1 - 𝑆𝑈𝐸 𝐵𝐸𝑅𝑇𝑅𝐴́𝑁

Sue correva. A perdifiato.

Era in camicia da notte, scalza. Il terreno le feriva i piedi. I fili d'erba sembravano lame e i sassi le graffiavano la pelle. Ma, incurante, correva.

Perché un uomo bardato da un abito lugubre, scuro come la pece, la stava inseguendo. Era lontano, ma l'avrebbe raggiunta; lo faceva sempre.

La tormentava.

Ma, finalmente, correva.

Verso la libertà, in direzione dell'imponente cortina di querce che circondava la villa da cui doveva scappare. Era il confine; sorpassato, sarebbe stata libera. Avrebbe potuto sparire nel nulla.

Le querce, possenti e dalle chiome floride e tinte di un precoce rossore, erano dinanzi a lei per l'ennesima volta. L'ultima aveva sbagliato: si era imbambolata a osservare l'intricato nido di radici esposte anziché saltarle. Era stato un grave errore.

Ma ora sarebbe stato diverso. Non si sarebbe fermata. Era il giorno giusto. Affrontò i pochi metri che mancavano con decisione e un fremito attorno al cuore. Le bastava un salto.

Accelerò, caricò le gambe affaticate e, a pochi centimetri dal groviglio legnoso, non esitò: saltò.

Sorrise. Si sentì leggera come l'aria, libera di creare il suo futuro e di...

Sbiancò.

Fu strattonata all'indietro da una presa ferrea alla vita. Spostò dal viso la massa di capelli bruni, guardò al di sopra della sua spalla. A stringerla era l'Emanazione creata da sua sorella: un uomo grosso, alto, privo di volto, con braccia e gambe lunghe, composto solo da erba, rami e muschio umido. Glielo aveva messo alle costole da quando aveva sei anni e lo odiava. Era quasi certa che anche quell'essere odiasse lei. L'aveva soprannominato Inquy, perché l'aveva sempre trovato inquietante, soprattutto quando si generava alle sue spalle senza preavviso, accompagnato da un sibilo gelido, o quando la sorvegliava mentre dormiva, a distanza di pochi centimetri dal suo viso.

«Andiamo! Sul serio?» vociò indispettita, agitandosi contro il petto di foglie. «Mollami! Adesso!»

Inquy emise un fruscio, ma non si mosse.

Sue imprecò. «Han! Malefica megera! Razza di...» Non poté concludere la frase perché grossa foglia le tappò la bocca a mo' di bavaglio e le sue parole divennero mugugni inarticolati.

«Miss Bertrán! Miss Bertrán! Non vi agitate!»

A gridare fu la voce cavernosa del suo lugubre inseguitore: Bonifaas, il maggiordomo. Era sotto di lei, affannato dalla corsa. La pelle incartapecorita e pallida era percorsa da rivoli di sudore. Arrivava dal punto di partenza di Sue: la grande villa alabastrina della famiglia Bertrán, che in quel momento era un punto bianchiccio che troneggiava sull'immenso giardino.

«State bene, Miss?» chiese ansante.

La foglia liberò le labbra di Sue. «Ti sembra che io stia bene? Hannaline usa la sua Abilità da Zivel Flora per impedirmi di uscire, Fass. Lei e le sue diavolo di piante» ironizzò acida. E s'accigliò. «Perché non mi hai avvisata di questa genialata?»

«Vostra sorella me l'ha vietato» disse deferente l'uomo, sulla soglia dei sessant'anni. «Immaginava che avreste "fatto storie" per non partire per l'Accademia.»

Scostandosi i capelli dal viso, Sue sbigottì, indignata. «Parteggi per lei?»

«Miss, il mio ruolo m'impone di...»

«Rispondimi, traditore»

Il maggiordomo trattenne un sospiro. «Lady Bertrán si preoccupa del vostro avvenire.»

Sue assottigliò gli occhi a due fessure. «Dunque, la riposta è sì?»

«Sì», ammise l'uomo. «Ora vi pregherei di seguirmi. MW5309 vi sta attendendo.»

Impossibilitata dal fare altrimenti, Sue s'arrese. Era stata incastrata, chiusa in una tenaglia che portava la firma di Hannaline Sophia Bertrán. Pensò all'immediato futuro e lo odiò. Han gliela avrebbe pagata cara, carissima.

Parola di sorella.

«D'accordo» mugugnò imbronciata. E si rivolse all'erbaceo carceriere. «Che dici Inquy, mi molli o no?»

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«Miss, vi prego, non vi muovete!»

«Così finirai per spezzarmi una costola» boccheggiò Sue, ancorata disperatamente al bordo dorato del grande specchio della sua camera da letto. «Non... respiro.»

La volenterosa domestica MW5309, ovvero Michela Wrenwood, si era adoperata per un'ora affinché esibisse il suo aspetto migliore: le aveva deterso la pelle già chiara per eliminare ogni traccia di rossori, pettinato il groviglio inselvatichito che erano i suoi capelli bruni e truccato il viso con eleganti tonalità pastello. Ora, insensibile ai lamenti di Sue che si abbattevano sulla carta da parati turchina della camera, le stringeva con la foga di un nerboruto il corsetto attorno al torace.

«Micky, non così stretto, devo fare ancora colazione! Scoppierò!» lagnò Sue.

«Miss, lo sapete: chi bella vuole apparire, un po' deve soffrire.»

«È una stronzata» sbottò. Dovette correggersi allo sguardo di rimprovero di Michela, attraverso lo specchio. «Trovo che sia una corbelleria» squittì sarcastica. «Meglio?»

«Molto», asserì la domestica, anche lei sulla sessantina. «Guardatevi bene dall'usare certe espressioni all'Aveyard Clare. Hanno standard elevati e vostra sorella vuole assicurarsi che incominciate l'Accademia nel miglior modo possibile per una Privilegiata del vostro calibro.»

Sue s'espresse in una smorfia. Il corsetto le stritolava il petto. Detestava quel genere di gabbiacce infernali: il respiro s'appesantiva, la vita era compressa all'inverosimile e le provocava una lucida confusione. L'unico pregio era riservato al décolleté: il suo seno minuto, sospinto in alto, spuntava rotondo e redivivo. Donava un pizzico di femminilità altrimenti assente sul fisico dritto quanto un rettangolo.

«Vogliamo davvero aprire l'argomento "Lady Bertrán"? Quella strega di Han non ha alcun...» Una decisa stretta dei lacci le mozzò di netto il fiato e questa volta fu lei a scoccare un'occhiataccia dardeggiante alla domestica. «Stai forse attentando alla mia vita? Si suppone che tu debba aiutarmi.»

Michela era al servizio della Casata di Sangue dei Bertrán da molto prima che Sue nascesse. Era amorevole e instancabile, ma con l'orribile vezzo di ricordarle quando aveva torto.

«Così come si suppone che voi, Miss, dobbiate dare ascolto a vostra sorella, non spettegolarne. I chiacchiericci alle spalle sono lingue vili che demoliscono sia la fiducia che l'amore» bacchettò severa, assicurando il corsetto con un fiocco ben stretto.

«No, è la pura verità» dichiarò Sue. «È un mostro quella donna.»

Invece che lanciare uno dei suoi sguardi ambrati e austeri, Michela sorrise. «Lady Bertrán vi vuole molto bene.»

«Se mi volesse bene, non mi manderebbe in quell'inferno.»

«Dovete capirla: il seggio nella Convergenza la impegna. Non dev'essere semplice destreggiarsi tra il suo ruolo nel governo e quello di sorella. Non può più seguire i vostri studi.»

«Non difenderla. Qualunque impegno abbia, sia anche mandare avanti il Principato, non la giustifica. Lo vedi come si comporta. Con me, con voi. Da quando la mamma è morta e papà è stato Allontanato...»

«Non tirate in ballo questo punto, Miss. Ne parlate con tanta leggerezza solo perché voi non li avete conosciuti» rimproverò e Sue ebbe una smorfia in viso. Era vero: sua madre, Lady Victoria Lucilla Bertrán, era morta pochi mesi dopo la sua nascita e suo padre, Mr. Franklin Allan, come stabiliva la legge del Principato di Hemera per le Casate Nobili in caso di vedovanza o divorzio da una Casata di Sangue, era stato allontanato per sempre dalla famiglia. Aveva visto i suoi genitori solo attraverso le fotografie.

«Vostra sorella li ha vissuti. È diverso.»

«Sta di fatto che vi siete occupati di tutto voi, tu e Bonifaas.»

«BJ6885» la corresse severa la domestica. «Dovete...»

«Non ci provare, Micky» mugghiò. «Mi rifiuto di chiamarvi in quel modo orribile. Non siete bestiame, siete...»

«Asserviti, Miss» la interruppe ferrigna.

Sue ne vide il riflesso nello specchio: la chioma sottile e argentata domata in un crocchia bassa, il viso rotondo dalle guance cadenti, corpo vizzo chiuso nella divisa scura degli Asserviti. Il suo sguardo, mesto, rassegnato al destino al quale era legata dalla nascita, la colpì dritto alla bocca dello stomaco.

«Persone, Micky. Stavo per dire persone.» Si voltò e la guardò con l'affetto negli occhi. «Non potrei mai trattarvi come Han. Ti prego, non chiedermelo.»

Michela sorrise e l'aiutò a indossare un delicato abito di seta, lungo fino alle ginocchia, d'un verde brillante. Era il colore della famiglia Bertrán; tutti ripetevano che Hannaline era stata la più fortunata delle due perché aveva ereditato gli occhi verdissimi del capostipite della loro Casata di Sangue, Marcus Joseph Bertrán.

«Apprezzo il vostro pensiero, Miss, ma è importante mantenere i rispettivi ruoli. Vostra sorella ne è consapevole.»

«Ti prego. Han ha posto il suo piedistallo troppo in alto per capire che davanti a lei ha delle persone in carne e ossa. Soprattutto con te: l'hai curata, assistita, le hai insegnato come una madre. Se ora è la migliore Iskra della Flora di Hemera dai tempi del Conflitto, è solo grazie a te. E come ti ripaga? Con cattiverie?» L'indignazione prese possesso della sua voce. «Come puoi accettare il modo in cui ti tratta?»

«Miss...»

«Micky! Non vuole che la guardiate negli occhi!» Si morse le labbra. In realtà, sua sorella riservava quel trattamento anche a lei: i loro sguardi non si incrociavano mai; se per puro caso succedeva, quello di Han era sempre ricolmo di sdegno e delusione. E sapeva perché.

Michela con un cenno la invitò a voltarsi nuovamente verso lo specchio e lo fece. «Vostra sorella è molto abile.»

Una risata beffarda sfuggì dalle labbra di Sue. «Davvero? Questa è la tua risposta?»

«Questa è la risposta. L'unica che conti.» La fissò attraverso lo specchio, granitica. «Non ve lo scordate.»

«Solo perché non hai l'Abilità, non vuol dire che...»

«Vuol dire tutto.» Le lisciò l'abito con rapide manate. Poi sospirò lieve. «Ascoltatemi, state per entrare nell'Accademia più prestigiosa di Hemera, quella che vi porterà a intraprendere un futuro ricco di soddisfazioni. Questo genere di discorsi non dovreste averli per la testa. Non sono adatti.»

«Perché non dovrebbero?»

«Perché siete una delle sorelle Bertrán, discendenti della Casata di Sangue Bertrán. Voi, Miss, siete una Privilegiata. Dovete comportarvi come tale.»

Sue abbassò lo sguardo. «Lo sono solo per il mio cognome. Ho compiuto i diciassette anni e non sono un'Iskra.»

«La vostra Abilità arriverà, Miss. Fidatevi, ogni Iskra fiorisce a suo tempo.»

«Il limite è quattordici anni, lo sai. E ne sono passati tre, di anni. Con quale faccia dovrei presentarmi all'Accademia? Tutti lì avranno la loro Abilità. E io? Sono come una neonata, sono come...»

«Un'Asservita?» incalzò Michela.

«Sì», mormorò Sue, amara. Il cuore le si strinse: non avrebbe voluto ammettere l'abisso che divideva gli Asserviti dai Privilegiati. Quel , non avrebbe voluto dirlo.

Ma Michela le sorrise, porgendole delle eleganti scarpette a mezzo tacco. «Voi non lo siete, Miss. Ricordate? Siete riuscita ad accendere quel lumino.»

Sue si produsse nell'ennesima smorfia della giornata. «È solo la fiamma azzurra. Ce l'ha anche un bimbo di due anni e indica solo che dovrei diventare un'Iskra e avere la mia Abilità. Dovrei

«Come dovreste andare fare colazione, o arriverete tardi alla Aveyard Clare. Il viaggio è lungo» disse dolce. Poi le porse un paio di guanti da cerimonia.

Sue fu interdetta. «Sul serio mi servono dei guanti da cerimonia?»

«Ordini di vostra sorella. Indossateli.»

«Ora? Devo mangiare.»

«Li toglierete quando siederete.»

In un sospiro arrendevole, Sue li infilò. «Spero almeno che ci sia una buona dose di caffeina. Soffocherà la mia sofferenza.»

«Sono desolata, Miss. Macchia lo smalto dei denti, vostra sorella l'ha vietato.»

«Han!» sbottò. «Che tortura!»

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Come da programma, Sue litigò allo strenuo delle sue forze con i graziosissimi, maledettissimi e fastidiosissimi guanti, finché non arrivò alla sala da pranzo, dove l'attendeva la colazione.

BJ6885, Bonifaas, le scostò deferente la sedia perché potesse accomodarsi. Prima, Sue si scusò: l'aveva fatto correre a perdifiato e le sue ginocchia non erano più così giovani. Poi si sedette e ascoltò la fame: in fin dei conti, si disse, quale disastro degno di nota si affrontava a stomaco vuoto?

Con vassoio dorato tra le mani, pervenne al tavolo la figura giunonica dalle guance porporine di Irina Bozovic, la cuoca. «Buongiorno, Miss Susanne» esordì vivace.

Irina era una giovane donna di trent'anni solare e spiritosa. Lavorava per la Casata Bertrán da appena due anni, ma si era fatta amare sin nelle prime ore. Malgrado fosse un'Asservita, Sue la considerava una confidente, un'amica. Passavano pomeriggi interi a parlare.

Quella mattina aveva qualcosa di diverso: gli occhi blu brillavano di gioia.

«Buongiorno, Irina» salutò Sue. «Oggi sei radiosa.»

«Mai quanto voi» ricambiò sorridente. «Gradite dell'infuso di mela e finocchio? Vi terrà lo stomaco caldo durante il viaggio. Per accompagnarlo abbiamo realizzato ottime paste. Credetemi, sono leggere come nuvole.»

Sue accettò e scrutò per un ulteriore istante la cuoca. Tra i capelli biondi spiccava una dalia rossa quanto il fuoco. «Suppongo che tra te e Antoine», soggiunse con malizia, «le cose si stiano procedendo bene.»

Era da un anno che Sue sapeva del flirt tra Irina e il loro giardiniere, Antoine Prescott. Li aveva scoperti un giorno di primavera: Irina aveva impiegato troppo tempo per "recuperare un fiore adatto alla tavola da pranzo".

Le guance già porporine di Irina riarsero e, con voce rotta dall'imbarazzo, balbettò: «E-ecco...».

«Oso troppo?»

«No, figuratevi» disse, ma poi tacque.

«Dunque?» insistette Sue, al velo di tensione comparso sul viso della cuoca. D'un tratto, impallidì. «Non dirmi che avete litigato.»

«N-no, Miss» tartagliò la cuoca. Il vassoio ondeggiò nelle mani tremanti. «N-non è questo.»

«Allora cosa?» non capì Sue. Irina non era mai stata restia nel confidarsi con lei. Soprattutto su Antoine.

Questa deglutì, sull'orlo delle lacrime. «Con Ant», si corresse «AP2947 è finita, Miss.» Quelle parole furono per Sue come una cinquina dritta in faccia. E quando la cuoca continuò arrivò il manrovescio. «Le relazioni tra gli Asserviti della medesima casa non sono concesse.»

«Che assurdità», s'indignò Sue, «non c'è mai stata una regola simile. Chi te lo avrebbe detto?»

La cuoca tentennò, poggiò il vassoio sul tavolo e si morse un labbro. Alla fine, rispose: «Vostra sorella, Miss».

Le orecchie di Sue fischiarono come un bollitore sul fuoco, rosse di rabbia. «Ci avrei scommesso che c'entrasse quella megera» sputò velenosa. Michela tentò un fugace intervento, ma glielo impedì. «Se lo merita, Micky. Non puoi proteggerla a oltranza. Questa è anche casa mia, dannazione, le decisioni che la riguardano dovrebbero includere anche me» sbottò. E mentre la cuoca, muta, versava con maestria l'infuso nella graziosissima tazzina di porcellana, rifletté. Non l'avrebbe data vinta a sua sorella. Così, decise: «Irina, prendetevi una vacanza. Tu e Antoine».

La cuoca, che aveva cominciato a zuccherare la bevanda calda, si pietrificò. «C-come?»

«Irina», Sue indicò la tazzina, dove una montagnetta di zucchero spuntava dalla superfice dell'infuso, «credo basti.»

La cuoca si riebbe. «S-sono mortificata, Miss, mortificata» farfugliò vergognosa. «Ve ne porto subito un'altra tazza.» Riagguantò tazzina e vassoio e si rifugiò in cucina a passi svelti e testa china.

«Miss, non potete prendere una decisione simile» rimproverò all'istante Michela. «IB7431 e AP2947 sono Asserviti, sono qui per servirvi.»

Sue s'accigliò. «Irina e Antoine», scandì i nomi con fermezza, «sono persone. Hanno il diritto di vivere il loro amore come qualunque persona del Principato.»

Michela scoccò un nuovo sguardo ammonitore, ma il ritorno frettoloso di Irina le impedì di replicare.

«Ecco, Miss.»

«Faccio io» asserì Sue con un sorriso soddisfatto. Prese tazza e teiera e versò l'infuso bollente. «Bene. Dato che considero la decisione di mia sorella una gigantesca stronzata...» Michela la guardò come se avesse appena imprecato, dunque rimarcò: «Hai sentito bene, Micky, una stronzata.» Aggiunse lo zucchero, mescolò e dichiarò: «Faremo così: Han non tornerà prima del prossimo mese grazie alla Convergenza e io sarò all'Accademia, purtroppo.» Adagiò il cucchiaino sul piattino senza un tintinnio. «Perciò avete con assoluta certezza, a partire da questo pomeriggio, un mese tutto per voi. Godetevi la villa.»

Irina si protese in avanti, occhi strabuzzati e traboccanti d'emozione. «D-dite sul serio?»

«IB7431 non può accettare, Miss» impose secca Micky, scoccando alla cuoca un'occhiata di biasimo. «Il nostro compito è servirvi, anche quando non siete presenti.»

Ma Sue fu più aspra di lei, lapidaria. «Vuoi metterla in questi termini? Allora il mio è un ordine. Esigo che mi serviate...divertendovi.» Sorbì un sorso d'infuso e il sapore dolciastro le avvolse il palato. «Se torno e scopro che mi avete disobbedito, saranno guai.»

I grandi occhi azzurri di Irina divennero lucidi e grosse lacrime le appesantirono le ciglia. «Miss, oh, Miss, la vostra bontà non ha limiti. Non ne ha!»

Fiera, Sue sorrise. «La colazione è perfetta e qui non c'è più alcunché o alcuno di cui tu debba occuparti. Vai.»

«Vi ringrazio» squittì di gioia la cuoca mentre si toglieva goffa il grembiule. «Con tutto il cuore.»

Sue faticò a non ridere quando la vide lanciare il grembiule in testa a Bonifaas e correre in preda all'emozione ai giardini posteriori. E fu soddisfatta: scagionare anche una sola persona dalle grinfie malefiche di sua sorella era una vittoria da festeggiare. Così, ignorando l'occhiata ammonitrice di Michela, si dedicò alla ricca colazione che, grazie al corsetto stretto, si ridusse alla tazza di infuso e a un paio di piccole paste soffici.

Dopo una mezz'ora, fu Faas a riportarla coi piedi ben piantati in quei liquami aberranti che erano i suoi problemi. «Miss, è ora di andare» le disse. Sue temporeggiò informandosi sui bagagli; erano già in auto. Mesta, gli chiese di precederla e, mentre questo eseguiva, Michela, cupa, la aiutò a indossare i guanti.

«Mi spiace per il tono di prima, Micky» disse Sue, contrita. «Sei arrabbiata?»

«Non potrei con voi, Miss.»

«Lo sei. Lo vedo. Perché?» La donna non rispose. «Micky, ti prego.»

«Voi...» Esitò. «Avete un cuore d'oro.»

Il tono sommesso fece supporre a Sue che non si trattasse di un complimento. Dunque, incitò: «Ma?»

«Ciò che avete appena fatto a IB7431 è crudele» tacciò greve Michela.

Sue s'indispettì. «Quella crudele è Hannaline. Io l'ho aiutata.»

«Vostra sorella conosce le regole, Miss. Noi abitiamo qui allo scopo di servirvi. È così da sempre. Questa non è casa nostra, non è bene per noi considerarla tale.»

«Eccome se lo è» protestò Sue mentre infilava anche il guanto sinistro. «Mangiate, dormite e vivete qui. Per quale motivo non dovrebbe essere casa vostra?»

Michela le sistemò l'orlo. Nonostante il capo basso, il tono la raggiunse con durezza. «Sapete il perché, non lo evitate.»

«Essere Asserviti non vuol dire non poter vivere» ribatté.

«No, vuol dire vivere con dei limiti» affermò l'altra perentoria. «Molti limiti, Miss. Nessuno di noi potrà mai avere per sé la vostra vita; una casa come questa da chiamare propria, abiti come i vostri da indossare o la libertà che spetta di diritto a voi. È ingiusto farcela provare.»

«Non... capisco.»

«Come potreste, Miss, voi siete così giovane.» In un sorriso comprensivo, Michela le chiuse una mano tra le sue. «L'avete... illusa.»

«Illusa?»

«Le avete permesso di provare qualcosa che è e sarà sempre al di là della sua portata. E che ora, dopo questo mese, sognerà per la vita con una vividezza... prima sconosciuta» chiosò.

«Non puoi saperlo con certezza. Magari lei e Antoine...»

«Cosa? Risparmieranno abbastanza per permettersi qualcosa di simile?» incalzò. «Miss, la vita di un Asservito non funziona così. Se non avessimo la fortuna di servirvi qui nella Cerchia Privilegiata, vivremmo nella miseria in quella Asservita. Un Asservito possiede il nulla, ricordatevelo.»

Il petto di Sue si gonfiò. Il cuore le pianse. «Le ho fatto del male?»

«Non volontariamente, Miss.» Le sorrise. «Avete solo tentato di renderla felice e per questo mese lo sarà.»

Sue fissò il pavimento. «Non volevo. Io...»

«Lo so, Miss» disse morbida la domestica. Con le dita incallite dal lavoro, le carezzò dolce il viso e le sollevò il mento. «Ma è per questo che dovete tenere ben a mente ciò che vi ho detto: chi nasce Asservito, muore Asservito. Trattateci come dobbiamo essere trattati.»

«E se non volessi pensarla così?»

«Voi dovete pensarla così» fu d'un colpo ferrea Michela. «Mi avete capita?»

«Ma...»

«Promettetemelo, Miss.»

Sue la guardò dritta negli occhi e indugiò. Si forzò. «Te lo prometto.»

E Michela sorrise. «Ora è meglio che procediate.»

Lei annuì amara. «Mi... accompagneresti?»

«Con piacere, Miss.»

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«È tutto pronto, Miss.» annunciò Bonifaas, dinnanzi all'auto nera lucida con mani legate dietro alla schiena. Quando aprì la portiera, Sue poté osservare i sedili in pelle beige che l'avrebbero ospitata sino alla sua nuova dimora, al futuro che Han aveva progettato per lei e che detestava.

«Ma non lo sono io» mormorò lei.

«Non temete. L'Emanazione di vostra sorella vi accompagnerà.»

L'inquietante uomo erbaceo apparve in auto e Sue si costrinse a stirare le labbra in quello che avrebbe dovuto essere un sorriso di gratitudine. «Rassicurante, Fass.»

«Sarete di nuovo qui prima di quanto immaginiate» rincuorò Michela, rassettandole per l'ennesima e ultima volta il grazioso abito. «Farete un figurone.»

Erano parole dolci, dette con sincera convinzione, ma che Sue sapeva essere false. Sarebbe stato un disastro, un concentrato di profonda vergogna e delusione. Un insieme che le si sarebbe attaccato alla pelle senza che avesse a disposizione un modo per scrollarselo di dosso. Come avrebbe fatto? Come avrebbe affrontato la mancanza dell'Abilità nel covo dei migliori Iskra di Hemera? E come avrebbe vissuto senza Michela e Bonifaas? Come avrebbe passato i pomeriggi senza le confidenze con Irina? Avrebbe mai avuto lo stesso coraggio che aveva in casa sua?

«Mi mancherai, Micky» confessò. «E anche tu, Faas. Tutti, mi mancherete tutti, accidenti.»

«Anche voi, Miss» disse la prima.

Bonifaas le sorrise e le consegnò un bigliettino su cui campeggiava un nome impronunciabile in un lato e la "B" verde della sua Casata sull'altro. «Da vostra sorella, usatelo. E fate buon viaggio.»

Sue strinse le mani dei due domestici e ricacciò le feroci lacrime. Poi montò in auto col cuore intriso d'ansia; sedili di pelle fredda gemettero sotto al suo peso, arricciandosi in sottili pieghe. E arrivò il momento: Bonifaas chiuse la portiera in un suono che ebbe il sentore amaro di ogni fine.

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