11 - BAD NEWS, 𝑃𝑅𝐼𝑉𝐼𝐿𝐸𝐺𝐸𝐷! (p.2/2)

Josh rientrò nella Sala delle Azalee quando suo zio Andrew lo chiamò. «La giovane Bertrán sta bene?» gli chiese. «Temo di averla scossa.»

«Avvisarla che sua sorella potrebbe morire da un giorno all'altro non è una buona mossa se il tuo intento era quello di tranquillizzarla» disse. Raggiunse il tavolo, spostò una sedia e si sedette. Rimase in silenzio, forse per troppo. O forse suo zio gli rispose. Non ci badò. Susanne sapeva del Giudizio da prima che fossero avvisati, era lampante. Glielo aveva letto negli occhi. Ma come?

«Ti preoccupa?» giunse la voce di suo zio mentre si svestiva dell'ingombrante nappa. Doveva aver scambiato il suo mutismo per angoscia.

«Che tu possa morire dopo la sentenza del Giudizio di sangue?» Prese una tazza da tè libera, la sua fiaschetta nella giacca e si versò da bere. Il liquido verdastro contrastò con la bianchissima ceramica. E scrollò le spalle con indifferenza. «No. Se fossi colpevole ce l'avresti scritto in faccia. A malapena nascondi il tuo pensiero sul Principato, figuriamoci l'assassinio di un collega.»

«Lo dici come se fosse una colpa.» Quando il nipote fece per portarsi la tazza alle labbra, gliela sottrasse. «Non esagerare.»

Josh soffocò un'esclamazione indignata. «Lo è. Tu dovresti rappresentare il potere del Principato, la superiorità delle Casate di Sangue. E invece? Tratti gli Asserviti e le Casate Nobili come pari. Porre la manovalanza e dei parassiti sul nostro stesso piano, caro zio, è nauseante. Soprattutto per i secondi. Gli Asserviti sono quantomeno utili.»

«Non è così semplice» gli sorrise morbido Andrew, postosi dietro la sua sedia. Gli poggiò le mani sulle spalle in quello che avrebbe dovuto essere un gesto d'affetto, ma che Josh odiava. S'alzo e si allontanò consapevole dello sguardo dello zio sulla schiena.

«Te lo dico sempre: le semplificazioni e le estremizzazioni sono le nostre peggiori nemiche, soprattutto nella Convergenza. Quando mi sostituirai, Anteo sarà il più anziano e deterrà un peso maggiore, ma avrà difficolta a gestire Cyrus. Le sue idee sono già abbastanza controverse e non è bene che abbia troppo sopporto. Dovrai imparare a moderare le tue posizioni e...» Fu distratto dalla risatina irriverente del nipote. «Cosa c'è di divertente?»

«Che sei un ipocrita bastardo» sibilò Josh acido, passandosi una mano sul viso.

«Nathaniel.»

«Predichi da anni. Ma poi?» Si voltò, mascella contratta. «Neanche mi ascolti.»

Andrew sospirò. «Non iniziare con la solita manfrina.»

«Manfrina?» Non trattenne una nota di grave irriverenza. «Per te la decisione più importante della mia vita sarebbe una manfrina?»

«Mi sono espresso male, Nathaniel, ma ora...»

«È Joshua» tuonò, lapidario. «Chiamarmi come chi ha partecipato alla Prima Convergenza non mi farà cambiare idea. È una tecnica spiccia, zio, davvero di bassa lega.»

«Non ho il tempo per riaprire questo argomento» riprese l'uomo, a tono quieto e occhi severi. «O meglio, non c'è bisogno di aprirlo. È già stato deciso.»

«Da voi, non da me» sputò Josh. «Cosa non vi entra in testa? Il concetto è tremendamente semplice. Rispetto il ruolo e il lavoro della Convergenza, ma non passerò la mia vita incatenato a una sedia a leccare i piedi di un pallone gonfiato viziato. Mi basto da solo.»

«È il tuo dovere.»

«Sai qual è il tuo? Procreare.» Curvò le labbra, tagliente. «O qualcosa non funziona?»

«Attento a come parli»

«Perché? Dovrei rimetterci io, se tu spari a salve?»

«Così sei ingrato» rimproverò ferreo Andrew. «Tua madre si è fatta in quattro per sostenere la tua partecipazione, per istruirti. Il minimo che le dovresti sarebbe ringraziarla adempiendo al tuo ruolo»

«La famiglia è grande. Trovate qualcun altro. Vostro cugino Elia, per esempio» propose. «Non aspetta altro. Sbava sul seggio come un cane.»

«È uno dei motivi per cui non deve avvicinarsi» ribatté lo zio. E sapeva di non potergli dar torto: Elia era un uomo a dir poco orribile.

«Isabelle.» Sua sorella minore. «Ha di certo più giudizio.»

«È una Zivel Aeris. Ci sono delle tradizioni, la Convergenza non l'accetterebbe al nostro seggio.»

«Ian.» Era suo fratello maggiore, di tre anni. «È un Ghisa.»

«Sconsiderato.»

«Niels» Suo cugino, figlio di sua zia.

«Troppo piccolo.»

«Ha solo due anni in meno di me, non sei. Non dire stronzate» osservò velenoso.

Suo zio temporeggiò e arricciò le labbra, come se non volesse rispondere. Passeggiò muto, a passo lento, finché non l'affiancò.  Dopo un profondo respiro, dichiarò pacato: «Niels ha già la sua strada.»

Il nervoso strappò a Josh un sorriso sbieco. «E la mia? Dove la metti?»

La risposta di Andrew fu quella di sempre, quella che detestava. «Non ha importanza.» Sollevò lo sguardo e gli poggiò le mani sulle spalle. «Questa è la scelta più giusta per te. Servi tu.»

«Scordatelo.» obbiettò Josh, secco. «Non finirò in quello schifo.»

«Joshua.» Andrew gli prese il viso e lo guardò con una compassione che gli rivoltò lo stomaco. «Non puoi non farlo.»

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Sue si fermò quando furono le gambe e il fiato corto a pregarla di farlo. Aveva corso, a testa bassa, fino al grande giardino dell'ala Est, accanto al teatro. Si svestì della giacca viola con ancora il petto ansante e la gettò a terra. Il sole stava tramontando e iniziava a spirare il vento della sera, ma la fatica l'aveva accaldata. Il sudore le appiccicava la camicia alla pelle. Era una sensazione che odiava. Crollò a terra, seduta. L'erba le solleticò le gambe nude. Perché non ne faccio una giusta, Stava detestando anche la cravatta, non la faceva respirare e aveva bisogno di aria. La allentò. Poi la tolse. Respirò a fondo. Come aveva fatto a perdere il controllo della sua vita in due giorni? Come poteva essere un tale disastro? Involontariamente, aveva detto ad Areth di non essere un'Iskra e aveva fatto capire a Josh di essere a conoscenza del Giudizio prima dell'arrivo di suo zio. Inoltre, stava mentendo alla sua migliore amica e non aveva idea di cosa le capitasse. Ciò che sapeva per certo era che tutto le stava scivolando tra le dita, come sabbia fine, e non poteva afferrarla.

Non seppe quanto passò. Forse una decina di minuti, forse venti. Il suo Riduttore emise un trillo acuto e una voce alle sue spalle lo seguì a ruota. 

«È l'avviso. È stato attivato. Da ora niente Abilità fino a domattina.»

Il nuovo arrivato fu accanto a lei, ma Sue non lo guardò. Non ne ebbe il coraggio. Si limitò a mormorare un: «Il tuo però non l'ha fatto».

«È vecchio, funziona quando vuole lui. L'Accademia non spreca certo risorse per uno come me» asserì. Areth si sedette sull'erba, al suo fianco. «Come va il fianco?»

«Bene» disse lei. «Il braccio?»

«Può andare.»

Adocchiò i guanti blu. «Appassionato?»

«Fobia dei germi» rispose lui. «Le mani sono ancora un problema.» E s'azzittirono entrambi. Ci fu un lungo silenzio in cui tutti e due sembrano voler ignorare l'elefante nella stanza. Finché Areth non si schiarì la voce. «Così tu...»

«Non devi dirlo ad anima viva. O morta, nel tuo caso» l'anticipò svelta. «A nessuno. Per nessuna ragione.»

«Non ho intenzione di farlo» assicurò lui. «Posso immaginare le conseguenze.» Sue lo ringraziò e Areth sembrò chiudersi in un nuovo mutismo. Ma poi farfuglio: «Solo che...».

«Che?»

«Non prenderla male, ma... è impossibile.»

Sue s'indispettì, a fronte aggrottata. «Credi che potrei inventarmi una cosa simile?»

«No», si precipitò Areth. «Dico solo che non è mai esistito un Privilegiato non-Iskra. Mai. Tu sei sicura di...» non concluse, non ce ne fu bisogno.

Tampinando l'orlo della gonna, Sue si morse l'interno della guancia. Era indecisa, ma, in fondo, il danno l'aveva già fatto. Areth sapeva. Cosa sarebbe cambiato?

La voce le vibrò. «Ogni tanto...mi capita di... io... non so... credo siano visioni.»

«Come una Wizja?» Arteh era sorpreso. Lei annuì. «È per questo che parlavi di un uomo morto l'altra notte?»

«Era Lord Bastien Brice Rapits.» Il ragazzo strabuzzò gli occhi, però lasciò che continuasse. «L'ho visto al discorso della Rettrice, in barcaccia. Non so come sia successo. Solo oggi ho avuto la conferma.»  Poggiò la testa sulle ginocchia infreddolite e sospirò sconfortata. «Non so che mi preda.»

Nel buio creato dalla cortina di capelli, udì Areth esprimersi in greve mugolio di dissenso: «Non credo che tu sia una Wizja».

«Perché no?» chiese, drizzando il capo. Vide la sua unica certezza sgretolarsi. Aveva assistito alla morte di Bastien, aveva visto i suoi assassini e li aveva ascoltati complottare sul Giudizio. Come poteva essere altrimenti?

«In primo luogo?» fece il Necromant. La squadrò da capo a piedi. «Non avresti questo aspetto.»

Le sopracciglia di Sue s'aggrottarono. «Che ha che non va?»

«Nulla. Insomma, sei carina, ma...» farfugliò e lei sbuffò. «Cosa?»

«Non si dice a una ragazza che è carina.»

Areth fu confuso. «È un complimento.»

«No, è da maleducati» disse Sue. «Non sembra sincero. E il più delle volte non lo è, soprattutto se detto in quel modo. È buttato lì per far brodo. Dà fastidio»

Areth borbottò tra sé e sé. Poi precisò: «Intendevo che non è l'aspetto di un Wizja.»

«E se non cambiasse per forza?» obiettò Sue.

«Anche se fosse, ci sono delle prove oggettive per cui non puoi esserlo.»

«Tipo?»

«Dormi?»

«Sì.»

«Ecco, i Wizja non dormono.»

Sue s'accigliò piccata. «Così dicono loro, magari alcuni sì. Che razza di prova sarebbe?»

«Bene, allora dove sarebbe il Perpetuo? Ogni Wizja ha un Perpetuo» tirò la stoccata, quella a cui Sue non poté ribattere. Era vero e non ci aveva pensato: se fosse stata un'Iskra Wizja avrebbe avuto una delle fumose creaturine a svolazzarle su una spalla.

Ricacciò la testa tra le gambe con un solo movimento.

Ancora una volta, la voce di Arteh la raggiunse nel buio. Fu mortificata. «Ma sono certo che qualcosa di speciale tu ce l'abbia.».

Sue gli rifilò occhiata in tralice che il ragazzo subito colse.

«Che ho detto di male ora?»

«Sono certo che qualcosa di speciale tu ce l'abbia è... la versione allungata di carina. È falso.» In un versetto d'irritazione strozzato, si mise le mani tra i capelli. «Non c'è bisogno di mentirmi, d'accordo? Ci ho convissuto per tre anni. Sono un'incapace. Tanto, troppo incapace!»

«Sue.»

Non ascoltò. «Potrei sentirmi male. Potrei vomitare. No. Mi sento male. Gli urti di vomito possono essere provocati dalla propria inutilità?»

«Sue.»

«Vedi? Sto straparlando. Mi agito e straparlo. No. No. Lascia perdere, dimentica tutto. Trovo il modo di chiamare mia sorella e me ne vado. Così non ci penso più e..»

«Vuoi chiudere quella bocca e ascoltarmi un secondo?» la interruppe brusco. Sue s'azzittì d'un colpo e continuò. «Guarda qui.» Si tolse la giacca, rigirò una manica della camicia fino al gomito e mostrò una pesante fasciatura. Poi rimosse anche le bende e Sue trasalì.

L'avambraccio di Areth, che si rivelò meno smilzo di quanto sembrasse con muscoli lunghi e definiti, era solcato da un'enorme bruciatura. La pelle era rossa, secca e cosparsa di orme di bolle sgonfie.

«Hai affrontato l'Ingresso con questa?» chiese e Lui annuì. «Non ti fa male?»

«Stamattina era peggio» disse Areth in un sussulto delle spalle. «Ora è più un fastidio.»

«Solo?» Da come il ragazzo strinse le labbra, Sue capì. «È perché sei un Necromant?» Lui non spiccicò parola e assottigliò lo sguardo. Così Sue cambiò domanda. «Come te la sei procurata?»

«Credo che sia stata tu» dichiarò. «Ieri sera, quando ti ho preso in braccio.»

«Io? Come posso essere stata io?» fece spaesata. «Ho preso fuoco? Come un'Ignis?»

Areth scosse il capo. «So solo che eri bollente e oggi...» sganciò i primi tre bottoni della camicia e mostrò anche il petto fasciato. «Può essere un'assurdità. Ma non trovo altre spiegazioni. Ho bruciature solo dove ho avuto un contatto con te. Pensaci.» La guardò. «Devi essere un'Iskra.»

«Lo credi davvero?»

Areth annuì. Ma l'espressione mesta di lei non mutò. «Non ne sei felice?»

«Lo sono» pigolò. Però anche altro la tormentava. E non riuscì a non chiedere: «Tu cosa sai del Giudizio di Sangue?».

Areth spostò lo sguardo verso il cielo che imbruniva. «Quello che sanno tutti. Che la sua sentenza è irrevocabile e che non si usa da molto tempo. Se non sbaglio, l'ha inventato la tua famiglia.»

Sue si torturò le mani. L'idea che proprio la creazione di un suo avo avrebbe potuto causare la morte di sua sorella la terrorizzava. «Intendevo, sai come funziona?»

«No.»

D'un tratto, alle loro spalle, ci fu un sibilò che li fece scattare in piedi. Era la giacca grigia di Areth, che aveva appena fatto un balzo da terra sino alle loro teste e che... canticchiava un motivetto allegro. «Ci pensiamo noi!» stornellava con uno schiocco di lingua. Le maniche s'agitavano per aria. «Già, già, proprio noi!»

Dall'orlo spuntarono due gambette verdi, sottili. Ballavano a ritmo.

Areth, la cui espressione fu pari a quella di un genitore sull'orlo di una crisi di nervi, afferrò una caviglia e tirò verso il basso. «Toad.»

Con la testa tonda che spuntava intrappolata dal colletto di una giacca per lui era troppo larga, l'Elementino sorrise volpino. «Sì?»

Il ragazzo si riprese la giacca. «Che fai qui? Ti avevo detto...»

«Cose barbose dette da un barboso! Dai! Chi aveva voglia!» lamentò in un poderoso sbuffo Toad. Poi si rivolse a Sue con un sorriso che andava da orecchio a orecchio. «Piuttosto, ho raccontato tutto a Maya!»

«Hai fatto cosa?» strabuzzò Areth.

«L'hai detto... a Maya?» tentennò Sue.

L'Elementino ignorò il primo e rispose alla seconda. «Sì, tutto! È entusiasta! E abbiamo deciso, sai? Ti aiuteremo noi! Già, già, proprio noi!»

«Voi?» sorrise Sue. Toad, si disse, le instillava una naturale allegria.

«Tutti assieme! Io, Maya, e anche il barboso!» annunciò.

«È una pessima idea» lo redarguì Areth.

«Non dire di no a me!» incrociò le braccia esili al petto minuto che gonfiò trionfo. «Io sono uno importante!»

Areth alzò gli occhi al cielo e borbottò: «Sì, un importante rompiscatole».

«Sue!» piagnucolò stridulo con un labbro tremante e si nascose dietro di lei. «Lo vedi? Fa il prepotente! Digli qualcosa!»

«In effetti, l'idea di Toad non è così male» fece Sue. «Ora come ora, sei l'unica persona viva con cui io possa parlare di questa faccenda.»

«Ehi!» esclamò il bimbo verdognolo, indispettito.

Lei abbozzò un sorriso colpevole. «Scusa.» Poi si rivolse ad Areth che si sforzava di non ridere al broncio buffo di Toad. «Perché dovrebbe essere pessima?»

Lui esitò. Poi la guardò. «Non è un bene avere contatti con uno come me. So già cosa succederebbe. Finiresti isolata.» Nel tono non ebbe tristezza, ma consapevolezza. «Andresti solo a perderci.»

«Ma non lo saresti più tu, giusto? Oltre a Iris, ovvio» obbiettò. «Non è forse un motivo in più per aiutarsi a vicenda?»

«Te ne pentiresti.»

Sue gli tese una mano. «Lo scopriremo vivendo. Ci stai?»

Lo sguardo azzurrino di Areth si soffermò su di lei più a lungo del solito, combattuto. Infine, chiese: «La smetterai con le domande sui Necromant?»

«Solo se tu la finirai di fare il prepotente con Toad» ribeccò lei.

Areth accettò.

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Iris sapeva dove trovare Josh: nel cortile chiuso tra l'Osservatorio e il Vivaio. Era seduto sul muretto con la schiena appoggiata alla colonna e una gamba a penzoloni. Fumava, senza giacca e con le maniche della camicia arrotolate; come sempre quando qualcosa non andava.

Quando si sedette accanto a lui, tra la sua scapa e la colonna, la ignorò. «È tutta l'estate che vai avanti, dovresti smetterla. Fa male» commentò.

Josh spirò una nuvoletta rossa. Rispose un minuto dopo, a sguardo molle: «Mio è il peccato, mio è il male.»

«Semantica.»

Sospirò. «Cosa vuoi, Abrahams?»

Il tono era quello tagliente e irriverente che Iris conosceva bene. Nei primi mesi nel primo anno dell'Accademia, colorava ogni loro battibecco. E avevano sempre litigato tanto, così tanto, per qualunque motivo, che neanche ricordava come o quale fosse stato il giorno esatto in cui erano diventati amici.

Iris raccolse la giacca viola di Josh, appoggiata a ridosso della colonna, ed estrasse uno dei gemelli da polso, dorato. Ci giocherellò, rigirandoselo tra le dita come se nulla fosse. Impresse ditate ovunque. Quando non le abbaiò di rimetterlo a posto, capì: la situazione era grave. «So che c'è tuo zio. Non è andata bene?»

«L'ho mandato a farsi fottere» soffiò svogliato. «Quindi, non poi così male.»

«E?»

«E cosa?»

«Che ti ha detto?»

La guardò con sufficienza, occhi cupi. «Cosa ti fa pensare che io abbia voglia di parlarne con te?»

Iris non si lasciò intimidire. Si impettì e sorrise. «Sei qui, a impestare il mio cortiletto con quella schifezza. È chiaro che tu ne voglia parlare con me. È linguaggio non verbale.»

Josh ghignò, fece un tiro e buttò fuori una nuova nuvoletta rossa e dolciastra. Poi la guardò da capo a piedi. «Oggi i campioni di stronzate li becco tutti io.»

«Oh, finiscila Lars.» Gli diede una pacca sulla gamba. «Ho sbagliato, sì. Non era colpa tua. Dev'essere stata l'Immersione a far star male Sue. Per quanto vorrai martoriarmi?»

«Non ho ancora deciso.» Finse di riflettere con gli occhi scuri rivolti all'imbrunire. «Una settimana, magari due.»

Iris sbuffò. Non gli chiese scusa, tra loro non lo facevano mai. E conosceva un modo migliore per farsi perdonare: nutrire la sua curiosità. «Che ne dici di ora?»

Josh rispose con una scollata di spalle. «Ho altri programmi. Includono un paio di bicchieri e una Miss dell'ultimo anno.»

«Rimandali.» Iris estrasse dalla propria borsa la busta e gliela consegnò. «Questa è più interessante.»

Come immaginava, l'amico si mise a sedere, di colpo più attento. «Di chi è?» La guardò di sottecchi. «Dimmi che non è una di quelle che ti scambi con il tuo fidanzatino patetico perché potrei seriamente dare di stomaco oggi. Siete così zuccherosi da far venire le carie.»

«Ogni tanto i cavoli tuoi potresti farteli» lamentò con piglio infastidito.

«E perdermi la possibilità di contare quanti cuoricini scrivi attorno al suo nome?» la canzonò. «Sia mai. Mi piacciono i racconti tragicomici.»

«Cretino. È di Sue» tagliò corto Iris.

Josh storse il naso. «Te l'ho già detto stamattina: non ho interesse nelle vostre scaramucce» fece per restituirgliela, ma lei non la prese.

Al contrario, si schiarì la voce, mentre il sole cominciava a calare. «Avevi ragione. Sue sta mentendo.»

«Ma davvero?» curvò le labbra in un sorriso sarcastico. «Sono colpito. Chi mai avrebbe potuto immaginarlo... Ah sì, io.»

Iris gli rifilò una pacca sulla spalla. «Gongola meno. Ho appena perso un'amica. Abbi rispetto.» rimproverò querula. La nuvoletta che Josh soffiò assunse toni violetti e lei continuò con un groppo in gola e parole che non avrebbe voluto usare. «Non avrei dovuto fidarmi.» Poi soggiunse: «E, sì, non avrei dovuto dirti quelle cose.»

«Cioè che sarei capace di drogare qualcuno?»

«Oh, no, il resto. Quello sono certa che ne saresti capace.»

Si scambiarono un sorriso.

«Ma ciò non toglie che non dovessi dirle, o pensarle» fece Josh.

«O scriverle.»

«Scriverle?» ripeté lui, perplesso.

Iris si morse un labbro e avvisò, la voce troppo acuta: «Non aprire i messaggi sul telefono.»

Josh le lanciò occhiataccia scura, ma le sorrise. Bastò, Iris lo sapeva, perché entrambi considerassero la lite di quel mattino risolta. Poi si rigirò la busta tra le dita. «Da dove viene?»

«Dal suo armadio. Da piccola nascondeva sempre lì i bigliettini di Barnaby Salinger». Intuendo la domanda del ragazzo, che ebbe uno sguardo più attento del solito, agitò una mano per aria. «Lascia perdere chi sia Barnaby. Leggi.»

Con la sigaretta tra le labbra, Josh aprì la busta e lesse. «"So cosa sei. È disgustoso. Tutti conosceranno le tue bugie. I tuoi segreti di questi tre anni non resteranno sepolti.".  È una minaccia. Chi l'ha scritta?»

«Non lo so» disse Iris. Sentì il tradimento infastidirle la lingua. «E non mi interessa. So solo che da tre anni a questa parte mi ha mentito. Per me è sufficiente.»

«E cosa vorresti fare?»

«Sapere la verità.» Sorrise. «E buttarla fuoridalla mia vita a suon di tacco dodici.»

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