18 - 𝐵𝐿𝑂𝑂𝐷 𝐽𝑈𝐷𝐺𝐸𝑀𝐸𝑁𝑇 CAN'T WAIT (p.1/3)

«È una follia.»

Era la terza volta che Areth lo ripeteva e Sue ne era esasperata. Non era stata lei a renderlo partecipe della sua decisione di avvertire il principe, ma lo stesso Xavier. Li aveva inviati entrambi a una colazione riservata, nella sala da pranzo più sfarzosa che Sue avesse mai visto: le colonne di marmo seguivano le pareti rosse, favolose tende spesse incorniciavano le luminose finestre, l'arredo era un tripudio di scintillanti decori dorati.

«Perché non cambi disco?» gli mormorò mentre dondolava lo sguardo tra il lampadario di cristallo sopra le loro teste, che avrebbe potuto sfamare da solo l'intera cerchia Asservita, e la schiena del principe, che, poco distante, parlava con uno dei servitori in nero.

«Cosa dovrei dire?» Areth, anche con le sembianze di Marcus e gli abiti di un'altra epoca, era tutto scombinato. E sembrava a disagio.  «Che gioia condividere tè e cubetti di frutta con un fanatico classista e segregazionista?»

«Shh! Ti sente!» Le mani, nascoste sotto al tavolo imbandito, tampinavano la gonna dell'abito di cotone bluastro in cui si era strizzata. «Tutta la Convergenza ha partecipato al Conflitto. Quindi anche tu, cioè Marcus. E Xavier...»

«Xavier?» allibì Areth. «Gli dai del tu? A quello?»

«Guarda che è diverso da come dicono» disse con le guance di Galia arrossate. Ed era vero. Rientrati dal giardino, Xavier si era dimostrato dolce e alla mano. Si era impegnato nell'aiutarla a capire come decifrare gli appunti di Marcus e si era preso cura di lei in ogni modo possibile. Le aveva sorriso, sempre. «Non è così male.»

«Non è così male?» fece eco Areth, irritato.

«La smetti di fare il pappagallo?»

Lui emise lo stesso suono graziato di quando era approdato. «Hai combinato un disastro.»

«Perché prima non vediamo come va?» soffiò piccata.

«Perché tu non ascolti mai?»

«E perché mi sembrate più simili a Galia e Marcus di quanto dovreste?» intervenne all'improvviso la voce del principe. Gli Asserviti erano spariti e lui, in camicia e completo bianchi come la neve, si era accomodato a capotavola. «Non occorre che sussurriate: c'è abbastanza eco perché vi si senta forte e chiaro.» Indirizzò al ragazzo, indignato, un sorriso accennato. «Posso immaginare l'antipatia che provi per me... Areth, giusto?»

«Giusto.»

«Non pretendo che svanisca, ma credo che sia negli interessi d'entrambi risolvere questa situazione nella maniera... più civile possibile.»

Sue, buttando giù una forchettata di frutta, vide Areth replicare con una smorfia irosa che non gli apparteneva e s'affrettò a cambiare discorso. «Perché saremmo simili a Galia e Marcus?»

«Loro sono i primi che ho conosciuto tra i membri della Convergenza» rispose morbido. «Se non erro, avevano tredici o quattordici anni.»

«E voi?» chiese Areth con un tono minaccioso che lasciò Sue di stucco. «Quanti?»

«Puoi darmi del tu»

Sulle labbra di Marcus guizzò un sorriso felino. «Anche no.»

«Ho avuto l'occasione di scambiare due parole con quelli, gli Abbott» disse Xavier. Eppure, per quanto fosse pacata la sua voce, gli occhi rossi ardevano come fiamme vive addosso ad Areth. «Gente strana, sporca, con un'abbondante dose d'irriverenza, modi barbarici e un nauseabondo puzzo di terra. Nel vostro tempo, voi, loro simili, cosa avete ereditato oltre all'irriverenza?»

Areth scattò in piedi, paonazzo di rabbia e Sue lo trattenne a stento, data la stazza di Marcus. Non diede a vedere la sua sorpresa, più per la reazione del ragazzo che per la motivazione che l'aveva spinto: entrambi sapevano che il creatore della Cerchia Secondaria era il principe Xavier, ma Areth non le era mai sembrato tanto irascibile.

Lo fece risedere, tirandolo per un braccio, e sviò. «Dicevi di Galia e Marcus.»

«Sono cresciuti assieme» fece Xavier, che non si era scomposto di un millimetro. «La famiglia di Galia adottò Marcus, di fatto.»

«Adottò?»

«È orfano. Non lo sapevi?»

Sue scosse il capo. Riflettendoci, non si era mai posta la domanda. Nei racconti di sua sorella, nei suoi studi, si nominava sempre e solo lui, il fondatore della Casata di Sangue dei Bertrán a seguito del Conflitto.

«Galia è più legata a lui che a suo fratello, Delmar» proseguì il principe. «Dovunque fosse uno, c'era l'altra.»

«Cosa c'entra con noi?» La voce di Areth era carica di stizza.

«Siete un continuo bisticcio. Come loro. C'è stato un tempo dove credevo e speravo che diventassero qualcosa di più, prima che io mi innamorassi di lei.» Sue e Areth si scambiarono un'occhiata imbarazzata. «Ma dallo Schieramento... sono i fantasmi di loro stessi e spesso ho temuto in episodi come quello di ieri, in carrozza. È strano da dire, ma è bello che voi abbiate riportato un po' della loro leggerezza in queste mura.»

«E tu da che parte stai?», ficcanasò Sue, «Quella di Galia o di Marcus?»

Xavier accostò la tazza di caffè alle labbra e bevve, meditabondo. «Quella di Marcus» annunciò.

«Ma ha tentato di ucciderti!»

«Ciò non toglie che la mia unica preoccupazione è e debba sempre essere il Principato. Marcus difende Hemera da quando lo conosco; Galia con lo Schieramento, no e fin troppi Privilegiati sono morti a causa sua» disse perentorio. «Galia non è immacolata, Susanne. Come nessuno. E con il processo di oggi speravo che la situazione potesse risolversi. Invece, se quel che dite è vero...»

Marcus è un traditore e Galia morirà, portando con sé novecento persone. Sue si morse le labbra. «Cosa possiamo fare?»

«Come ti ho già detto, non posso impedire che il processo si svolga. È stata una proposta accettata da Galia stessa e l'intero Principato attende la sentenza», spiegò, «ma credo che gli appunti di Marcus possano aiutarci. Devo solo terminare di leggerli. Invece, le lettere di Dante sono inutili. Riferimenti, accenni. Nulla di più. Voi sapete chi o dove sia? Che aspetto abbia?»

«Sappiamo che è un Privilegiato», rispose Sue, «e che è un pittore. Marcus ha un suo quadro.»

«Perché vi interessa?» chiese Areth brusco.

Xavier assunse un'aria ferina, con le labbra ridotte a una linea sottile. Gli occhi baluginarono con una luce crudele. «Attentare alla mia vita è un motivo più che valido per garantire a chiunque che quell'uomo non avrà un futuro.»

«E Marcus?» mormorò Sue. «Per lui sarà lo stesso? È tuo amico.»

Si chiese che sguardo stesse rivolgendo a Xavier. Forse speranzoso: se Marcus fosse stato incriminato, allora i Bertrán non sarebbero più stati una Casata di Sangue, sua sorella non sarebbe diventata il mostro di freddezza che era e suo padre sarebbe stato al loro fianco; avrebbe potuto crogiolarsi in quell'immagine. O forse supplichevole: voleva che Marcus pagasse, non che morisse. Qualunque fosse, lei sarebbe stata la responsabile dalla vita o della morte del suo avo.

«Un traditore», disse Xavier, lapidario e freddo, «rimane un traditore.»

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Il principe li congedò con la promessa che una certa Jalin avrebbe aiutato Sue a prepararsi per il processo e un velo di confusione addosso. Uscirono dalla sala in silenzio.

Sue era stordita. Non capiva le sue stesse emozioni. Era triste per Marcus, felice perché avrebbe potuto salvare Galia. E anche quelle della Lady sembravano in subbuglio, tra i sentimenti per Xavier e Lucio e i sensi di colpa per le figlie di Nathaniel. Areth, al suo fianco, era una maschera cupa.

Camminavano lungo i corridoi rossi quando una voce s'alzò alle loro spalle.

«Scusate.»

Era senza tono.

Areth, che fu il primo a voltarsi, s'illuminò. «Clara, buongiorno.»

Sue lo imitò. La Wizja, accompagnata dal fumoso Perpetuo che svolazzava pacato, era abbigliata con un'ampia mantella giallastra e il capo coperto da un velo nero bordato d'abbondante pizzo.

«Ha senso augurare il buongiorno a chi non dorme?» chiese, inaspettatamente cordiale verso Marcus. «Spero tu sia riuscito a riposare. Ti ho trattenuto anche troppo questa notte.»

«Un paio d'ore mi sono rimaste» rispose Areth con un gran sorriso, per Sue anche troppo. «Che ci fa qui?»

«Sapevo che ti avrei trovato» Poi si voltò su di lei. «Con Susanne.»

A occhi azzurri sgranati, Sue scattò sull'amico. «Glielo hai detto? E sarei io quella incosciente?»

«Sì, lo sei» ribeccò Areth, secco. «Chi ha spifferato tutto a Occhioni Rossi?»

«Non rifilarmi la predica» sibilò. «Hai fatto lo stesso.»

«Per una buona ragione.»

«Anche la mia lo è!»

«Sue, non...»

«Desideravo solo scambiare due parole con Areth, non scatenare una lite» intervenne Clara, accarezzando lenta il braccio di Marcus.

Sue non poté non notarla. La fulminò. «Di cosa?»

«È personale.»

«Quanto?» incalzò.

«Sue» rimbeccò Areth. «Non sono affari tuoi, o sbaglio?»

«Sbagli» disse di getto, infastidita. Quando lui la guardò spaesato, arrossì. Aprì bocca per arrabattare una scusa, ma Clara l'anticipò: s'impossessò del braccio di Areth e se lo portò via ad andatura spedita, senza una parola.

Attonita, Sue si ritrovò sola, in un corridoio troppo ampio. Come le era uscito? Era uscita di senno? A lei che importava di cosa dovessero parlare Areth e Clara? Anche se quelle mani poteva tenerle a posto. Scosse il capo. Ma cosa andava a pensare? Si girò, decisa a tornare in camera e a ignorare quel fastidio che le pungeva lo stomaco.

E trasalì.

Una figura poco più alta di lei e rivestita da capo a piedi con spessi drappi bianchi le si era piazzata davanti. Aveva addosso così tanta stoffa che non avrebbe saputo dire se fosse un uomo o una donna, giovane o vecchio.

«Scusatemi», bofonchiò Sue, «non vi avevo visto». Fece per passare oltre, ma la figura glielo impedì e, muta, la invitò a seguirla.

Immaginò chi potesse essere. «Sei Jalin? Ti ha mandato Xa... il principe?»

Questa assentì e Sue, mascherando la titubanza, si lasciò condurre sino a una stanzetta appartata, dalle alte pareti rossi e magra d'arredo, occupata in gran parte da un ampio specchio a muro e da una larga finestra arcuata che dava sui giardini interni.

Jalin la bloccò davanti allo specchio e, sempre senza una parola, iniziò a spogliarla.

Imbarazzata, Sue si ritrasse. «Cosa fai?»

Jalin le indicò un abito molto simile al suo: bianco, largo e lungo, appoggiato su una poltrona confinata in un angolo.

«Devo mettermelo», chiese Sue, «per il processo?»

Le annuì.

«D'accordo» disse tentennante. Malgrado la vergogna, permise alla silenziosa figura di svestirla dell'abito blu. E la osservò: si spostava con armonia, a piccoli passi; le sue mani erano delicate come farfalle; il suo respiro tanto quieto che non s'udiva. Non aveva nulla che spartire con l'irruenza dell'Asservita che l'aveva assistita a casa sua.

Ma, nello specchio, rimirò qualcun altro, oltre a Jalin. Galia aveva l'aria di un'eterna fanciulla. Il giorno prima, non si era accorta di quanto grandi e azzurri fossero davvero i suoi occhi sotto le lunghe ciglia, di quanto piccole e graziose fossero le sue labbra o di quanta dolcezza le donassero le guance colorite. Era così bella e fine, il ritratto della tenerezza. Capì come sia Lucio che Xavier si fossero innamorati di lei. Eppure... Il petto di Galia si gonfiò al sospiro di Sue. Di male ne ha causato. Salvarla è davvero la cosa giusta?

Non volle rispondersi, forse se lo stava chiedendo anche troppo tardi.

«Ascolta... Posso darti del tu?» disse a Jalin, che le aveva appena infilato la lunga veste bianca. Sembrò indifferente, così continuò. «Non puoi parlare?»

Jalin, davanti a lei, le raddrizzò le cuciture dell'abito sulla spalla e le fece calzare delle scare basse e comode, ma tacque.

«Sai cosa succederà?» persistette.

Jalin si bloccò. Le spostò i capelli sulle spalle e le toccò la piccola depressione tra le clavicole. La stoffa fresca dei guanti bianchi la fece rabbrividire.

«Che vuoi dire?» Cercò uno sguardo tra i drappi, confusa. Ma non servì. Jalin le fece cenno di seguirla e uscì dalla stanza al suono della veste trascinate sul pavimento.

Sue le fu alle calcagna in rapidi passetti. Non poteva farsela scappare. Doveva sapere. «Aspetta! Come funziona? Dove si svolge? Mi ci porti tu adesso? C'entri qualcosa con...»

Mancò la fine, dato che, all'imbocco di un corridoio laterale, una presa salda al braccio la trascinò via.

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«La tua amica non deve avermi in simpatia» disse Clara mentre, stretta al braccio di Areth, camminava per i corridoio rossi, inondati di luce. I suoi passi erano indolenti, silenziosi quanto quelli di un gatto. «Mi ha guardata come se potesse incenerirmi.»

Areth abbozzò un sorriso. «Sono certo che fosse solo tesa. Lei? Come sta stamattina?»

«Meglio, anche se il bimbo scalcia.»

«Ha un'idea su come chiamarlo?»

«Lo sai e vuoi dirmelo tu?»

«Mi sopravvaluta se crede che abbia così tanta memoria» rise e il velo scuro di Clara ondeggiò sotto il suo fiato leggero. «Di cosa voleva parlarmi?»

La Wizja s'arrestò e gli lasciò il braccio per scoprirsi il capo.  Areth vide con chiarezza il volto della donna: gli zigomi pronunciati, che accentuavano una magrezza innaturale delle guance; il naso sottile; le screziature dorate sulla pelle, scura e liscia, perfettamente simmetriche; la cicatrice bianchiccia che le tagliava in due gli occhi gialli. Guardandola, chiunque avrebbe urlato all'orrore, ma lui no. Sapeva cosa voleva dire essere temuti, considerati alla stregua di mostri.  Le si mise di fronte e sfruttò le spalle larghe di Marcus per ripararla dalla luce accecante che filtrava dalla finestra.

Clara gli sorrise. «Volevo ringraziarti», mormorò, «per ciò che mi hai detto ieri sera.»

Areth ebbe un accenno d'imbarazzo sulle guance, sguardò puntato sul pavimento. «Sono... solo parole.»

«Parole che mi hanno mostrato la strada per rendere la mia gente delle persone migliori. E non immaginavo che avrei imparato tanto da un ragazzino.»

Areth si torturò le mani guantate. «La prego di tenere per lei quanto le ho detto. O per lo meno, non sia tanto specifica quanto lo sono stato io. Non avrei dovuto parlargliene.»

Non poteva mentire a se stesso. Quella notte, tornato in camera, si era pentito. Non aveva dormito. Dai suoi quattrodici anni, aveva perso il conto di quante volte Jeremiah gli aveva ripetuto che i Necromant dovevano restare muti muti. Era stata la prima cosa che gli aveva insegnato. E ora, dopo aver sbraitato contro Sue per la sua malsana idea di modificare gli eventi, aveva fatto lo stesso e forse, si disse, anche peggio.

«Allora», la voce monocorde di Clara gli fece sollevare lo sguardo, «perché l'hai fatto?»

Esitò. «So cosa vuol dire venire a patti con la morte.»

«Le mie labbra saranno discrete.» Gli poggiò una mano all'altezza cuore, con una delicatezza quasi riverenziale e l'occhiata guercia addolcita, «ma sono e sarò onorata di dire che Areth Mead, Iskra Necromant, è mio amico.»

Areth non rispose. Sorrise e, semplicemente, fu grato.

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Sue fu costretta a una corsa forsennata tra le stanze e i corridoi della Reggia Rossa dalla mano che stringeva la sua: quella di Lucio. Era vestito con la divisa scura degli Asserviti e i capelli rossi erano scompigliati. Non aveva idea di dove stessero andando -avevano superato di fortuna Charlotte che era intenta ad ammorbare Sage con discorsi striduli - ma non le importava. Scoppiava di gioia, il cuore le galoppava nel petto e...

No! Dove ho la testa! Deve importarmi! Devo pensare al Giudizio!

«Aspetta.» Si bloccò nel mezzo del corridoio con uno strattone e fece per dirgli che non poteva allontanarsi, ma Lucio le prese il viso e la baciò.

Era un bacio che nulla aveva a che fare con l'unico che avesse mai ricevuto, grazie alle cure di Han: il fallimentare e bavoso tentativo di Barnaby Salinger, a tredici anni. Era profondo, passionale, tanto ardente da ubriacarla sino a renderle la testa leggera. Era un'onda calda la percorse da capo a piedi, che cresceva, che le accendeva il cuore e che... voleva. La bocca desiderava quella di Lucio; i polpastrelli delle dita smaniavano per carezzare le guance irruvidite dalla barba; il corpo pretendeva che le sue braccia e le sue mani non lo lasciassero. E non capiva il perché. Erano sensazioni sue o di Galia? Ma soprattutto, perché non distingueva più dove finissero le sue e iniziassero quelle dell'altra?  La Lady poteva forse influenzarla fino a quel punto? Tanto da perdere di vista se stessa? Se non fosse stato per Lucio, Sue sentiva che non si sarebbe separata da lui.

A labbra vergognose, sorrideva ebete. «Sei tornato.»

«Una promessa è una promessa.»

La voce di Lucio era una melodia ammaliante che le impediva di pensare. Il suo profumo la rapiva. E i suoi occhi? In quel mare dorato, scorgeva il volto di Galia, innamorato.

«È tutto pronto. Gli altri ci stanno aspettando nei sotterranei.» Le scoccò un secondo bacio, più rapido. «Ti porto via da qui.»

Via? Quella frase la colpì come un secchiata d'acqua gelata. Il sorriso si spense e si riebbe. Ma che sto facendo? Come posso... La risposta la sentì dentro di sé: Galia, da qualche parte, urlava.

«Non posso.» Indietreggiò. «Il Giu... processo sta per iniziare.»

«Quindi?» Divenne serio. «Ti importa che sappia che non sei stata tu?»

Lucio non lo nominò, ma lei capì: Xavier.  Rispose con una rapidità e freddezza che l'allibì. «No, non mi importa.»

Perché no? Galia e Xavier hanno un legame profondo. E perché l'ho detto?

Il sorriso di Lucio si riaccese, occhi brillanti d'amore. «Allora andiamo, ovunque tu voglia. Anche lontano da Hemera se, servisse per renderti felice. O verso il mare, come dicevi.»

Sue rimase interdetta. Non l'aveva mai visto il mare. «Non posso.»

«Vieni via con me.»

«Lucio...» Il sì di Galia le bruciava le labbra.

«Verrai?»

«Io...»

Non finì. Lui la baciò. E, mentre le gambe della Lady diventano sempre più molli, Sue avvertì chiaramente, dentro di sé, Galia artigliarla e trascinarla verso il basso. Lottò, ma il controllo sull'Immersione le sfuggì dalle mani e, per un attimo, la Reggia intorno a lei sfocò. Quando lo riebbe, Lucio si era dileguato e la Lady zittita. 

Il cuore, che le martellava nelle orecchie, batteva al ritmo delle sue sole angosce. Cos'era successo? Galia era stata più forte di lei? Aveva la tragica sensazione di aver detto quel sì.

«Accidenti, ci divertiamo qui.»

Sue sussultò e si voltò di scatto. «Fammi prendere un altro colpo così e ti becchi un altro schiaffo, Areth.»

Appoggiato alla parete, Areth rise. «Scusa, pensavo mi avessi visto. Sai, credo che Galia abbia in giro un po' troppi uomini.»

«Geloso?» scherzò Sue.

Ma lui, fissandola, parve rifletterci sul serio. «Marcus un po'.»

«Riesci a distinguerlo così bene da te?» Sospirò greve mentre si sedeva a terra. Le gambe avrebbero potuto essere di pura gelatina. «Io credo d'iniziare a impazzire. A volte Galia è...»

«Intensa?» Areth le si mise accanto, con una gamba distesa e l'altra ripiegata a sorreggere il gomito. «Molto?»

Sue annuì.

«Anche Marcus.»

«Credi che ci sia di più?» L'impressione che il confine tra lei e la Lady si stesse sgretolando diventava sempre più forte. Anche con Areth: quando lo guardava, l'amore di Galia per Marcus, fraterno o no, la frastornava. «Tra loro intendo.»

«Forse. Insomma, penso di sì» s'ingarbugliò. «In fondo, non sappiamo davvero cos'abbiano passato.»

«E a noi?» Lo guardò con un groppo in gola. Areth fece lo stesso. «A noi che succede?»

«È un'Immersione lunga. Suppongo che un po' di confusione sia normale» mormorò. Calò il silenzio e se la rise sotto i baffi. «Ma se vuoi perdere la testa per quarantenne... morto da qualche centinaio d'anni, fa' pure.»

Sue gli rifilò una sberla sul braccio, che tra i muscoli di Marcus e la stoffa dovette sembrare una carezza. «Non dovevi cambiarti?»

«Charlotte voleva che ti controllassi. Mi ha detto d'averti visto con un poco di buono dai capelli discutibili. Troppo rossi, troppo sparati. E da come l'ha urlato inizio a capire perché Marcus la detesti.»

«Rumorosa?»

«No. Ru-mo-ro-sa, ti dico!» scimmiottò. E risero. Finché le risa non morirono da sole.

«Quanto manca?» chiese Sue.

«Un'ora, credo» rispose Areth. «Hai paura?»

«Tristezza», corresse. «Quattro giorni fa, non avrei mai immaginato che mi sarei ritrovata a tavola con il principe Xavier o a ricredermi su Marcus». Si rigirò la lunga veste bianca tra le dita. «Non avrei mai creduto di domandarmi il grande "e adesso?".»

Il sopracciglio di Marcus s'inarcò. «Perché? Finora ci sono stati solo quelli piccoli?»

«Sai che intendo. Sarà tutto come prima? L'Accademia? E noi? Saremo ancora lì?»

Areth sospirò. «Magari scomparisse qualche magagna.» Lei gli lanciò un'occhiata confusa, che lui liquidò con un cenno noncurante. «Sue, queste sono domande che avresti dovuto porti prima d'avvisare Occhioni Rossi.»

«Proprio non ti va giù, eh?»

«È stata una cretinata» disse fuori dai denti.

Sue si morse le labbra e non rispose. Come poteva dargli torto? Nemmeno lei sapeva se avesse fatto bene o male. Si tirò le ginocchia al petto. «Secondo te, che succederà quando Galia avrà superato il Giudizio?»

Areth tergiversò, scuro in viso. «Possiamo...ancora evitare che lo superi. Per sapere a cosa andrà incontro tua sorella, non è necessario modificare il destino di Galia.»

«Non hai cambiato idea?»

«Per Clara è importante che muoia.»

«Clara, eh?» fece eco acida. «Avete fatto amicizia in fretta questa notte.»

Sorrise. «Sei gelosa?»

«Io?  No» farfugliò. Tentennò. «Galia un po'» In realtà, distinguerlo era difficile. Ma lei non aveva ragione per essere gelosa di Areth. Scacciò il pensiero. «Clara ti ha detto perché dovrebbe essere importante?»

«No, ma non è innocente.» La guardò. «Sei davvero sicura di ciò che vuoi fare?»

Con gli occhi fissi in quelli che possedevano il verde acceso della sua famiglia, Sue se lo domandò ancora. Era giusto cambiare gli eventi per salvare Galia e lo Schieramento da un'accusa ingiusta o era solo un suo capriccio?

Rispose a entrambi.

«La soluzione a una strage non può essere un'altra strage, Areth. Ti rendi conto che Clara ti sta chiedendo questo? Di lasciare che novecento tra padri, madri e figli muoiano?» disse sommessa. Non distolse lo sguardo. «Io sono sicura, e tu?»

«No, ma mi fido. E questo è più importante.» S'alzò e la aiutò a fare altrettanto. «È meglio che mi cambi. Mi aspetti qui?»

Scosse il capo. «Devo fare un'ultima cosa prima del Giudizio.» Areth annuì e fece per andarsene. Ma lo fermò per un mano. C'era una dubbio che doveva togliersi. «Posso chiederti... che cosa vedi ora quando mi guardi?»

«Lo stesso che vede Marcus» rispose.

«Odio?» ipotizzò, delusa.

«No», sorrise Areth, «una dannatissima cocciuta.»

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