13 - A TOUCH OF 𝑇𝑅𝑈𝑆𝑇
Andrew Lars ripartì la sera stessa, tra i saluti della Rettrice Moukbell e di Miss-Von-Isterica. Sue non si unì: dalla finestra principale del proprio alloggio, lo vide stringere la mano al nipote e abbandonare l'Accademia. Le dispiacque: gli era parso una persona gentile, ma sapeva che avrebbe dato il via a una conversazione che non desiderava affrontare.
Cenò in camera. Non volle disturbare Iris e Areth o, peggio, diventare il terzo incomodo. Le fecero compagnia Inquy e Toad. Il primo stava meglio: alto quanto un bimbo di nove anni e dalle foglie verdi rinvigorite, ingurgitò un vasetto di Sali dopo l'altro per tutta la serata. Il secondo non le diede pace, parve in preda a un'overdose di zuccheri: parlò a raffica, svolazzò frenetico e rese la camera rossa un vero e proprio campo di battaglia. Infatti, Sue si addormentò poco dopo la mezzanotte con una scarpa da cerimonia accanto al viso, il libro di testo "Emanazioni Zivel e Trattamenti Innovativi" a curvarle la spina dorsale e la tenda della doccia come coperta.
La mattina si svegliò allo squillante buongiorno di Toad con la schiena dolorante e due vistose occhiaie scure. Se questo è il modo in cui dorme Areth, pensò, capisco il perché della faccia sempre stanca.
La colazione fu solitaria. Iris non stette con lei: si disse preoccupata per la fasciatura del suo ragazzo e si dileguò.
Ma lo era anche Sue: era davvero possibile che fosse lei la causa di quella bruciatura? Faticava a crederci.
Durante le lezioni, si concentrò sulle parole dei professori e cercò d'evitare Josh. Le era difficile, tanto: più provava a non guardarlo, più gli scoccava occhiate. Era come un magnete, che la attirava con una forza alla quale non riusciva a sottrarsi ogni volta che gli era vicino, e stargli lontano le sembrava contronatura. Ma non voleva parlare del giorno prima, così, appena poteva, si dileguava.
Nel pomeriggio, non si svolse una nuova prova nell'Ingresso del Debutto, che Sue scoprì esservi solo una volta al mese. Ma Toad le presentò a vivace Miss Maya Buffer. Era una Zivel Ignis ricoperta di lentiggini, dai fianchi larghi, corti capelli fulvi pari agli aculei di un istrice e incisivi sporgenti quanto quelli d'un castoro.
Appena la vide e la strinse la mano, il viso sembrò prendere fuoco. «Una Bertrán mi ha toccata!» cinguettò con occhi brillanti di gioia. «Una vera Lady!»
Sue si stranì, ma non commentò dato che Maya la sommerse di domande: dal suo secondo nome al periodo e il luogo che preferiva per le vacanze invernali. E, dimostrandosi affine alla parlantina di Toad, le raccontò che era la figlia dei proprietari di un negozietto d'antiquariato dello Snodo; che amava alla follia il gruppo rock degli Ignis Desperate Vandals, di cui sognava di diventare la nuova batterista; e che, al contrario di quanto spandevano le malelingue sui suoi denti, odiava il formaggio.
Poi il bimbo verdognolo la condusse in un piccolo campo d'atletica di sabbia rossa. Era celato alle spalle di un edificio tanto alto che Sue ebbe difficoltà a vederne la fine. Ad aspettarli, c'era Arteh. Rispetto ai giorni precedenti, aveva un'aria riposata, fresca: l'incarnato aveva ripreso colorito e lo sguardo, d'un azzurro acceso non più incupito dalle ombre delle nottate in bianco, era ben vispo. I capelli, invece, erano la solita matassa bionda scompigliata. E stringeva qualcosa tra le mani guantate.
«Che ci facciamo qui?» gli chiese appena fu a portata d'orecchio.
«Sperimentiamo» disse il ragazzo con un cenno proprio all'oggetto non identificato.
Sue guardò meglio. Era una ciotolina di ceramica rossa sormontata da un coperchio di ferro. A prima vista, le sembrò uscita da qualche altra epoca. «Cos'è?»
Areth sorrise colpevole. «Un... prestito»
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«Certo che i guai te li cerchi» commentò Sue. Era seduta a terra con il viso tra le mani e gomiti puntati nelle gambe incrociate mentre Areth, davanti a lei, trafficava la lucerna di circa due secoli del suo compagno di stanza. «Se sai che gli dà fastidio, non potevi prendere un lumino qualsiasi?»
La voce del ragazzo ebbe una punta di stizza. «Era la soluzione più rapida. E come si dice: occhio non vede, cuore non duole.»
«Motto edificante» ironizzò lei.
Areth la fissò con sopracciglio all'insù. «Disse colei che mente alla sua migliore amica da tre anni.»
Benché piccata, Sue non poté dargli torto. Lo osservò la lucerna; Areth la chiuse con lo stoppino ben fuori. «Cosa vorresti farci?»
Lui le avvicinò la lucerna. «Evoca la fiamma azzurra.»
Piegò la bocca in una smorfia. «È una perdita di tempo. Ci sono riuscita solo due volte», farfugliò imbarazzata, «a stento.»
«In diciassette anni? Due?» Areth la guardò perplesso mentre annuiva. «Accidenti, allora c'è davvero speranza per tutti.»
«Non sfottere Guarda che non è divertente!» s'indispettì Sue, rossa come un pomodoro «C-cioè, n-non prendermi in giro.»
«Non ti stavo prendendo in giro», emise un risolino, «ti stavo proprio sfottendo.»
Lei faticò a non imitarlo. Avrebbe voluto restare imbronciata, ma gli angoli della bocca guizzarono all'insù. «È comunque una perdita di tempo. Cosa dimostrerebbe? Che sono una Privilegiata? Che scoperta.»
«E un'Iskra. Ricordalo.»
«Inizio a crede che non sia così» borbottò. Incrociò le braccia al petto e incassò la testa nelle spalle. «Se fosse una diceria? Se potesse riuscirci anche un Asservito?»
«Ne hai mai visto uno farlo?»
«No, ma se...»
«Tergiversi» troncò esasperato. «Se provassi e basta?»
Sue si morse un labbro. «Ci vorrà un'infinità e devo cercare informazioni sul Giudizio di Sangue.»
«Se ne stanno occupando Toad e Maya» rimbeccò Areth e indicò la lucerna. «Niente scuse.»
Sue lo guardò, agitata. Le sudavano i palmi. Sapeva come sarebbe finita, ma tentò. Tirò su le maniche della giacca sino ai gomiti, circondò la lucerna con le mani e si concentrò. Di colpo, fu catapultata a settimane prima, sotto lo sguardo attento di Michela. Passarono tre ore, di sbuffi, mugugni, lamenti, borbottii o versetti irritati mentre Areth la incoraggiava, ma lo stoppino rimase inerte.
Allo scoccare della quarta, Sue crollò a terra, incurante della terra sui vestiti e nei capelli ed esplose di rabbia. «Non funziona!»
«Abbi pazienza», fu breve Areth, «siamo all'inizio.» Si stese anche lui, così da essere spalla a spalla, ma nel verso opposto. Poi ridacchiò. «E saprai cos'è la stanchezza solo dopo che avrai passato una settimana a non dormire per colpa di quella piccola peste verde.»
Osservando il cielo terso su di loro, Sue ricordò il libro sotto la spina dorsale. Non sapeva dire se l'avessero estenuata più quelle ore di fallimenti o la notte in bianco. «Toad è sempre così agitato?»
«È calmo solo quando dorme.»
«Può davvero dormire?» meravigliò.
«No, ma ci crede», Areth sospirò, «Per alcuni, le abitudini dei vivi sono dure da lasciare andare.»
«Tu sai...», s'incuriosì Sue, «Insomma, quando o com'è...»
«Morto?» Lei annuì. «Non ne parla volentieri, ma credo fosse per malattia. Come tua madre.» E poco dopo, aggiunse: «Se posso chiedere, quando è morta, tuo padre è stato davvero...»
Sue l'anticipò. «Allontanato, sì.»
«Quindi... non l'hai conosciuto?»
«Ho visto delle foto.» Quasi sorrise. «Abbiamo lo stesso naso. E gli occhi.» Un fastidioso nodo alla gola la incupì. «Ma no, non si è mai fatto vivo.»
«Mai?» sì stupì ora Areth.
«Mai.»
«E tu...»
Sue non ebbe bisogno che il ragazzo concludesse la frase. L'idea di cercarlo l'aveva allettata centinaia di volte, ma non l'aveva mai seguita. Non sapeva come avrebbe potuto comportarsi. Forse l'avrebbe biasimato per non essere mai tornato, per non aver combattuto contro una legge ingiusta. O forse no.
Si riscosse con un sospiro. «E io sono di pessima compagnia, scusa.»
«Più che pessima, sei nuova» disse Areth, morbido.
Sue si voltò verso di lui. Il suo profilo era delicato. «Quindi l'idea di Toad è stata buona?»
«Con te che lamenti tutto il tempo?», sbuffò, «Tu che dici?»
Sue ridacchiò. «Dico che sfotti, Mead.»
«Solo un po'.» Areth la guardò e sorrise. Non era un sorriso particolarmente bello, ma semplice, gentile e contagioso. E le piacque. «Non è stata un'idea così malvagia.»
Sue ricambiò. «A proposito di Toad», tornò sul cielo che imbruniva, «spero che lui e Maya abbiano avuto più fortuna di noi.»
«Già.» Un minuto dopo, Areth chiese: «Secondo te, perché Bruce ha voluto che tua sorella s'appellasse al Giudizio di Sangue?»
«Non ne ho idea» sospirò. «Bruce era con altre due persone, Privilegiati.» Oltre alle parole schifose del futuro cognato, ricordava bene quei nomi: Simon e Garnett. «Vogliono qualcosa dalla Convergenza e parlavano di una donna: Chandra.»
«Come loro?»
«Suppongo.» Una smorfia contorse le labbra di Sue. «Ma non capisco. Sono Privilegiati, perché dovrebbero agire contro il Principato?»
L'ironia nella voce di Areth fu palpabile. «Avrei quattro o cinque motivi validi.»
«Non intendevo questo.» Sue rotolò sulla pancia e si sistemò i capelli scompigliati dietro all'orecchio. «Voglio dire...perché ora?»
Areth si girò sul fianco, appoggiato su un gomito. «Ora?»
«Pensaci. Il Principato è lo stesso da due secoli. Com'è possibile che in più di duecento anni l'unico tentativo di ribellione abbastanza forte da essere ricordato sia stato quello dello Schieramento dei Novecento, degli Zivel? Immagino che, se ai Privilegiati non fosse andato a genio il Principato, avrebbero agito molto prima. E se così non fosse, la domanda resta: perché volere qualcosa dalla Convergenza solo adesso? Perché non cinque, dieci o trenta anni fa?»
«Sarà cambiato qualcosa.»
«Ma cosa?»
Il Riduttore di Sue trillò acuto. Vide Arteh adocchiare all'ora, borbottare qualcosa su quanto fosse tardi e alzarsi; la aiutò a fare lo stesso. «Ci penseremo domani. Anche perché l'unico cambiamento nella Convergenza negli ultimi anni che mi viene in mente dovresti saperlo meglio di me.»
«Quale?» domandò, disorientata.
Il ragazzo si pronunciò con la sola risposta che avrebbe voluto scartare:
«L'ingresso di tua sorella.»
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Varcata la soglia dell'alloggio, Sue fu accolta da Joanna, che per poco non ebbe un colpo nel vederla piena di terra rossa e che la sovvenne nel cambiarsi. Cenò sola: Iris non era rientrata, l'Asservita le disse che era ancora alle prese coi libri. E non fece altro che pensare alle parole di Areth. Sua sorella era stata l'ultimo cambiamento noto nella Convergenza. Ma c'entrava con ciò che voleva sapere Bruce? Era lei quella della Convergenza che cercava? Ma, in quel caso, perché indurla ad appellarsi al Giudizio di sangue quando avrebbe potuto chiedere? E da quanto tempo la stava raggirando? Neanche ricordava da quando stessero assieme.
Si ritirò presto. Tentò ancora di chiamare la sorella, invano. Poi lesse il libro dalla copertina di cuoio che Toad aveva sgraffignato dalla biblioteca assieme a Maya: un barboso testo di diritto quasi inutile. Sul Giudizio scoprì solo che era stato usato per l'ultima volta nel centocinquantaseiesimo anno del Principato ai danni di un certo Alexander Gastél e...
Si svegliò la mattina seguente, con solo due ore di sonno consecutive alle spalle, il libro in faccia, la camera sottosopra e l'Elementino, quasi fosse un gatto, rannicchiato al suo fianco. Quando si guardò in uno degli specchi, le occhiaie erano cresciute.
Il pomeriggio, di nuovo con Areth al campetto, andò peggio. Era stanca, nervosa quanto il cielo che mugghiava sulle loro teste. Le mani le si contraevano attorno alla lucerna e ogni fallimento era motivo di scontro. Non seppe quanto tempo fosse passato quando scattò in piedi a pugni stetti e sbottò: «Siamo qui da ore! È inutile!»
«Non ti stai concentrando abbastanza.» Anche Areth era spazientito, scuro in viso. «Se ti impegnassi tanto quanto ti lamenti, avremmo già dei risultati.»
«Scusa come?»
«Andiamo. Sii realista» continuò lui. «Da ieri ti lamenti e basta.» Le puntò l'indice al petto. «Tu non t'impegni.»
Scacciò la sua mano. «M'impegno eccome!»
«No!» vociò Areth. Seguì un tuono. Nell'aria c'era già odore di pioggia. «Ti lamenti! Sembra che tu neanche voglia essere Iskra! Impegnati!»
Indignata, Sue guardò il ragazzo ben più alto di lei con occhi dardeggianti. «Ma cosa ne vuoi sapere tu d'impegno che per avere amico devi approfittare della proposta di un bimbo morto!» sputò con una malignità che non apparteneva a lei. Le parole le erano uscite dalla bocca con tanta rapidità che si rese conto di quanto avesse detto con un istante di ritardo. E quando le fece, scolorì, mortificata. «Scusa, non...»
Per un lungo attimo, Areth restò muto. Poi, al suono delle prime gocce sottili di pioggia che impattavano col terreno di sabbia rossa era assordante, mormorò: «Questa è stata una pessima idea». Raccolse la lucerna e se ne andò.
Non la guardò.
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Il temporale peggiorò. Divenne battente. Le finestre si lamentavano e il freddo aumentava minuto dopo minuto. Sue, tornata nel suo alloggio, si era cambiata gli indumenti umidicci con un morbido completo di raso azzurro e, seduta davanti a uno dei tanti specchi con Joanna che le pettinava i capelli e una tazza di tè al bergamotto a riscaldarle le mani, raggelava alle sue stesse parole.
Come le era saltato in testa di dire una cosa simile ad Areth? Aveva parlato il nervosismo? Forse, ma era una giustificazione becera. Aveva sbagliato. Era stata uno schifo, era sta...
Una stronza tale e quale a mia sorella...
Tra un delicato colpo di spazzola e l'altro, la voce di Joanna sopraggiunse. «È abbastanza caldo, Miss?»
«Certo» disse Sue, notando lo sguardo della donna rivolto alla tazza. «Iris?»
«Lady Abrahams sta studiando in biblioteca con Lord Lars» informò. «Volete che la chiami?»
«No», rispose con una punta di fastidio in gola che tentò di reprimere. Non erano affari suoi dopo quattro giorni di cosa facessero Iris e Josh. Anche se sono due giorni che sono appiccicati. Scacciò il pensiero. «Grazie Joanna.»
Al nome, le guance dell'Asservita arrossirono. Poi pigolò: «Miss, mi permettete?»
«Ci mancherebbe.»
«Mi sembrate... angosciata.»
Abbozzò un sorriso fiacco. «È così evidente?»
«Un buon Asservito è colui che risponde ai vostri comandi, Miss. Ma un ottimo Asservito è colui che si prende cura di voi. Se non fossi brava a notare il vostro stato d'animo, me ne vergognerei. Cosa vi turba?»
Sue temporeggiò, assaporando un sorso di tè. Il bergamotto le invase il palato. Non era semplice da spiegare. «Tu... cosa faresti se... fossi al corrente di una situazione pericolosa...»
«Pericolosa?» irruppe JC, allarmata. Brandì la spazzola come se fosse un'arma di distruzione di massa. «Dove?»
«È s-solo un'ipotesi» si precipitò a specificare Sue e Joanna si calmò. «Dicevo... Se tu sapessi, ma non potessi dirlo o essere certa delle conseguenze, cosa faresti?»
«Mi chiedete qualcosa a cui non ho mai pensato» disse spaesata, tamburellando le dita sull'impugnatura di legno. Poi gli occhietti smeraldini si spalancarono, accompagnati da un sorriso raggiante. «Sì, ecco! Di certo, non saprei cosa fare!»
Ora quella confusa fu Sue. «No?»
«No! Ma saprei a chi chiedere!»
«A chi?»
«Mia nonna!» annunciò, colma d'orgoglio. «Sì, Sì! Mai una volta è capitato che nonna Deb non avesse la soluzione per ogni mio problema. Dalla cucina a come togliere le macchie di vino! Oh, è così saggia! Ma è normale: ha ottant'anni. Perbacco, era saggia. Ora è un po' toccata.» E si dilungò in un discorso che Sue non ascoltò. Perché era impegnata a darsi della stupida: la risposta alle sue domande era sempre stata lì, sotto i suoi occhi. E quelli di qualcun altro...
Saltò in piedi. «Joanna, sei un genio!»
L'Asservita la guardò perplessa. «Chiamerete mia...vostra nonna?»
«Non esattamente. Ma il concetto è quello!» Con un sorriso da orecchio a orecchio, Sue la strinse in un abbraccio impulsivo e, incurante del freddo, infilò la porta del suo alloggio solo per correre a un'altra, d'ebano, con l'incisione di un'enorme pantera incatenata accompagnata da inquietante scheletro.
Bussò con impeto, ancora e ancora, finché non apparve la figura di Areth, in tuta scura e con l'espressione impassibile di chi non ha alcuna voglia di parlare. Non poteva di certo biasimarlo.
«Se cerchi Josh, è...» esordì atono, ma si bloccò, stranito. «Perché... sorridi come una pazza?»
In effetti, sorrideva e pensò che, coi capelli sconvolti dalla corsa, il fiatone e il viso arrossato, doveva avere proprio l'aspetto di una folle. Ma non le importò. In un fremito entusiasta, rispose: «So come scoprire di più sul Giudizio.»
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«No», sentenziò secco Areth, scostandosi i capelli biondi appiccicati alla fronte dalla pioggia, quando si ritrovarono a tu per tu con il busto dai tratti delicati di Lady Galia Ondine Haines. «È una pessima idea. Peggio di quella di Toad.»
«Perché?» protestò Sue, anche lei zuppa d'acqua. Avevano corso sotto il temporale fino al giardino accanto al teatro. «Lei è stata la prima a essere giudicata.»
«A essere condannata», scandì Areth, «è diverso.»
«Ho pensato a Marcus, ma sarebbe... strano. E ho già provato con lei. Non fare il pignolo.»
«Sue, condannata» sillabò. «Morta.»
«Lo so. Quindi?»
«Quindi? L'Immersione trasmette ogni genere di sensazione.» Gli occhi azzurri dondolarono una paio di volte tra lei e il busto di marmo, basiti. «Tutte, capisci?»
«Appunto: sensazione. Non può capitarmi alcunché. La rettrice mi ha spiegato come funziona. Vado, vedo e torno. Facile.»
L'espressione attonita sul viso del ragazzo triplico. «No. Toglitelo dalla testa. Non hai alcuna preparazione e non puoi prenderla alla leggera. È pericoloso. E anche se non lo fosse, andresti alla cieca dato che non puoi scegliere in che punto della vita di Lady Haines approdare. Sarebbe un'immersione a... che hai da sorridere? È una follia, non c'è niente da sorridere.»
Sorrideva davvero. «Io non posso, ma tu, sì» insinuò e dal sospiro pesante che Areth emise ebbe la conferma che cercava. «Come Necromant.»
«Ti avevo chiesto di evitare domande.»
«Non lo è» incalzò lei. Puntò gli occhi dritti nei suoi. «Li avete fatti voi. Tu puoi scegliere. Puoi indirizzarmi.»
«In teoria. Non ho mai provato.»
«Mi fido.» Ed era vero. Non perché fosse costretta, ma perché lo sentiva. Sapeva di potersi fidare di Areth.
Ma era contrario. Nello sguardo azzurro, anche nell'oscurità della sera, si poteva scorgere il dubbio con incredibile nitidezza.
Sue non s'arrese. «Ti prego» perseverò supplice. «So che non ho alcun diritto di chiedertelo, ma devo sapere a cosa va incontro mia sorella.»
Areth inspirò ed espirò a mascella serrata. Passarono diversi minuti prima che giungesse a una decisione. «Una volta» disse lapidario. «Ascolta bene: una. Se non funziona, te lo togli dalla testa.»
«Sì.»
«Giuramelo.»
«Giuro.»
Areth le porse la mano guantata. «Ti avviso, però, che potrebbe non essere piacevole.»
Sue annuì e gliela strinse. La nappa dei guanti scuri era fredda, ma nulla se paragonato a ciò che provò l'istante seguente. Le sue dita intirizzirono; non riuscì muoverle. Le unghie persero nitore e, assieme ai polpastrelli, divennero tanto livide da rasentare la cancrena. A poco a poco, passando attraverso un formicolio dal palmo sino al gomito, la pelle già chiara assunse i toni grigiastri di un pallore mortale e, come se fosse stata ridotta a un velo diafano, le vene guizzarono in un macabro rilievo.
Ebbe il feroce istinto di ritrarsi, ma deglutì e resistette. È per Han, si ripeté.
«Mi spiace.» La voce di Areth era mortificata. «So che non...»
«Non devi» s'affrettò. «Te l'ho chiesto io. Andrà via?»
«A Immersione iniziata.»
Rincuorata, Sue guardò il busto di Lady Galia Haines. Non aveva idea di cosa avrebbe trovato, ma era pronta a scoprirlo. Prese un gran respiro e avvicinò la mano libera alla guancia della donna di marmo. Ma appena fu sul punto di sfiorarla, Areth le ghermì il polso.
«Prima dovresti sapere... una cosa.»
Lo guardò. «Cioè?»
«Credo che la Rettrice non ti abbia spiegato tutto» disse quasi con sforzo, come se lottasse contro se stesso. Le labbra erano stirate in un linea sottile.
«Che vuoi dire?» incoraggiò.
«Sue, uno come me può fare tanto, come gli altri Iskra, ma non ti pare strano che da un oggetto inanimato tu possa vedere la vita di una persona coi suoi occhi? È...» si fermò. Sue, confusa, lo vide indugiare su di lei. Alla fine, soggiunse: «I busti sono stati influenzati dagli Abbott cinquant'anni fa su richiesta, sì. Ma sono... contenitori.»
«C-contenitori?»
Lui annuì. «Dentro ognuno, c'è l'anima della persona raffigurata.»
Interdetta, Sue volse lo sguardo al marmo di Lady Haines e lo vide sotto una nuova luce. «Anima? Intendi, come Toad?» impallidì a occhi sgranati. «Lì ci sono delle persone?»
«Non ti aiuterà vederla in questo modo» ammonì. «Non sono persone... vive. O meglio, dopo l'intervento degli Abbott e cinquant'anni, credo che abbiano ben poco di simile a Toad se non il fatto che un tempo erano in carne e ossa. Ma non è questo il punto.»
«E quale sarebbe?»
«L'immersione è possibile perché l'anima nel contenitore è sigillata dietro un... chiamiamolo muro, d'accordo? Ciò permette a chi s'immerge d'usare i busti per come sono stati pensati, ovvero assistere a delle memorie in maniera passiva» spiegò. «Non c'è alcun tipo di interazione. Mi segui?»
Lei assentì. «Dove vuoi arrivare?»
«Questi busti sono stati sigillati da allora e mai più toccati da un Necromant.»
«Perché?»
Areth sospirò. «Perché ciò che chiude spesso apre. O distrugge.»
«Quindi tu...»
«Posso usarli solo sotto supervisione, molto di rado, per impedire che io danneggi il lavoro degli Abbott. È uno dei motivi per cui l'Accademia non è pensata per dei Necromant. Il punto è che, intervenendo io, il muro di cui parlavo potrebbe crollare e tu...»
«Agire?» finì Sue. «Come se fossi Galia?»
«Non ne ho la certezza» fece Areth. «In una mia Immersione, di cui ho il controllo, ho imparato come evitarlo, ma interferendo in quella di qualcun altro... è un'incognita. E creare una connessione tra due coscienze, non è quasi mai una cosa buona.»
Con gli occhi fissi in quelli del busto, Sue chiese: «Se succedesse, coinvolgerebbe il mio corpo?».
«No» assicurò, tuttavia, non allentò la stretta al polso. Al contrario, la serietà nel suo sguardo s'intensificò. «Ma non tutte le ferite sono fisiche. Sei sicura?»
Il cuore di Sue iniziò a martellarle nel petto. Aveva paura. Non aveva idea di cosa poteva succederle. Ma l'idea era stata sua. E lo sapeva: se si fosse fatta scappare l'occasione di scoprire di più sul Giudizio e poi fosse accaduto qualcosa a sua sorella, non se lo sarebbe perdonato.
«Sono sicura.»
Toccò il busto e tutto svanì.
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