16 - ALL 𝐴𝐵𝑅𝐴𝐻𝐴𝑀𝑆, AND 𝐿𝐴𝑅𝑆 TOO

«Che ne pensi della torta di mele?» chiese Iris, con l'ultimo numero di Hemera Today dentro al voluminoso testo di letteratura. «C'è scritto: facile.»

«Perché t'ostini? La tua cucina è una tortura» disse Josh, che sfogliava un testo di Creazione Zivel del quinto anno appoggiato tramite la costa al tavolo di legno scuro della Biblioteca.

Quella mattina, il giorno dopo alla prova dell'Ingresso del Debutto, Iris si era precipitata nell'alloggio 113 per prendersi cura di Areth. Malgrado migliorasse e vista d'occhio, quella bruciatura non le piaceva affatto. In realtà, nemmeno a Josh: quando le aveva chiesto cosa facesse lì, era bastato un accenno alla condizione del suo compagno d'alloggio perché si defilasse in giaccia viola e ribrezzo.

Ora, con gli occhi sulla ricetta nella rivista e un delicato vestitino di chiffon bianco sotto alla giacca turchina, era tutto il pomeriggio pensava a come poter rendere più piacevole la ripresa di Areth.

«La tua opinione non conta, sei schizzinoso» borbottò querula. «Areth ha gusti più semplici.»

Josh ghignò. «È un nuovo modo per dire che gli piacciono le intossicazioni alimentari?»

Iris gli tirò un angolo strappato e accartocciato della rivista con un broncio che lo fece ghignare. «Intendevo dire che apprezza... le piccole cose.»

«Ti prego», lamentò cantilenante. «Le piccole cose.» Chiuse il libro e l'affidò a un'Emanazione tutta un metallo, che subito ripartì per metterlo a posto. «Fa tanto proletariato».

«Quanto sei cinico» liquidò Iris. Ricacciò il numero di Hemera Today in borsa. «Piuttosto passiamo alle questioni irrisolte.»

«Perché non si possano mangiare le ciambelle in Accademia?»

«Fai sul serio?»

Sorrise. «Pensavo giocassimo a chi la spara più grossa.»

«Divertente, Lars, ma no. Parlavo di Sue» disse acida e piazzò sul tavolo la lettera dalla cera rossa. «Questa roba dice tutto e niente. Scartiamo il niente, voglio il tutto.»

«Idee?» Josh agguantò il foglio. «La conosci più di me.»

Iris sentì quelle parole colpirla come un pugno alla bocca dello stomaco. Le scacciò con una risatina frivola. «Mi stai dicendo che venti minuti e un bel sorriso non ti sono stati sufficienti per capire tutta la sua vita?»

«Sì, ha un bel sorriso.»

La risatina di Iris si spense. Osservò l'amico: aveva gli angoli delle labbra curvati all'insù, l'occhiata scura ammorbidita da una luce strana e...

Sbigottì. «Per Hemera, Susanne ti piace!»

Josh s'accigliò. «Non essere ridicola. La conosco da due giorni.»

«Basta molto meno per invaghirsi di qualcuno. Non è stato così con quella Dillingham del Terzo Dominio, al nostro primo anno?»

«Tralasciamo l'argomento?» sibilò.

«Quale?» Iris sogghignò. «Dillingham o Bertrán?»

«Entrambi.» Josh tornò alla lettera, serio. «Una cosa è certa: chiunque l'abbia scritta, è qui.»

Iris inarcò un sopracciglio. «Come lo sai?»

«Guarda dietro, fiorellino»

Iris afferrò e girò il foglio. Benché piccolo e quasi in tinta con la carta, c'era il monogramma dell'Accademia. «Ha usato carta intestata? Che idiota.»

«Mi hai tolto le parole di bocca» commentò felino Josh.

Un improvviso tonfo accanto a loro li distrasse. Ci fu uno stridio e un fruscio strano. Quando si voltarono, ebbero sotto gli occhi l'Emanazione del ragazzo a terra, inciampata per colpa di una molto più piccola con un tomo tra le mani cespugliose.

Josh parve perplesso. «Inquy?»

Iris non fu da meno. «Chi?»

«L'Emanazione di Lady Bertrán.» E mentre osservava le due creature parlottare in un modo tutto loro, specificò: «Hannaline. Susanne se lo porta dietro.»

«Da quando le Emanazioni Zivel hanno un nome?» chiese Iris. «Hannaline non è tanto sentimentale» aggiunse d'istinto. E la turbò. Però Sue sì, giusto? O no? Si perse la risposta di Josh e si riebbe allo stormire di protesta di Inquy. Josh agli aveva sottratto il libro. «Cos'è?»

Lui glielo passò. «Legislazione di Hemera.»

«Legislazione? Cosa se ne fa Sue di ...» Non finì. Qualcuno la spinse in avanti e il libro cadde a terra. L'occhiata celeste, dardeggiante furia, si posò su una ragazzina con la giacca viola del Primo Dominio e due grossi denti da castoro. «Fa' più attenzione a dove vai!» sbottò. Si sistemò il vestito mentre l'altra, invece che scusarsi, bofonchiava al vuoto con tutta la bocca storta. «Questo è chiffon, svitata, hai una minima idea di quanto sia delicato?»

A viso infuocato quanto i suoi capelli corti e inselvatichiti, la ragazzina sembrò perdere la lingua d'un colpo. La guardò con occhi grandi e lucidi come quelli di uno scoiattolo, raccolse rapida il libro e la piccola emanazione erbacea e fuggì.

«Ma che maleducazione!» Battendo un tacco sul pavimento, piagnucolò: «Spero non l'abbia sgualcito. Volevo usarlo stasera con Areth».

«E ti lamenti?» sogghignò Josh, maligno. «Magari è la volta buona che impara come si toglie un vestito a una ragazza.»

«Finiscila» Gli diede una pacca sulla spalla e minacciosa fece: «O predo tutti i tuoi gemelli e li fondo.»

«Provaci» sibilò, occhi affilati ancor più stretti.

Rifilandogli in risposta un sorrisetto irriverente, Iris agguantò la lettera. «Chi l'ha scritta sarà anche in Accademia, ma questo posto è gigante.»

«Hai ragione» concordò. Iris lo vide appoggiarsi al tavolo e mordersi un labbro come faceva spesso quando era alla ricerca di chissà quale idea. Poi lo libero dai denti per sfoggiare un riso tanto furbo quanto contagioso. «Ma forse possiamo scoprire il perché sia stata scritta.»

Lei sorrise di rimando. «Che hai in mente?»

Josh le prese il polso destro e le carezzò il cerchio rosso del Riduttore. «Ti hanno mai detto, Krafti, che hai delle mani fantastiche?»

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«Suo zio ha detto questo?»
La gracchiante voce di Miss Von Weizsäcker, preveniente dal suo ufficio, era rivolta a Josh. Iris non era lì, ma nella stanzetta adiacente a origliare l'amico che sparava bugie a macchinetta su suo zio, sul Teatro Delfina e su come il primo avesse trovato il secondo in condizioni a dir poco deplorevoli, perché la donna lasciasse la stanza. E funzionò. Udi la dirigente gracchiare: «La Rettrice! Bisogna avvertire la Rettrice!»

L'attimo seguente, il segnale dell'amico arrivò. Uscì.

«Basta una copia» le disse Josh.

Iris annuì ed entrò nell'ufficio, chiudendosi la porta alle spalle. Non le era mai piaciuto quel posto: ogni volta che c'entrava rivedeva la sé di tre anni prima, attonita e con gli occhi lucidi mentre Miss Von Weizsäcker le comunicava che sarebbe stata sola per cinque anni.

Ignorò il cuore pesante. E saprò perché è successo.

Andò alla scrivania di betulla laccata e aprì il secondo cassetto. Il suo obiettivo era un libricino, non più grande di due palmi. Era speciale, infuso d'energia Krafti. Miss Von Weizsäcker lo usava per segnare le infrazioni commesse dagli studenti. Tutto ciò che scriveva veniva riportato nel curriculum scolastico dell'interessato, dato che, questi ultimi, erano custoditi proprio in quel libretto. Nessuno escluso.

Frugò, ma si fermò. Dalla porta, udì la voce calma di Josh. Parlottava con qualcuno dalla voce profonda.

Si sbrigò. Scovò il libretto sul fondo, tra una pinzatrice e un grosso spillone con lungo capello grigio attorcigliato. Lo tirò fuori e lo mise sul tavolo. Il tono di Josh mutò, quasi fosse arrabbiato. Poggiò una mano sulla copertina scura e recitò la Formulazione dalle parole sibilanti con superba sicurezza. Le serviva solo una copia del fascicolo di Sue. Il libretto reagì all'istante. S'aprì, si scollò quasi dovesse togliersi dell'acqua di dosso e...

E la porta si spalancò sulla figura nasuta di Mr. Cooper che si raddrizzava gli occhiali. «Lei che fa qui... da sola?»

«Aspettavo la Miss» rispose pronta Iris, con grazia. Adocchiò l'amico fuori dalla stanza. Aveva sentito bene: era irritato, gli occhi pari a due pozzi neri. «Ma suppongo che continuerò fuori.» soggiunse.

«Suppone bene» rimproverò l'insegante con un piglio sia adirato che spaesato. Dondolò lo sguardo verdognolo tra i due ragazzi e agitò una mano per aria. «Via da qui, entrambi.»

Iris non se lo fece ripetere. Uscì e, con Josh si avviò per il corridoio. «Come palo sei pessimo.»

«Colpevole», s'affrettò lui. «Allora, ce l'hai?»

Con una parolina, la copia del fascicolo gonfio di Susanne Cornelia Bertrán le apparve tra le mani. «Dubitavi della Krafti migliore che ci sia?»

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Un ventina di minuti dopo, Iris era di nuovo in biblioteca a camminava avanti e indietro davanti al bel tavolo di legno scuro con l'unghia del pollice tra i denti e gli occhi celesti pianati sul fascicolo di Sue.

«Perché non provi a girare la prima pagina a destra?» fece sarcastico. Josh, alle sue spalle. «Di solito funziona.»

Iris gli scoccò un'occhiataccia. «Non sei d'aiuto, Lars.» 

«Io avrei impegni.»

«Quali?» chiese.

«Quelli che mi hai fatto rimandare ieri.»

«La mia è una cosa seria. Non come la tua Miss dell'ultimo anno.»

«Faccio io» sbuffò Josh. L'affiancò e allungò un braccio verso il fascicolo.

Iris fu colta da un'improvvisa ondata di panico e lo fermò, mani premute sul plico. «No! Non ora.» Le scivolò dalla lingua.

«Perché no?» Josh fu esasperato.

Perché?
Iris avrebbe tanto voluto avere la risposta pronta. «Areth mi starà aspettando» cinguettò, rimettendo in fascicolo in borsa. «Lo leggerò dopo cena.»

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Se solo ci fosse stata anche Sue, per Iris, quel momento nell'alloggio 113, avrebbe potuto essere perfetto. Invece, l'atmosfera era strana. Josh si era messo a scribacchiare una lettera e lanciava ad Areth più occhiatacce del normale. Seppur con difficoltà, il biondo lo ignorava come un bimbo che tenta di sfuggire al genitore dopo una marachella e si concentrava su di lei. Seduto sul divano rosso del ricco salotto, la teneva sulle gambe e sussurrava parole dolci che le facevano vibrare le corde del cuore.

Come anticipato, Josh non restò a lungo: vestito da far invidia allo stesso principe, infilò la porta dopo aver mandato DH a recapitare il suo scritto a chissà chi e aver consigliato loro di fare ciò che avrebbe fatto lui "giusto per non essere noiosi". E se lei rise, Areth non fu dello stesso avviso.

«Non fare quella faccia» disse Iris quando furono soli. «Scherza.»

«Per te scherza sempre» mormorò con tedio. «Quando capirai che quel ragazzo ti fa male?»

Iris s'accoccolò tra le sue braccia. «Male? Impossibile. Ha le lentiggini ed è risaputo che chi le ha non può fare del male.»

Ridacchiò «Dove l'avresti sentita questa?»

«L'ho inventata, così la smetti di brontolare» bisbigliò mielosa. «Se non te ne fossi reso conto, parli di lui come mio padre parla di te.» Suo padre diceva sempre che Areth per lei era solo un male. In tre anni, non gli aveva mai dato retta perché, lo sapeva, erano i pregiudizi a parlare. Giocò con la cravatta grigia; il nodo, come sempre, era mal fatto. «Guarda che, se continui così, finirò per sposare lui e non te.»

Il ragazzo s'incupì. «A questo proposito...»

«Areth», sorrise, «non ero seria.»

«Ma io sì.» Tergiversò, occhi preoccupati. «Iris, ne sei sicura? Sono un Necromant, sposarmi è... uno scambio sfavorevole per te.»

Perplessa, drizzò la schiena di scatto. «Dovrei vederlo come... uno scambio?»

«Sì», rispose greve. «Saresti costretta a vivere con me, nella Cerchia Secondaria.»

Lo sapeva. «Mi starebbe bene. Mi basti tu.»

«Non mentire a te stessa» la riprese morbido, mani guantate sui suoi poldi. «Non è lo Snodo o la tua Cerchia. Santo cielo, non è nemmeno l'Accademia. Non si vive bene e una volta che ci entri, ci resti. Vorresti davvero tutto questo? Hai già rinunciato al tuo posto nella Convergenza a causa...»

Quel mia non lo pronunciò; Iris gli tappò la bocca con un bacio. Per quanto fosse vero, non voleva che lui lo dicesse. Fu più intenso di quanto s'aspettasse quasi come se con quel bacio le stesse chiedendo scusa.

S'allontanò. «Sono sicura. Perché tu no?»

Il ragazzo s'azzittì, forse alla ricerca delle parole adatte. Le carezzò le braccia che il grazioso vestitino di chiffon lasciava nude. I guanti scivolavano soffici. «Fuori da qui, il mondo in cui vivo è ben diverso dal tuo. Non saresti felice.»

Iris adagiò il capo sulla sua spalla e si lasciò cullare dal profumo del ragazzo, un misto di pulito e freschezza. «E allora? Uniamoli.» dichiarò. «Per noi.» Areth le sistemò una ciocca scura dietro l'orecchio e le rivolse uno sguardo tanto intenso che, se fosse stata in piedi, le avrebbe fatto ballare le ginocchia.

Sorrise. «Cosa c'è?»

Esitò. Ma alla fine disse: «Vorrei essere diverso per poterti dare tutto ciò che meriteresti.»

Iris sapeva che non si riferiva unicamente al discorso delle Cerchie. Era trascorso quasi un anno prima Areth superasse i timori e la baciasse. Gli scoccò un bacio sul palmo coperto dal guanti. «Ma non voglio che tu lo sia. Tempo al tempo. Non c'è fretta.»

Lui sorrise e per il resto della serata rimase con lui. Rientrò in camera sua col buio. Lo sguardo le cadde una volta sola sulla sua borsa e il fascicolo che conteneva.

È tardi, si disse, lo leggerò domani.

Lo giurò. Ma non lo fece. Il pomeriggio seguente fu in biblioteca – senza Josh, dato che le aveva detto d'aspettare una risposta importante e che l'avrebbe raggiunta in seguito - seduta allo stesso tavolo di legno scuro a fissare quel fascicolo.

C'era qualcosa che non andava, che la turbava.

Temporeggiò per ore.

È questo posto, concluse. Sì, doveva essere così. Era quello ciò che non andava. Di certo, la biblioteca non era il posto adatto per scoprire perché Sue fosse sparita per tre anni.

Rimise il fascicolo in borsa e se ne andò.

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Josh aveva un problema.

Di  nome Areth Mead. E, quando il giorno prima, qualcuno gli aveva riferito che aveva fatto ciò che non avrebbe dovuto, il fantomatico vaso era traboccato.

Ma aveva la soluzione.

Per questo fu felice, quel pomeriggio, lo vide rientrare nel loro alloggio. Era visibilmente irritato e fradicio, dalla chioma bionda appiccicata alla fronte alle scarpe piene di fango.

Seduto a leggere sul divano rosso della salotto, si divertì nell'assistere all'impaccio con cui il Necromant cercò di nascondere la sua lucerna dietro la schiena e con cui gli chiese: «Che ci fai già qui? Non dovresti essere in biblioteca?»

«Vuoi un consiglio?» Josh si alzò e fece avvicinare il loro Asservito, DH, che portava un vassoio con due bicchieri. Uno dei due lo porse ad Areth, che lo guardo confuso. «Quando non vuoi sembrare sospetto, la prima cosa che devi evitare è chiedere perché una persona non si trovi nel posto in cui credevi si trovasse. Mi segui? Diventa palese.»

«Sai che non bevo» rifiutò Areth.

Josh ordinò all'Asservito di mettere a posto la lucerna e questo liberò le mani di Areth, che impallidì come ogni buon ladro colto in fragrante. «Oggi sì. È un distillato, ottimo» sorrise e gli piazzò il bicchiere in mano. «E poi, dopo che ti sei divertito per due pomeriggi interi con le mie cose, il minimo che tu possa fare è assecondarmi. Anche se con quel muso lungo, non dev'essere stato piacevole. Che ha fatto Susanne?»

Il biondo, gocciolante pioggia, allibì. «Come sai che...»

«Susanne non c'è, tu nemmeno», l'interruppe mentre afferrava il secondo bicchiere. «Magari non credo alle coincidenze.»

Areth deglutì. «Senti, so cosa stai pensando...»

«Ma davvero?»

«E che sei arrabbiato...»

«Ti sembro arrabbiato?» domandò quieto.

Areth indugiò. «No», disse stupito.

«Perché non lo sono» affermò Josh allegro. Aveva appiccicato in faccia uno di quei sorrisi impossibili da scollare. «Voglio festeggiare.»

«Cosa?» domandò Areth, sospettoso.

Josh adocchiò fuori. Il cielo si era scurito all'inverosimile e gli ricordò Iris. «In questi anni di convivenza forzata, ho sopportato la tua goffaggine, la tua ottusità e la tua orribile natura da Necromant. Ora, taccio persino i tuoi segreti.»

«L'hai deciso tu»

Lo guardò. «E dovresti solo che esserne riconoscente, non trovi?» Gli si avvicinò e lui indietreggiò. «Invece, rubi le mie cose e sono due giorni che stai appiccicato a Susanne.»

«Che ti importa di come passo il mio tempo o se lo passo con Susanne?»

In realtà, avrebbe avuto difficoltà a rispondere. In quei due giorni, Susanne non aveva fatto altro che evitarlo. Il perché era lampante, glielo leggeva in viso: cercava di nascondere qualcosa, con molta probabilità sul Giudizio di Sangue. Eppure, continuava a pensare a lei. Quella sensazione che aveva provato sin da quanto l'aveva incontrata la prima volta cresceva e l'idea che potesse trascorre i pomeriggi con Areth lo disturbava. Quindi, gli importava?

Rispose in altro modo. «Mi sembrava di averti ho detto chiaramente che tu sei l'ultimo che dovrebbe star vicino a un erede della Convergenza, piccolo complottista da strapazzo.»

L'espressione di Areth si fece seria. «Non è come pensi.»

«No? Il Movimento per l'Accettazione Necromant ha deciso che non vuole più un seggio?»

«Non in questo modo.»

«E dovrei crederci?» Lo squadrò. «Sai cosa credo? Che tu abbia già fatto troppi danni. Quindi, festeggiamo la tua partenza.»

Areth era spaesato. «Partenza?»

«Esatto.» Chiamò il suo Asservito. «È arrivata la risposta?»

«È qui, Lord» disse deferente quando gli fu al fianco. Aveva in mano un vassoio, sopra questo una busta che porse ad Areth. «È per voi, Mr. Mead.»

Lui la raccolse, lesse e assunse il colore del gesso. «Mi hai fatto espellere?»

«Tecnicamente no. Ho solo fatto il mio dovere. Ho avvisato la rettrice.» Sorrise. «Sei fortunato che io tenga a Iris e non abbia voluto rivolgermi alle autorità, Necromant. Ma chissà, magari lo farà Mrs. Moukarbel.»

«Andiamo non può averti preso sul serio.» Lesse ancora. «È... uno scherzo.»

«Ti avevo avvertito, Mead, di non irritarmi.» Si godé un sorso di liquore, soddisfatto. «Non sgocciolare in giro mentre torni alla tua miserevole Cerchia, d'accordo?»

E uscì. Lo lasciò lì, in guazzo d'acqua piovana.

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Iris si rifugiò nel suo cortile, tra la Biblioteca, l'Osservatorio e il Vivaio. Pioveva. L'aria sapeva di umido e il cielo era un unico manto nerastro che non le piaceva. Seduta sul muretto, protetta da una piccola tettoia spiovente, stringeva il fascicolo e pensava a Sue, con l'eco delle parole di Josh. La conosci meglio di me. Ma era così? In mente, aveva due immagini: quella della ragazza che aveva preso dimora nel suo alloggio qualche giorno prima e quella d'una Susanne tredicenne. Le mise a confronto e si chiese quando, per l'esattezza, avesse iniziato a vederle come due persone diverse. È sempre Sue. Si ripeteva. Ma allora perché aveva la sensazione di mentire a se stessa?

«Diventi prevedibile sai?»

Udì d'un tratto. Non ebbe bisogno di voltarsi per sapere chi fosse. Le bastò il profumo dolciastro della Myrciaria Ericea che gli si era incollato addosso da quell'estate. «Che fai qui?»

Josh le si sedette accanto. «Piove.»

«Quindi?»

«Il cielo buio ti rende triste» affermò, strappandole il fantasma di un sorriso. «Non l'hai aperto, vero?»

Iris passò le dita sul fascicolo. L'umidità aveva arricciato e gonfiato la carta. Forse aveva fatto lo stesso col suo cuore: lo sentì di colpo pesante e dolorante. «Non so se voglio.»

«Perché?» chiese ancora.

Perché... La risposta ora l'aveva e non le piaceva.

Inspirò. «Sue è sempre stata la mia migliore amica. Non c'è mai stata persona a cui tenessi più di lei. Tre anni fa, quando è scomparsa di punto in bianco, mi ha... distrutta.» A quell'ultima parola le labbra le tremarono, gli occhi divennero lucidi. «E quando mi hai detto che era qui, ero così arrabbiata. Avrei voluto urlarle addosso. Invece, appena l'ho lasciata parlare, la sola cosa che volevo era riavere la mia amica. Ho ignorato tutto. Persino te.» Sulle guance le crollarono lacrime scure trucco. Le scacciò con una manata tremule, che spanse orme nere. «Ma ora lei per me è un'estranea. E qualsiasi cosa io trovi in questo fascicolo, non mi darà indietro la mia amica.» Singhiozzò. «Crederlo è stato così...Per Hemera, sono una stupida.»

«No,» obbiettò Josh, «sei egocentrica, viziata, invadente, petulate, spesso ossessiva.»

Iris gli rifilò una pacca sulla spalla, inviperita. «Altro, Lars?»

«Sì, ti piacciono quei mostriciattoli pulciosi».

«Si chiamano gatti.»

Lui tralasciò. ««Sei molte cose, Iris, ma non stupida.»

Una risata nervosa le sfuggì dalle labbra. «Per tre anni, sono rimasta aggrappata a qualcosa, qualcuno, che non esiste più solo perché desideravo riaverlo. Cosa sarebbe se non stupido?»

Josh abbassò lo sguardo color pece su di lei e le pulì una guancia col pollice. Sapeva di essere un disastro - con il trucco sbavato e gli occhi arrossati– così come sapeva che all'amico non importava di come apparisse. Le rispose a voce bassa, comprensiva. «Umano.»

Iris non lo guardò. Tenne il capo basso, sentì di non avere le forze per ricambiare. Si vide come la ragazzina di tre anni prima con la speranza negli occhi, ma il cuore spezzato.  Ammutolì.

«Forse. Però...» pigolò poi, labbra ancora vibranti e occhi lucidi. «Però fa male lo stesso.»

Ed esplose: pianse. Il fascicolo cadde a terra e non lo raccolse. Sentì Josh portarla sulle sue gambe, abbracciala e stringerla più forte contro il suo petto quanto tremava. Non le disse una parola; non serviva.

Le sarebbe andato bene anche se l'avesse stretta tanto da bloccarle il respiro. Perché, se fosse stato per lei, non si sarebbe permessa di piangere. Odiava piangere. Lei non piangeva. Eppure, dovette, per sbarazzarsi di tutto: tristezza, rancore, rabbia, aspettative. Dell'idea della sua migliore amica che aveva trattenuto con le strenue mani di una bimba ferita.

Non seppe per quanto andò avanti; quando il temporale soppiantò i suoi singhiozzi, Josh la riportò nel suo alloggio senza che glielo chiedesse.

In un bagliore azzurrognolo, la copia delfascicolo di Sue si dissolse

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