza, ma ebbe l'impressione che gli occhi rossi del principe si fossero posati su di lei.

Quando riprese, la voce fu più energica, allegra, come se andasse a braccio: «Ma non era solo. Generazioni di donne e uomini lo hanno aiutato, supportato. Per questo, vorrei apportare un'aggiunta alla Commemorazione di quest'anno. Un riconoscimento per coloro che confermano il loro impegno, la loro lealtà, giorno dopo giorno, che garantiscono a voi un luogo sicuro in cui vivere e a me la possibilità di nutrire fiducia cieca.» Si girò verso gli otto. «La Convergenza.»

Se la folla applaudì entusiasta, Hannaline no. E non lo fu nemmeno per il ritardo di due ore che seguì. Il principe ricercò un orafo tra la folla. Si presentò un vecchio, dai capelli bianchi sparati, assieme al suo apprendista e crearono di fronte a tutti delle medaglie a spilla. Il risultato fu semplice e a tratti imperfetto, ma d'oro brillante. Il principe, affiancato dall'anonimo consigliere, le appuntò sulla divisa di ogni membro del governo, ma quando giunse il turno di Hannaline, esitò. Dovette notare la sua espressione, di pacata collera, perché in un sussurro chiese: «Non lo gradite?»

«Non rispetta il programma» mormorò severa. «Avete improvvisato e non dovreste agire senza pensare.»

Il principe raccolse una delle medaglie. «Perché?»

«È azzardato.»

«Come lo siete stata voi?»

Hannaline s'irritò. «Non sa nemmeno se può fidarsi di queste persone.»

«Di voi, Sophia.» Armeggiò tra spilla e stoffa. «Mi fido di voi.»

«Per la sola lealtà?»

«No.» La guardò, occhi rossi lucenti come rubini al sole. «È sciocco e non chiedetemi perché, ma sono convito, in cuore mio, che voi abbiate la sensibilità di riconoscere il vero valore di un fiore perfetto.»

Hannaline non capì. E Valentine non spiegò. Non ne ebbe il tempo. All'improvviso, il sole parve cominciare a spegnersi. Col naso puntato all'insù, tutti videro un'ombra scura quanto la notte coprire gradualmente il cielo. Gli schermi e le telecamere Krafti sfarfallarono, poi scomparvero di colpo.

Lì, un rumore gorgogliò, lugubre, in lontananza. Un suono che mai avrebbe dimenticato dopo gli anni in accademia.

Non può essere... Trascolorò quando le lambì le orecchie una seconda volta, mordace. «Andatevene.»

«Cosa?» Il principe era spaesato.

Lo sguardo di Han saettava a destra e a sinistra, tra la folla e i palazzi, tra Emile che tremava come una foglia sotto le cure di Portia e Andrew che era già partito per predisporre vie sicure peri civili. Poi incrociò Remus. Quasi per inerzia, la raggiunse; sul viso aveva l'espressione di chi già sapeva.

«Portalo via» gli ordinò.

«Non ti lascio qui, Line» ribatté Remus.

«Invece sì.» Nelle le vie vicine dove vide gli arti affilati; nella calca dove colse le fauci. «Adesso.»

«Line, non...»

«Non puoi aiutare queste persone, Remus, io sì!» ruggì ferrea. «Il tuo l'hai già fatto. Ora sparisci!»

E il caos esplose: che fosse da un balcone di un palazzo, una ghirlanda ben confezionata o una seggiola lasciata in disparte, i Ballari si mostrarono e balzarono nella folla in preda al panico. Gli arti simili a falci si confondevano nel buio crescente coi corpi della gente in fuga. I ringhi e i versi gutturali s'alternavano in un miscuglio di grida di dolore e urla di terrore. Qualcuno reagiva, altri scappavano, calpestando i caduti, molti non si rialzavano.

Il cuore di Han ebbe un tuffò. Bruce...

Quando una delle creature Krafti saltò a zanne snudate verso il principe e Remus, il corpo di Hannaline agì meccanicamente: si mise nel mezzo e in meno di un battito di ciglia il Ballare collassò a terra, costretto in rovi che gli trafissero la mostruosa giugulare. Il sangue bruno si riversò a gradi fiotti sul palco e un puzzo acido contaminò l'aria. Ignorò il lungo taglio sul braccio destro e gli urti di vomito, come per anni aveva fatto in Accademia.

«Andatevene!» imperò, incurante del tono e a chi fosse rivolto. Solo allora, col principe macchiato del sangue del Ballare, Remus eseguì, seguito a ruota dal consigliere in bianco e la scorta personale del principe.

Non li vide entrare: li ingoiò il buio che, come un velo macabro, cresceva, si spandeva in ogni direzione. Lo sperò e si buttò giù dal palco, nella calca, alla ricerca di Bruce. Era certa che fosse lì, l'aveva visto e lui l'aveva salutata. Tra la gente in fuga, sgomitò con braccio che le infliggeva stilettate atroci, si fece largo aprendosi la via a frustate, pestò chiunque finisse sotto il suo stivale che fosse vivo o un corpo steso in un guazzo di sangue, ma non trovò Bruce.

L'urlo di una donna le scoppiò nell'orecchio e una violenta spinta la scaraventò a terra. La botta e il dolore al braccio la stordirono. Chiuse gli occhi per un istante e quando li riaprì, si ritrovò col viso di fronte alla gola umidiccia di un Ballare, pronto a serrare le fauci spalancate. Piazzò le mani tra i denti ricoperti di colante bava putrida perché non l'azzannasse, gli fasciò il muso bestiale con spessi viticci, sino al collo e strinse finché non tranciò la carne in due. La testa saltò via e lei rotolò sul fianco prima che il corpo del ballare le cascasse addosso. Si rialzò... e sbianco quando l'occhio le cadde sulle sue mani. Annerivano e la pelle sembrava rinsecchire, come in preda a una vorace cancrena.

Che cosa...

Il buio, che fino a quel momento l'aveva circondata, la mangiò. La disorientò. Fu cieca. Ma sentì: urla e grida di dolore, pianti, ruggiti, il suono della carne strappata, voci strazianti.

Una sussultò al suo fianco. «Andrew?»

«Hannaline?» Sembrava confuso quanto lei.

«Che sta succedendo? I Ballari non dovrebbero essere più qui! Non c'è luce!» gridò per sovrastare il caos.

«Non riesco a usare la mia Abilità» rispose inaspettatamente Andrew. «Nessuno riesce.»

Hannaline sbigottì. Incredula, provò. Ancora e ancora, con tutte le sue forze. E benché non potesse vedere la natura germogliarle sui palmi, lo percepì. Non successe alcunché. La sua Abilità era come sparita. «Com'è possibile?» Non replicò. «Andrew!»

Le grida e le urla delle persone che avrebbe dovuto aiutare furono la sua risposta. Ma non poteva. Era bloccata, disarmata, nel buio ad ascoltare lamenti su lamenti e i suoni dei passi che s'intingevano frenetici nel sangue nella piazza. Per la prima volta in vita sua, non seppe cosa fare, si sentì persa, sull'orlo della pazzia. Desiderava salvare quelle persone, trovare Bruce...

E il silenzio la investì in pieno. Arrivò all'improvviso, preceduto da un colpo netto e gelido sulla bassa schiena che la trapassò, da parte a parte. Il dolore non ci fu. Non se ne accorse. Ebbe il tempo per sentire il sangue bollente riversarsi sul bacino. Poi crollò su quello che non avrebbe saputo dire se fosse il cielo o la terra.

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Il principe Valentine non si staccò della finestra delle sue stanze. Oltre il vetro c'era un'innaturale coltre nera che annullava qualsiasi luce, colore forma o contorno: era il vuoto. Ma non lo era. Lo sapeva. C'erano gli abitanti della sua città, la Convergenza. E le urla... gli dilaniavano il cuore. Eppure, non poteva aiutare, in alcun modo. Poteva solo stare lì a fissare il suo riflesso su un vetro.

Si pulì la guancia da una lacrima quando Gini gli si presentò accanto. Anche lei ricoperta di chiazze brune sui veli chiari. «Cosa c'è?»

«Devo avvisarla», esordì contrita, «che Lord Le Morphis è voluto tornare laggiù.»

«Non avrebbe dovuto.»

«Lo sa. Mi ha pregato di dirvi di non maturare la sua medesima scelta.»

Quasi gli venne da ridere. In situazioni simili, lui era inutile. «Ti preoccupi troppo per me.»

«È l'unico dovere che mi rimane» disse amareggiata. «Al tempo di vostro padre era diverso.»

«Non è vero» obbiettò il principe. La guardò. Ricostruì il suo volto sui veli bianchi. Fu certo che avesse un'aria perplessa, con le labbra sottili arricciate e le sopracciglia inarcate. «Solo tu puoi aiutarmi a ricordare.»

Non amava ammetterlo, ma negli ultimi anni la memoria gli giocava brutti scherzi. Sempre più spesso i dettagli gli sfuggivano come sabbia tra le dita.

«Gli eventi si accavallano, le facce sembrano tutte uguali, le parole aride» continuò. «Tu, Gini, sei l'ancora del mio presente. Senza di te, mi perderei.»

Gini, sul momento, non rispose. Poi sussurrò: «Ho ciò che mi avevate chiesto.»

«Come?»

«Questa mattina.»

Quando Gini aprì le mani guantate di bianco a conca e gli mostrò il piccolo cuore di stoffa rossa e lisa, si maledisse. Era la sola cosa che non poteva permettersi di dimenticare, soprattutto in quel giorno. «Quanto è passato? Vent'anni?»

«Trentasei» disse Gini, con invidiabile sicurezza. «Non mi avete mai detto di cosa si tratta o perché lo vogliate a ogni Commemorazione.»

«È un ricordo», raccolse con estrema delicatezza il piccolo cuore e sfiorò i contorni sfilacciati, «di una persona.»

«Chi?»

«Un amico.» La voce di Valentine s'incrinò. «Che merita d'essere ricordato più di qualsiasi principe.»

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