15 - A TALE OF TWO 𝑍𝐼𝑉𝐸𝐿
La pioggia batteva sui vetri della carrozza; tuonava. Ovunque Sue guardasse, vedeva nero: nubi scure, strisce di terra lugubri e corsi d'acqua pari a melmosa pece.
Nella carrozza illuminata da una minuta sfera Krafti, fluttuante e azzurrognola, il clima era simile. La temperatura era scesa; persino il velluto rossiccio dei sedili aveva perso calore. La luce fioca plasmava ombre nette e tetre. Regnava un silenzio ingombrante. Marcus non aveva aperto bocca. Fissava oltre il vetro con aria assorta. Sotto al mantello, invece, Sue tremava. Oltre al freddo, l'oscillante procedere della vettura le provocava un prepotente senso di nausea, acuito dalle asperità del terreno. Mai aveva desiderato un viaggio in auto più di quel momento, con il riscaldamento accesso e gomme solide su una strada ben asfaltata. E aveva paura: le gelava le ossa e le scuoteva le membra con una furia. Stringeva lo stiletto di Clara come se fosse l'ancora di salvezza.
Marcus dovette notare il suo tremore. «Hai freddo?» La guardò appena, occhi glaciali.
Secondo te? Diluvia! Sue si contenne. «Sto bene.»
«Non sembra.»
«Ti interessa?»
«Mi interessava» affermò perentorio. Poi s'azzittì di nuovo.
Ma Sue non volle lasciar morire la conversazione. Quali altre occasioni avrebbe avuto per parlare con l'uomo che aveva creato il Giudizio di Sangue, che aveva dato vita alla sua Casata?
Prese coraggio e cercò un argomento appetibile. «Com'è stata la permanenza al confine Ovest?» chiese.
Marcus non si voltò, il profilo era tagliente. «Proficua.»
«Tanto da partire in fretta e furia?» incalzò.
«Non è affar tuo» soffiò rabbioso, a labbra strette, tanto che le fece stringere i palmi sullo stiletto,
«Allora perché insistere nel volermi qui? È affar mio.» Azzardo un tono più duro. «Non vedi l'ora di sbarazzarti di me?»
Al lampo che illuminò la carrozza, gli occhi smeraldini di Marcus si piantarono nei suoi. Dardeggiavano d'ira. Scoppiò il tuono. «Sì»
Sue rabbrividì. «Neanche neghi?»
«Dovrei? Pensi che io faccia giochetti come te e Clara?»
«Non so di cosa tu stia parlando.»
«No?» Abbassò lo sguardo sul mantello blu e un tralcio robusto strappò lo stiletto dalle mani di Sue, che mugghiò di dolore mentre il sangue caldo le macchiava la pelle in grossi rivoli. L'arma, di metallo nero e decori in quarzo citrino, tra le mani di Marcus gocciolava rosso.
«Avrei voluto che finisse diversamente, Gal» disse, sommesso e freddo. «Ma dopo quello che hai fatto, è l'unica fine possibile. Non meriti un processo, non meriti che lui ti guardi.»
Sue si fece forte delle parole di Lucio. «Non sono responsabile dell'attenta...»
«Parlo di Nathaniel, che non vuole appoggiarti», ringhiò, «e della su casa, quella che tu e il tuo Schieramento avete dato alle fiamme una settimana fa, con le sue figlie dentro.»uaQuella
Sue sbiancò. Galia aveva davvero permesso una cosa simile? Non poté replicare perché la lama gelida dello stiletto le baciò la gola. Trasalì e si schiacciò contro il sedile.
«Ricordi quando nacque Morissa, Gal? Dicesti che noi della Convergenza eravamo ciò che più di importante esista al mondo: una famiglia.» Sotto le lunghe ciglia, i suoi occhi erano pozze nere di rabbia. «E la uccidi?»
«È ciò che vuoi fare tu.» Deglutì. «Adesso.»
Schiuse le labbra in un sorriso ferino. «Lascerò che sia il tuo Schieramento a vendicarti. Se avranno il fegato.»
E il traliccio affondò lo stiletto... nell'imbottitura del sedile.
Uno scossone della carrozza aveva spinto Sue contro lo sportello, che si spalancò in pieno. Non ci pensò due volte: imboccò l'uscita e si buttò dall'abitacolo della vettura in corsa, sotto la pioggia battente.
Lo scontro con lo sterrato fu brutale; le mozzò il fiato. Rotolò, si bloccò quando piazzò le mani al suolo. Le ferite dello stiletto lungo i palmi si riempirono di fangoso terriccio. Bruciavano quanto il fuoco, ma non poteva restare li. S'alzò a fatica e impallidì. Davanti a lei, Marcus smontava dalla carrozza ferma.
Devo andarmene. Si guardò attorno: c'erano solo distese verdi. Nessuna casa, nessun riparo; una piana vuota imperversata dal temporale. E il Lord s'avvicinava. Così, calciò via le scarpe, raccolse la gonna e corse.
Ma non durò a lungo: una stretta ferrea le morse le caviglie, rovinò nel fango in un colpo secco e fu trascinata all'indietro. Sino ai piedi di Marcus: la costrinse ad alzarsi, strattonandola per i capelli fradici. Cacciò un grido e li artigliò la mano con le unghie, ma non servì.
«Prima parli di famiglia», berciò, «e ora fuggi dopo averla distrutta, Gal? È indegno di te.»
«Marcus, io sono la tua famiglia.» Sue non seppe con che coraggio parlò. Le parole le scivolarono dalle labbra da sole mentre il cuore le martellava nel petto. Forse erano dettate da Galia.
«Lo eri.»
«No, lo sono!» Che fosse lei o Galia a parlare, era la verità.
«Taci!» Marcus le scoccò un'occhiata irosa e quel che successe poi fu rapido: in meno di un battito di ciglia, Sue ebbe spessi rovi ad avvoltolarle il corpo, sino al collo. Le spine robuste le lacerarono l'abito, le graffiarono la pelle.
«Sono tua nipote.»
Lui non dovette udirla e se lo fece, la ignorò. I rovi la stritolarono aggressivi: le spine le perforarono la carne delle gambe e si insinuarono crudeli nei tagli sulle mani. Sue scattò in urlò di dolore lancinante che le ferì la gola e altro sangue le bagnò sia la pelle che le stoffa bianca.
«Sono tua nipote.»
Lo ripeté, ancora e ancora. O forse lo pensò e basta, perché le labbra erano immobili. Mentre i fusti acuminati continuavano a stringersi e Marcus a parlare, l'assalì un dolore che non sopportò.
Marcus divenne una macchia indistinta nella vista offuscata, la sua voce fu pari a un ronzio lontano. Percepì solo il sangue caldo ricolorarle la pelle ogni qualvolta che la pioggia lo lavava via, il sapore ferroso in bocca e...
D'un tratto, i rovi la liberarono. Rovinò a terra, con le dita immerse nel fango e i capelli bagnati appiccicati al viso, mentre anche Marcus, sotto il diluvio, crollava inerte.
Per un tempo indefinito, lo guardò e basta, impietrita. Poi l'attanagliò una preoccupazione schiacciante come se davanti a sé avesse sua sorella; Il cuore le martellò nel petto come se fosse suo fratello. O, meglio, quello di Galia.
«Marcus!» gridò.
Si tirò in piedi, sulle gambe fiacche e stillanti rosso. Cadde tre volte. Alla quarta, pur di avanzare, lo fece con le braccia nel brago. Arrivò al suo fianco e lo scosse, voce rotta. «Marcus!» Non ebbe risposta. Gli prese il viso, nel panico. «Marcus!»
Devo essere impazzita a farlo rinvenire... Eppure, il dolore di Galia la obbligò. Perseverò: lo scosse, gridò, colpì. Pianse lacrime che si mischiarono alla pioggia. Non aveva neppure idea di come o cosa fosse successo per ridurlo così.
«Maledizione, svegliati!»
All'ennesimo schiaffo, Marcus rinvenne. Ma i suoi occhi furono diversi: limpidi, vispi, accesi.
«Cielo, finiscila» sbottò. Si sedette a fatica e mugugnò lamenti in una lingua strana, dal suono sgraziato. «Mi è bastato lo schiaffo da Tullé.»
«A-areth?», farfugliò Sue sbigottita, «sei tu?»
«Sì...o sei solita tirare ceffoni a chiunque sia da Tullé?» La squadrò da capo a piedi e inorridì, «Quello è... P-perché sei coperta di sangue? Stai bene?»
Lo ignorò. Ebbe in testa le parole di Clara: "Pioverà acqua, sangue e morte " ed esclamò: «La morte sei tu!»
«Sarò un Necromant, ma questa non è una cosa carina da dire.»
«Clara doveva riferirsi a te! Ha visto te!» Gli gettò le braccia al collo con tanta foga che lo ricacciò con la schiena nel fango. «Per Hemera, grazie!»
«Sue», tartagliò Areth, «non respiro.»
Repentina, lo lasciò e si mise a sedere. «Scusa.»
«Cosa cercavi di dire? Senza strillare come un'aquila, magari.»
Sue scosse il capo. Cosa le importava delle parole di Clara? Era viva, era vivo Marcus, Areth era inaspettatamente con lei. Quello era l'importante. Si pulì gli occhi con una manata, che le sporcò le guance di rosso, e lo aiutò a rialzarsi. In realtà, dovettero sostenersi a vicenda. «Ti spiego tutto all'asciutto. Ne ho abbastanza della pioggia per oggi.»
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«Quindi non hai novità sul Giudizio di Sangue?» domandò Areth, fasciandole le mani.
Rimontati in carrozza e ripartiti, avevano presto constatato due grandi fatti: che l'approdo provvidenziale di Areth era stato casuale e che durante l'Immersione non era in grado di usufruire della sua Abilità. Dunque, per i tagli s'arrangiarono con le belle tendine della vettura. Sue era quella messa peggio; il vestito azzurrognolo era un miscuglio di sangue, acqua e fango.
«Che Marcus è partito improvvisamente dal fronte Ovest una settimana fa. Ahi!» lamentò. «Dovrebbe avere con sé ciò che riguarda il processo di Galia, a detta di Lucio.» Areth, che si era creato dei guanti sempre con una tendina, la guardò interrogativo. «Non importa chi sia. Avanti. Cerca.»
Lui si tastò e controllò le tasche. «Niente. Le valigie? Dove sono?»
Sue pensò e la voce stridula di Charlotte contro Celio le rimbombò nelle orecchie. Il cappello-trampoliere! La carrozza coi bagagli è...
«Lontane.» Si morse le labbra. S'illuminò. «Perché non chiedi a Marcus? Nella mia prima Immersione potevo sentire i pensieri di Galia. Non so perché ora io non riesca, ma...»
«Non puoi perché non sei una spettatrice. Ora agisci. C'è la tua coscienza, quella di Galia è... in disparte. Se sentissimo ogni pensiero, sarebbe abbastanza affollato da farci impazzire. Ma possiamo avvertire le loro», il tono s'incupì, «emozioni forti. Puoi girarti? Vorrei controllare la ferita al collo.»
Sue riuscì per metà, sul fianco. «Quindi... è vero?»
«I capelli.» Lei li raccolse tra le mani. «Vero cosa?»
«Marcus odia Galia tanto da ucciderla?» La voce vibrò, angosciata. «È questo quel che provi quando la guardi?»
«Sue, non lasciarti condizionare.»
«Per piacere» insistette. Perché l'ho sentito, ho sentito la sofferenza di Galia quando Marcus era a terra. «La odia?»
Le sembrò assurdo ma ebbe il bisogno che le rispondesse "no". Forse era Galia a volerlo perché, quando lei lo guardava, vedeva un nemico, ma anche un amico e un fratello.
Areth ammutolì per un minuto, indeciso. Poi mesto, bisbigliò: «Mi dispiace».
Sue comprese e il cuore le si strinse. Così, Ingoiando l'aspro groppo in gola, cambiò argomento. «Saranno passate... sei ore, eri ancora ai busti?»
«In realtà, per me è trascorso circa un minuto» disse Areth, protesosi verso di lei. Il suo fiato le solcò la nuca e le mani le scostarono il colletto intriso di rosso dalle impronte delle spine.
«E perché l'hai fatto?» chiese lei, adocchiandolo da sopra la spalla. Sul viso di Marcus si dipinse un'espressione che la sbalordì. Si girò, muso a muso. «Non ti fidi?» accusò.
«Non fare quella faccia. Stavi per farti ...farla ammazzare.» L'afferrò per le spalle e la fece voltare di nuovo. «Ferma.»
«Mi sarei liberata», squittì sdegnata Sue. Sapeva di mentire. «Non servivi.»
I tratti di Marcus resero il sorrisino di Areth tre volte più fastidioso. «Ricordami a chi stavi dicendo grazie.»
«Al caso, ringraziavo il caso. Piuttosto che sprecare un altro grazie con te, mi taglierei la lingua» sibilò a viso rosso d'imbarazzo e occhi stretti in due fessure mentre lui riprendeva il suo lavoro con una risatina irritante. «E sbaglio o sei stato tu a precisare che Galia morirà col Giudizio? Prima è impossibile.»
«Non... ne sono certo» farfugliò lui.
«Vuoi dire...», incredula, Sue si voltò per l'ennesima volta, «che sarebbe morta? Possiamo cambiare la storia??»
Areth s'accigliò. «Ma vuoi stare ferma?»
«Prima rispondi.»
Esitò. «Forse.»
«Forse?»
«È la prima volta che faccio una cosa del genere, Sue!» si difese. «Legare due coscienze non è una pratica sicura. Interagiamo, dunque, teoricamente, sì. Dovrei sapere con esattezza la procedura usata dagli Abbott sui busti per avere una certezza» chiosò. «Quindi ...»
«Se morisse prima, potrei perdere le possibilità di scoprire a cosa va incontro mia sorella.»
Areth assentì. «Cosa vuoi fare?»
Sue si chiuse un breve mutismo. Da una parte era spaventata a morte, desiderava solo dimenticare e tornare a casa. Ma dall'altra...
È vero. La famiglia è ciò che di più importante esista al mondo.
«Troviamo i bagagli di Marcus», dichiarò, «devo sapere come funziona il Giudizio.»
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Varcarono Porta Marchese col sole al tramonto e l'aria frizzantina. Osservarono assieme le vie dello Snodo di duecentoventi anni prima. La periferia della città era spoglia e silente, con poche case, piccole e solide, che davano sulle strade bianchissime in costruzione. Aleggiava l'incerta quiete del cambiamento. Il centro era l'opposto: chiassoso, vivo, gremito di Privilegiati e d'abitazioni ampie. E non s'arrendeva alle ombre della sera. Era brillante. Ovunque si guardasse, centinaia di sfere Krafti fluttuavano per aria come lucciole, irradiando i marmi lucidi con la loro luce celestina.
E se Sue ne fu affascinata, Areth fu rapito. Gli occhi austeri di Marcus erano diventati quelli eccitati di un bambino. «È sempre così?»
«Penso» mormorò lei.
«È bellissimo» bisbigliò Areth a pochi centimetri dal vetro, ancora sporco di pioggia. E sorrise.
Sue s'intenerì e non si stupì: come Necromant, Areth non doveva aver molte occasioni per varcare i confini della Cerchia Secondaria, più grigia e, secondo molti, lugubre.
«Lo è» ricambiò il sorriso e non lo disturbò.
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La carrozza s'arrestò da sola davanti all'edificio più alto dello Snodo: la Reggia Rossa. Sembrava colossale. Sue vide minuta quanto una formica.
Col sangue e la terra sugli abiti coperti dai mantelli, furono accolti da una giovane vestita di nero, un neo tra i muri scarlatti. Gli altri membri della Convergenza erano già riuniti e li guardavano: Celio e Sage parlottavano, Charlotte tediava l'ancora incappucciata Clara, ma ciò che paralizzò Sue fu Nathaniel Rafael Lars.
Affiancato da Lady Briza Alya Moreau, una donna possente dalla foltissima chioma riccia e bruna, Nathaniel era diverso da Josh. I capelli e l'incarnato erano più chiari di almeno due toni, era più basso e massiccio e il viso era più simile a un grugno indignato, ma gli occhi erano identici. Due pozzi neri, taglienti e ammalianti, che...
La fissavano brucianti d'odio, cupi. Scavavano nei suoi con una rabbia che le raggiunse il petto e le aprì un buco nel cuore. Ma poteva forse essere diverso, si chiese, nel trovarsi a tu per tu con la responsabile della morte delle sue figlie? Dovette volgersi altrove e farsi piccola piccola.
Tuttavia, non resto a lungo: un secondo uomo abbigliato di nero, dal petto largo e la vita stretta, pretese che Galia lo seguisse. A suo dire, l'ordine giungeva direttamente dal Principe Xavier.
Sue non poté opporsi e, in parte, fu sollevata nell'allontanarsi dall'antenato di Josh. Ebbe appena il tempo di scambiare due battute con Areth, poi dovette accodarsi al servitore pettoruto, angosciata. La scortò fino a una stanzetta angusta, dotata solo di un lettuccio malandato e un comò microscopico, dell'ultimo piano. La fece entrare e, senza una parola, chiuse la porta dietro di lei.
La serratura scattò e Sue fu sola.
Aspettare che Areth trovasse quei bagagli fu una noia. Il picco d'emozione lo ebbe quando lo stesso omone in rosso giunse fugace per consegnale un piatto di brodaglia puzzolente e il bagaglio di Galia. Ignorò il primo e aprì il secondo. Sperò in qualcosa di utile, ma trovò solo abiti.
Almeno mi tolgo questa roba. Lottò per sfilarsi il busto. Tra un laccetto e l'altro, le sfuggì anche qualche parola indecente per una Lady. Quando se ne liberò, inspirò così a fondo che i polmoni sarebbero potuti scoppiare. Indossò un leggero abito color borgogna, privo di maniche, e pensò alle sue mani. Tolse le bende arrabattate con le tendine. I tagli dolevano, ma non sanguinavano più. Le rifasciò meglio che poté con della stoffa recuperata da una delle gonne nella valigia. Poi s'abbandonò sul letto. Era scomodo e dall'odore così sgradevole che le attorcigliò lo stomaco. Ma non se ne lamentò. Galia è sotto accusa, è già tanto se non sono in una cella.
Un colpo alla finestra le fece balzare il cuore in gola. Saltò sedere, guardò e dietro al vetro fece capolino il viso di Marcus. Sbigottì. Corse ad aprire. «Arteh? Ma che stai facendo? Da dove...»
«La stanza di sotto, mi sono arrampicato sul cornicione. Hai due gorilla piantati alla porta» spiegò svelto mentre scavalcava il davanzale fresco come una rosa.
E, si disse Sue, profumava anche di rosa. Bastò un'occhiata più attenta per notare molto di più: il viso era pulito, i vestiti erano diversi e sulle mani aveva guanti su misura. A confronto, lei era ancora un disastro, coi capelli incrostati di fango secco. «Ti sei fatto un bagno?»
«Sì prima di cena. Perché?»
«Cena?» Al suono del suo stomaco brontolante, s'accigliò. «Per questo ci hai messo tre ore? Bagno, cena e cos'altro?»
«Ti ricordo che stai parlando con chi ha appena rischiato l'osso del collo per portanti questa.» Si sporse dalla finestra, protese un braccio e, quando lo tirò su, ebbe tra le mani una valigia di pelle bruna, larga ma sottile.
Sue s'illuminò. «È quella di Marcus?»
Areth annuì. Lei fece per prenderla, ma la scostò. «La gratitudine non è il tuo forte, vero? Come si dice?»
«Gra...ve errore arrampicarsi su un cornicione se hai passato i trentacinque?» Agguantò la valigia. «Controlliamola.»
Areth sospirò con gli occhi al cielo e si sederono sul letto con il bagaglio tra di loro. Sue passò le dita sulla pelle fredda e liscia. Con un misto di curiosità e timore, fece scattare le chiusure ai lati.
«Mi aspettavo dei vestiti» disse, fissando la valigia che strabordava di fogli, buste e agende. «Come viaggia senza?»
Gli occhi verdi di Marcus si posarono nei suoi, ma lo sguardo fu quello saccente di Areth. «Sue, possiamo concentrarci sul problema principale? Il guardaroba glielo controlli un'altra volta.» Lei borbottò indispettita mentre lui tirava fuori dei libretti e li sfogliava. «Sono... appunti, disegni tecnici.» Lesse qualche riga. «Metà di questa roba non si capisce. Sembra in codice.»
Sue prese un quadernetto non più grosso di una spanna. Dentro assieme alle scritte incomprensibili, la sorpresero dei disegni che riconobbe. «Guarda qui.» Areth si protese verso di lei. «C'è il progetto del ponte dello Snodo, delle porte della città, dei condotti.»
Quando voltò pagina, il ragazzo puntò un bozzetto sul fondo. Sembrava un enorme cancello, tetro e massiccio, che terminava in enormi spunzoni. «Questo è il sistema d'accesso della Cerchia Secondaria.»
Sue lo guardò. «Davvero? Non li ho mai visti». Ebbe il viso di Marcus così vicino da non distinguerne i contorni, ma vide con chiarezza il sorriso amaro.
«Sì.» Schiarì la gola. «Sono due. Abito vicino a quello Est.»
«E com'è?»
«Cosa?»
«La Cerchia Secondaria.» Ne aveva sentito solo parlare. «È così male?»
Areth ammutolì, occhi bassi. Poi scrollò le spalle. «È comunque casa.»
Ora fu la voce di Sue a incupirsi e carezzò la carta ruvida, mesta. «Marcus era... un inventore di cose terribili.»
Per un minuto, Areth tacque, poi tornò alla pagina precedente. «Il ponte non è così male.»
Sue ridacchiò divertita. «Ora sei un intenditore di ponti?»
«No», le sorrise tenue, «ma ti ho fatto ridere.»
Sue lo guardò e ricambiò. Capì perché Iris tenesse tanto a lui. Poi spostò di nuovo lo sguardo sul quadernetto. «Hai detto che metà di questa roba non si capisce. L'altra?»
Areth si ritrasse e frugò. «Corrispondenza». Controllò un paio di buste. «Con un certo Dante.»
Sue drizzò la schiena, attenta, e prese una delle lettere. Risaliva a cinque mesi prima. La firma, dai tratti rapidi e decisi, era quella del quadro di Morissa. «Dev'essere quel Dan di cui parlava Lucio.»
Incuriosita, lesse l'inizio: «Marcus, perché non mi hai avvisato? Credevo che tra noi vigesse sincerità.»
«Si può sapere chi è Lucio?» chiese Areth. Anche lui leggeva.
«L'amante di Galia. Era a letto con lui quando sono approdata» rispose. E concluse la lettura: «Sono rientrato allo Snodo, ieri. Ti aspettavo. Non ti sei presentato e non hai potuto vedere. Sai cosa ho visto? Paura. Gli Zivel sono osteggiati e lo Schieramento dilaga. L'odio dilaga, Marcus.»
«Come?»
La voce di Areth ebbe una nota strana, che la costrinse a staccarsi dalla lettera. Gli occhi smeraldini avevano un velo di stupore, confusione e allusione.
Il viso di Sue divenne più rosso di un pomodoro. «A dormire.» Fu acuta. «Leggi piuttosto.» Gli mise tra le mani una nuova lettera. Non potevano certo perdersi in discorsi simili. Si sbrigò ad afferrarne una seconda anche lei.
Ma si scontrò con altro: un cofanetto di velluto blu. L'aprì e sbalordì. «Accidenti.»
Areth s'incuriosì. «Cos'è?»
«Un gioiello. Bellissimo.»
Incastonata in una struttura ovale, dorata e dalle griffe modellate come lingue di fiamme vive, c'era una gemma d'un rosso acceso; malgrado il taglio elaborato, non rifrangeva la luce celeste, sembrava invece inglobarla, assumendo tinte violacee.
Se lo rigirò tra le mani. Era grande quanto un suo pugno. «Secondo te che ci fa Marcus con un affare del genere?»
Areth diede un'occhiata. «Magari è per la moglie.» Tornò a leggere. «O per una della figlie.»
«Han conserva i gioielli di famiglia con cura maniacale, l'avrei visto» negò Sue. Saggiò la pietra: era fredda e liscia. «E siamo partiti da casa mia. Cioè, sua. Marcus aveva tutto il tempo per lasciarlo lì. Invece, nemmeno è entrato. Perché portarselo dietro?»
«Perché non è un solo gioello» affermò Areth dopo un breve silenzio. E quando Sue l'adocchiò confusa, indicò la lettera. «È di una settimana fa».
Lesse: «I bozzetti che mi hai spedito sono magnifici. Spero che i tuoi esperimenti su quelle bestie della Cerchia Asservita non si prolunghino: la tua creazione, il Sanguigno, dev'essere un diamante spettacolare.»
Il Sanguigno...vuol dire che... Sue abbassò lo sguardo sulle sue mani, il gioello inscurito dalla notte. «Questo è il Giudizio di Sangue? Come...»
«Sue», la interruppe greve, «non ho finito». E continuò, teso: «"È inutile temporeggiate, Marcus. Lo sai, accusare Galia dell'attentato è stata la mossa migliore. Abbiamo ciò che volevamo: odio, paura, un terreno per noi fertile sul quale costruire. È ora che Hemera conosca il Sanguigno. Che Galia viva o muoia a seguito del processo, avremo ciò che ci occorre per ribaltare l'andazzo del Principato" Conclude con... la morte delle figlie di Nathaniel Lars. Dà la colpa sempre a lei. Galia è...»
«Innocente» concluse Sue. Qualcosa in lei siruppe. «I colpevoli dell'attentato sono Marcus e Dan.»
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