19 - WHO CARES, IF NOT 𝑌𝑂𝑈?

«Maledizione!» L'urlo di Sue si scontrò con il grande portone della biblioteca dell'Accademia «È chiuso.»

«Sono quasi le nove di sera. Che ti aspettavi?» disse Arteh, al suo fianco. «Torniamo domani. Dovresti farti una bella dormita.»

«No»

«Siamo fradici. Che diavolo vuoi fare? Prenderti una broncopolmonite?»

«Secondo te? È una biblioteca.»

«Se mi hai trascinato fin qui solo perché ti serve uno di quei banalissimi romanzetti rosa da mettere sul comodino, giuro che...»

«No!» Sue lasciò le maniglie del portone in preda a una ventata d'imbarazzo. S'umettò le labbra, erano fredde di pioggia. «Cosa sai di ciò che c'era prima del Principato? O del perché ci sia stata una guerra? O del perché non avessimo idea che Xavier fosse Dante?» Areth sembrò pensarci per qualche istante, la risposta fu la sua espressione smarrita. «Niente, giusto?»

«Niente.»

«Questa dovrebbe essere una delle biblioteche più fornite di Hemera. Se non dovesse esserci alcun riferimento, vorrebbe dire...»

«Che stato volutamente rimosso» finì Areth e lei assentì. Poi le fece il rapido cenno di sposarsi dalla porta e ci si inginocchiò di fronte. «Lascia fare a me.»

«Sai», Sue l'osservò, stranita, «scassinare una serratura?»

«Ti sembro uno scassinatore di porte?» Areth l'adocchiò da sopra la spalla quando lei tacque. «Vorrebbe essere un sì?» sbigottì

Sue lo fissò, da capelli biondi appiattiti dall'acqua alle scarpe zuppe. La maglia, adesa al busto asciutto, rivelava muscoli più atletici di quando immaginasse. La le voce crebbe di un'ottava: «Dico solo che il fisico da ladruncolo ce l'hai».

Quel che lui borbottò a sua volta fu inghiottito dalla pioggia e non lo ripeté. Portò una mano sul portone, all'altezza della serratura, e iniziò a tracciare degli strani segni. Apparvero pian piano, come solchi neri; dove le dita scorrevano, il legno pareva raggrinzire. Il risultato fu un insieme di forme astruse e intrecciate come il disegno sconclusionato di un bimbo.

«Cos'è?» gli chiese Sue.

«È difficile da spiegare.» Areth si rialzò. «È una forma di richiamo, diciamo.»

Con gli occhi sul disegno scuro, Sue temé. «Per richiamare che cosa?»

Il ragazzo le indicò lo spazio sotto alla porta, dove baluginò una luce. Il disegno scomparve, quasi fagocitato dal legno stesso, e l'ingresso della biblioteca si schiuse in un cigolio sinistro... su un viso tonto che Sue aveva imparato a conoscere.

«Taa-daaa!» squillò la vocina dell'Elementino, impettito nel suo vestino da paggetto e sorridente da orecchio a orecchio. «Toad al vostro servizio!»

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Al buio non fu facile girovagare per l'immensa biblioteca. L'unica fonte di luce fu il leggero bagliore fluorescente di Toad, ma il suo svolazzare ondeggiante non aiutava a evitare i larghi tavoli o le gambe delle sedie. E mentre Sue e Areth si destreggiavano tra mugugni inarticolati e mignoli doloranti per raggiungere la sezione di storia, Toad era un profluvio di parole: «Dov'eravate finiti? Maya e io vi abbiamo cercato per tutta la sera! Di qua, poi di là! Un dolore alle gambe! – quando Areth gli ricordò che, in quanto Elementino, non poteva provare stanchezza, lo ignorò - Lei credeva che vi avessero ingurgitati i Mangiamosche Boccalarga delle vasche per gli Zivel Aqua accanto ai campi d'atletica!».

Nessuno la vide, ma Sue sbiancò. «In Accademia ci sono quei mostriciattoli?»

Con un corpicino d'acqua densa dalla consistenza gelatinosa, i Mangiamosche Boccalarga erano emanazioni degli Zivel Acqua zoomorfe e spazzine. Con la bocca sproporzionata, che fosse il becco di un uccellino o il muso d'una balena, pulivano superfici di ogni genere, dal fondo delle piscine al vialetto di casa. Mangiavano di tutto... per questo era sconsigliato passargli davanti.

«No che non ci sono» la rassicurò Areth. Rincuorata, Sue si mise alla ricerca di una fonte di luce mentre il Necromant e l'Elementino bisticciavano.

«Ti dico di sì!» insisteva Toad, muso a muso, con i pugni serrati sui fianchi minuti. «E se mi manipoli un'altra volta in quel modo, ti faccio sparire tutti i calzini sinistri! A-appena li avrò distinti dai destri!».

«Non farla lunga. Qualcuno doveva aprire la porta.»

«Ma è fastidioso! Divento tutto un... formico... f-formic... Formicaio!»

«È formicolio.»

Sue accese una lampada da tavolo appena in tempo per illuminare sia la linguaccia di Toad che la libreria al suo fianco. Non perse tempo: agguantò tutti i titoli che facevano riferimento alla nascita del Principato.

Svelto, Arteh l'aiutò. «Cosa cerchi di preciso?»

«Qualsiasi cosa che risalga a prima del Conflitto. O durante.» Prese un libro più grande della sua stessa faccia. Lo sfogliò. Fu un buco nell'acqua. Passò a un altro. «Un testo qualunque, anche uno stralcio.»

Il frusciare della carta anticipò il sospiro di Areth. «Sarebbe stato più semplice cercare quel romanzetto banale.»

Sovrappensiero, Sue lo guardò. Si era seduto sul tavolo e toccava le pagine il minimo indispensabile per non rovinarle coi guanti umidicci; gli occhi saettavano a destra e manca sotto le palpebre. Si rese conto di quanto le sembrasse strano non vederlo sotto le sembianze di Marcus. Aveva l'impressione che le sensazioni di Galia avessero creato con lui un legame, sottile e invisibile, ma potente. O forse si era fatta coinvolgere troppo. Ma le piaceva. Era felice di riavere il suo amico, il suo sorriso allegro, il suo sguardo azzurro...sollevato su di lei. Le parlava.

«Cosa?»

«Ti ho chiesto se qualcosa non va.»

Sue riportò l'attenzione sulla lettura e tartagliò: «Che romanzi rosa non sono banali».

Rise sotto i baffi. «Ci avrei scommesso.»

«Su cosa?»

«Che li leggessi. Insomma, cosa può leggere una ragazza che si fa idee d'amore incondizionato alla prima volta che un ragazzo come Josh le parla? Banali romanzetti rosa tutti uguali. Bella lei, bello lui... tutti senza uno specchio per capirlo.»

Fece per dirgli che si sbagliava, ma ci ripensò. Inarcò un sopracciglio, lo guardò e ghignò paga: «Quindi, quanti ne hai letti per saperlo?».

Areth le rifilò una smorfietta infastidita e ignorò la domanda. «Hai trovato qualcosa?»

«Magari» sospirò. «Non un testo, manuale o racconto accenna al Conflitto, se non per la sua risoluzione in favore di Dante e la Convergenza.»

Lui raccolse e sollevò un tomo spesso. «Wallace può andare?»

Sue annuì. Per la storia di Hemera, nessuno era meglio dell'annalista Jacques Wallace o, come l'aveva definito Charlotte, muso di porco. Affiancò Areth, sul tavolo, spalla a spalla. «Cosa dice?»

A voce schiarita, lui lesse dall'inizio: «Cammina tra le macerie. Macerie nere su terra bruciata. Non incespica. Ecco, si china; i suoi compagni sono ali alle sue spalle. Forse sono i miei occhi che mi tirano un colpo gobbo? O è il mio cuore che sobbalza dinnanzi alla grandezza? No, lo vedo! Credetemi! Stringe un mano un frammento del vecchiume e lo immerge. Sì! Nel sangue. E scrivo, parola per parola come il mio ruolo comanda, ciò che Xavier Aveyard Clare proclama: "Questo è ciò che permarrà di loro, improbi, indegni di voi e d'essere ricordati"».

«Lo chiama Xavier», disse delusa Sue, «non Dante. Scommetto che Wallace se l'è inventato di sana pianta.».

«Però dicono che la Pietra Scarlatta esista» obbiettò lui. Poi in una smorfia, soggiunse: «Non che sia difficile sporcare un sasso con del sangue.»

«Ha fatto in modo che non restasse traccia del suo passato, di quello di Hemera, di tutti.» Le tornò alla mente l'espressione compiaciuta dell'ora ex principe; fece difficoltà a sbarazzarsene. «Ma non capisco. Perché cancellare ciò c'è stato prima del Principato e se stesso? Cosa successe? Chi sarebbero gli indegni?»

«Gli Asserviti?» suggerì Areth. «Per ricordare qualcuno, parti dal nome. Dante ne è un esempio.»

«Loro hanno un nome» contraddisse più aspra di quanto volesse. In realtà, era stata la sua prima ipotesi, ma l'aveva esclusa. «Perché degli Iskra avrebbero combattuto una guerra sanguinosa contro persone senza Abilità?» Si sfregò le mani sul viso e tirò indietro i capelli bagnati. «E com'è possibile che nessuno si sia fatto queste domande?»

«Non capita tutti i giorni di parlare di duecento o trecento anni fa. Soprattutto tra Privilegiati, che vivono una vita di agi.»

Tra Privilegiati... All'improvviso, le tornò in mente la domanda di Josh, a lezione. A voce bassa, le aveva chiesto: «A chi importa, se non a te?». L'aveva presa per una provocazione, uno scambio d'opinioni sul Principato. Ma ora...

«Abbiamo sempre vissuto senza domandarci il perché o il per come», strinse il bordo del tavolo dalla rabbia e le unghie scricchiolarono contro il legno, «perché non c'è Privilegiato a cui importi.»

Areth mise una mano sulla sua. Il guanto era freddo di pioggia. «Ma a te sì.»

Sue sorrise, ma ammutolì. Il suo era un ideale, una visione e stava imparando che quelle della sua famiglia non erano le migliori: Marcus desiderava un Principato onesto e aveva contribuito a creare una mostruosità; Hannaline pretendeva un Principato perfetto e il traditore era nel suo letto; lei sperava un Principato diverso, giusto... ma quale sarebbe stato il prezzo?

Forse Dante aveva ragione, si disse, i Bertrán vivono di ideali.

Scacciò il pensiero. «Credi che si lamenteranno se prendo qualche libro?»

Areth sorrise divertito. «Hai usato i busti senza supervisione e ti sei introdotta qui abusivamente, davvero lo chiedi?»

Sue aggrottò la fronte confusa. «Perché parli al singolare?»

Lui balzò giù dal tavolo. «Perché oggi pomeriggio Josh mi ha fatto espellere.»

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Dopo che Areth ebbe mandato l'Elementino a dormire in camera sua, tornarono all'alloggio 159 carichi di libri. Sue era ancora incredula. Non credeva che Josh avesse provocato l'espulsione di Areth. Sarebbe stata un'azione meschina, senza logica, soprattutto nei confronti di Iris. Areth supponeva che l'avesse fatto per antipatia.

Aprì la porta con la sensazione che qualcosa stonasse. Ma subito si bloccò. Nel salottino accanto all'ingresso c'era Josh che leggeva assorto, tanto da sembrare addormentato, con le ciglia che sfioravano le guance e il petto che seguiva il respiro quieto.

Si accorse da solo della loro presenza, forse dalla porta o dal cigolio delle suole bagnate sul pavimento. Quando sollevò lo sguardo fosco trovò subito quello di Sue. Il cuore le balzò in gola. Era stata così presa da sua sorella, il Giudizio e l'Immersione che si era dimenticata quale effetto le facesse, di quel magnetismo che l'attirava. Privo dell'uniforme rigida dell'accademia e vestito con un abiti morbidi, chiari e semplici, le sembrò ancor più bello. Esaltavano i suoi toni scuri, la carnagione ambrata, la curva delle spalle, i muscoli allenati, la lunghezza delle gambe.

Lo vide alzarsi, fluido. «Ho detto a JC che poteva andare a riposare. È abbastanza tardi.»

«Grazie» mormorò, rossa in viso. Non voleva che la guardasse. Doveva essere un disastro, fradicia da capo a piedi, coi capelli e i vestiti tutti in disordine. Si chiese cosa stesse pensando di lei.

«Che ci fai qui?» intervenne Areth.

Josh non lo degnò d'occhiata, come se non esistesse. Così, Sue bofonchiò: «Sì, perché sei qui?»,

«Ho accompagnato Iris e ho pensato di aspettarti e approfittarne per portarti questo.» Le mostrò il libro che era intento a leggere: Discorsi di Zivel Caotici. «L'ho finito almeno tre volte. Ti servirà per le lezioni di letteratura. È meraviglioso.»

Ma Sue di meraviglioso vedeva solo lui. «Mi a-aspettavi?»

Il sorriso di Josh le mozzò il fiato. «Sono due giorni che scappi da me. Credevi che non l'avessi notato?»

«N-non scappo» mentì.

«Allora perché...»

«Dov'è Iris?» intervenne Areth.

Josh sembrò interessarsi a lui come a insetto spiaccicato sul pavimento. «Oltre che rubare le proprietà altrui, ora svaligi anche la biblioteca in piena notte?»

«Gliel'ho chiesto io», difese Sue di getto, «per le lezioni di Mr. Cooper.»

Josh la guardò, ma rispose ad Areth. «Di sopra.» E lo bloccò quando tentò di salire al piano superiore. «Sta...»

«Sono qui.»

Sue sussultò. Come quattro giorni addietro, vide Iris sulle scale, ferma a guardarla. Pensò che fosse perfetta, senza un capello fuori posto e la bella vestaglia bluastra chiusa in vita, ma quando l'ebbe di fronte, notò gli occhi celesti arrossati, gonfi di pianto. In mano stringeva una lettera che riconobbe: quella che aveva ricevuto quando era arrivata e che aveva nascosto nell'armadio.

Iris gliela porse e flebile chiese: «Almeno ora, potresti dirmi la verità?».

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Non importò per quanto Sue parlò o spiegò, al tavolo della sala dell'alloggio il clima divenne glaciale appena Sue, incespicante, confessò di non avere un'Abilità. Il volto di Iris s'indurì, quello di Josh fu impassibile. Solo Areth emise un sospiro consapevole.

«Han provato a iscrivermi in altre scuole, di basso profilo», continuò, agitata, tampinandosi i capelli umidicci, «ma dopo qualche giorno, iniziavano a circolare voci e Han mi ritirava prima che si sapesse. Poi ha deciso per l'istruzione da casa.»

«Per questo non hai mai partecipato agli eventi delle Casate di Sangue» commentò Josh.

Sue annuì a stento. «Han non voleva che avessi interazioni con Iskra di qualsiasi genere, quindi...», si rivolse a Iris, che ascoltava serrata in un mutismo assoluto, «neanche te.»

Lei non reagì. Ebbe uno sguardo che Sue non sostenne.

«E alla fine ha voluto comunque iscriverti qui?» domandò Areth.

«I miei insegnanti privati domandavano troppo e lei ha studiato in Accademia» chiosò. «Iris, se avessi potuto...»

«Potevi» fece lei. Secca e fredda. «La verità è che potevi. Ma non l'hai fatto. Hannaline ti ha tenuto la mano dal telefono, da una penna... per tre dannati anni? Ti ha impedito di rispondere alle mie chiamate? La verità è che ti piace far credere che Han controlli la tua vita, scaricarle addosso delle colpe che sono unicamente tue. Tu», enfatizzò tra i denti, occhi scintillanti rabbia, «hai scelto di assecondare tua sorella. Tu non ti sei fidata di me. Tu hai deciso di escludermi dalla tua vita piuttosto che ammettere ciò che non sei.» E, senza mascherare il ribrezzo, sputò velenosa: «O, meglio, ciò che sei.»

«Iris, per piacere» provò Areth.

Lo guardò, piccata. «Zitto. Tu lo sapevi.» Riportò l'occhiata azzurra su Susanne, alla quale lo stomaco si contorse con ferocia. «È tutto?»

«So», tartagliò, torturandosi le mani, «di aver sbagliato, ma...»

«Ma?» Le labbra di Iris sfoggiarono un sorriso a dir poco smagliante e gelido. «Ti dispiace?» scimmiottò con falso candore. «Diventi monotona, Susanne.» Si alzò, si sistemò la cinta lenta della vestaglia alla vita e se ne andò, risalendo le scale. Areth le corse dietro. Josh, invece, raggiunse Sue, immobile quanto una statua di sale mentre i rimorsi l'azzannavano pezzo dopo pezzo. «È impulsiva. Le passerà.» Le protese una mano. «Ma fino ad allora... Krafti arrabbiato, disastro assicurato. È meglio fuggire.»

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«Ti piace la musica classica?» chiese Josh davanti a un vecchio giradischi nella Sala delle Azalee. Era la prima domanda che le poneva. Avevano affrontato il tragitto in silenzio e a Sue non dispiacque: non aveva voglia di parlare. E sapeva cosa le avrebbe chiesto Josh, del Giudizio.

«Non l'ho mai ascoltata molto» mormorò. «A te piacciono questi aggeggi?»

Josh sorrise. «Susanne, se vuoi andare d'accordo con me non denigrare i giradischi.»

Ricambiò. «Scusa. È che hanno quei crepitii strani.»

Le fece cenno d'avvicinarsi e Sue gli fu a fianco in poco. Spalla a spalla, si perse nel profumo dolce di Josh. E si vergognò di sé: doveva avere addosso il puzzo della pioggia.

«Quei crepitii strani sono ciò che rende il suono migliore, più caldo, vivo. Bellissimo»

Sue lo fissò. Si chiede se avesse notato di aver descritto la sua voce, o come lei la percepiva. Calda, viva, bellissima.

«Piano o violino?» le chiese ancora.

«Violino»

Josh estrasse un vinile dalla libreria accanto, armeggiò col giradischi e le note dolci si spansero nella stanza. «Pareri? Ti avviso: la risposta corretta è una» sussurrò giocoso all'orecchio.

Un fremito le scosse la schiena e le guance le avvamparono. «Ho sentito di peggio.»

Lui rise lieve. «L'accetto solo perché l'importante è altro.»

«A-altro?» Sue si voltò e lo guardo, il viso a un palmo dal suo. Il cuore le martellò nel petto. «Cosa?»

Josh s'allontanò. S'accomodò sul lungo divano, che seguiva la parete di fondo della stanza. «Tu.» E, battendo la mano sulla seduta morbida, la invitò a imitarlo.

Sue esitò, occhi puntati a terra. L'ultima cosa di cui aveva voglia quella sera era discutere ancora di lei. Non si mosse. Quando riguardò Josh, lo vide portarsi alle labbra una sigaretta e accenderla. «Non... sapevo che fumassi.»

«Quando occorre.» Soffiò una nuvoletta strana, rossiccia. L'aria s'impregnò d'un pervasivo odore dolciastro, identico al suo profumo. «Puoi metterti qui, sai? Se non sbaglio, eri tu quella che mordeva. Non io.»

«Fumare è una pessima abitudine», puntualizzò Sue, sedendosi. Lo fece per agitazione: il ragazzo non distoglieva lo sguardo attento da lei. «Non penso che occorra.»

«Tante cose sembra che non occorrano, finché non ne hai bisogno», disse, «come, non so...», temporeggiò, «nascondere al Principato che la sua futura componente della Convergenza non ha un'Abilità.» Il palato di Sue inaridì d'un colpo. «Quando hai chiamato JC per nome, ho pensato che fossi pazza, ma ora so perché l'hai fatto: ti senti come loro, un'Asservita».

Colta alla sprovvista, Sue si fece porporina di rabbia. «Anche se fosse?»

«Credo che preoccuparsi di qualcuno o qualcosa solo quando si è direttamente interessati sia ipocrita» disse graffiante. Con la sigaretta alle labbra, aspirò ed espirò molle. Il fumo rosso gli aleggiò attorno al viso, rendendo il suo sguardo già affilato ancor più tagliente. «Tu sei un'ipocrita, Lady Bertrán?»

«Miss». Lo fulminò con un'occhiataccia. «E no, non lo sono.»

«Sbagliato. Lo siamo tutti. Chi più, chi meno.» Sorrise volpino. «È una constatazione dei fatti, non giudico.»

«Io sono un'Iskra» si sentì ribadire, forse più rivolta a se stessa che a lui. «Solo che...»

«Non devi convincermi» troncò. «Ti credo.»

«Davvero?»

Annuì. «Ma...»

«Ma?»

«Conoscendola, capisco perché non volessi dirlo a Iris o perché tua sorella abbia voluto tenerlo segreto. Ma mi chiedevo perché tu non ne abbia parlato con me» disse perplesso. «Siamo gli unici a poter affermare con assoluta certezza d'essere sulla stessa barca. Per di più, una sulla quale nessuno dei due vorrebbe stare.»

Sue tacque. Sapeva che aveva ragione. Se c'era qualcuno che poteva aiutarla, che incarnava il suo futuro e la sua reticenza di viverlo, era Josh. L'aveva sentito affine dal primo giorno, anche troppo, e forse Areth non aveva avuto tutti i torti a definirla una ragazza da romanzi rosa perché, quando Josh le sorrideva, il cervello non funzionava, le guance s'infiammavano, entrava in apnea. Ma il modo in cui l'aveva guardata due giorni prima, nel momento in cui aveva scoperto che lei era già a conoscenza del Giudizio, la bloccava, la intimidiva.

Dopo aver buttato fuori l'ennesima nuvola rossa, Josh si protese verso di lei, appoggiando i gomiti sulle ginocchia, e continuò: «Susanne, se io e te lavoreremo assieme, dovremmo poterci fidare l'uno dell'altra. Altrimenti non passeremo belle giornate, per anni. Io sono disposto a fidarmi di te, ma tu?».

Sue fu sincera. «Non è così...semplice.»

«Rendiamo tale. Facciamo un gioco» propose Josh. «Sarò sincero con te, se tu lo sarai con me. Una domanda per uno. Chiedimi ciò che vuoi.»

Esito. «È vero... che hai fatto espellere Areth?»

«Fai sul serio?» Era stupito. Sue annuì e rispose: «Non apprezzo la vita con un Necromant».

«E una collega al pari di un'Asservita, sì?» incalzò.

«La domanda tocca a me» obbiettò. Spense e si liberò del mozzicone e la guardò, indagatore. «Come sapevi del Giudizio di Sangue?»

Umettò le labbra. «Ce... l'ha detto tuo zio.»

«Il gioco non vale la candela, se non rispetti le regole, Susanne. Come lo sapevi?»

È inutile mentire... pensò. Allora, raccontò: della sera del discorso della rettrice, dell'Ingresso del Debutto e della bruciatura di Areth, ma non nominò Bruce. Nuotava in acque ignote persino lei. Quando terminò, si sentì leggera come l'aria, libera. «Areth era lì, con me, e...»

«Ti è parso l'unico con cui poterne parlare» sospirò Josh. «Lascia che ti dia un consiglio: i Necromant sono degli Iskra con cui non vale la pena socializzare, soprattutto tu.»

«Quindi devo supporre che tu ne conosca più di uno.»

Temporeggiò. «Grazie a mio zio, so cosa vogliono. Sono pericolosi.»

«Areth non lo è.»

«Sì, soprattutto per te.»

«Non ti seguo.»

«Tre anni fa, si è intrufolato nel mio alloggio. E non ho detto niente. L'ho gestita a modo mio. Poi si è appiccicato a Iris. E non ho fiatato perché a lei piaceva. Adesso ci sei tu, e sono quattro giorni che ti sta incollato.» Gli occhi scuri scavarono nei suoi, con una chiara insinuazione. «Pensa cosa avevamo in comune noi tre.»

«Ti sbagli» protestò con forza. «Non vuole il seggio.»

«No. Gli basta influenzarti, farti credere che sia giusto patteggiare per loro» disse. «Sei una ragazza così dolce, Susanne, e ingenua. Dar credito a tutti coloro che elemosinano aiuto, ti affosserà.»

Sue scosse il capo, decisa. «Areth non ha interesse nella Convergenza. Non mi raggirerebbe, non mi mentirebbe. Ed è lui che ha aiutato me», insistette, «è gentile, affidabile, sincero. È una buona persona.»

«Essere buone persone non vuol dire avere buone intenzioni. E non vedo altre ragioni per cui uno sconosciuto dovrebbe aiutati.»

«Tu non lo faresti?» chiese di getto Sue e Josh, sorpreso, ammutolì. «Rispondi, la domanda spetta a me» gli ricordò.

Si pronunciò a mezza voce. «No, non lo farei.» Poggiò una mano sulla sua e una scarica calda le attraversò il corpo. La tensione scemò. «Ma sto cercando di proteggerti. Non impedirmelo.»

«Hai appena detto che non aiuteresti uno sconosciuto» puntualizzò. «Come faccio a crederti?»

«Non devi se non vuoi. Sta a te decidere di chi fidarti, Susanne.» Sul suo viso meraviglioso, baluginò un'inattesa apprensione. «Ma non sceglierei chi cerca da te ciò che non ha.»

Quando Sue rientrò in camera, fu sfinita. Non accese la luce, non sopportava l'idea di avere altre pareti rosse.

Si lasciò cadere sul bordo del letto. Aveva troppi pensieri e domande ad affollarle la testa. Cosa avrebbe fatto con iris? Avrebbe dovuto fidarsi di Josh o Areth? E Han, con Bruce e il Giudizio? Cosa era giusto fare?

Qualcosa le solleticò le dita. Abbassò lo sguardo e vide una margherita.

Nasceva dalla mano muschiosa di Inquy, formatosi accanto a lei in silenzio.

Gli sorrise e si appoggiò alla sua spalla d'erba, felice d'averlo lì.

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