29 - Stratagemmi
'Il mio problema in inglese'. Bene. Molto facile da spiegare.
"My problem in English is... English, sir..."
Un'altra gustosa risata mi fece sorridere, anche se ero ancora un po' tesa: "...?" Non sapevo come esprimere le mie parole, ed era proprio questo che odiavo delle lingue.
"Did you study English at the elementary school?"
Se avevo studiato inglese alle elementari? Mah, se così si può dire, "Yes."
"Yes, I did. Okay - w-well, of course" si corresse. "Can you understand me?"
Questo non l'avevo capito. "Prego?"
Michele non sembrò avermi capita. "Potresti ripetere più lentamente?" spiegai; Michele fece una faccia da perfetto idiota, e allora ci arrivai. "Can you repeat?"
"...Please? Of course, my darling Madam" fece, con gentilezza, e lo apprezzai molto perché non è facile fare l'insegnante senza essere antipatico... e me lo immaginai quarantenne, da qualche anno in là, con alle spalle una lavagna con sopra parole inglesi complicatissime e d'innanzi una platea di studiosi universitari, pronti a rendere le sue labbra esangui dal prepotente succhiarne il sapere. Eppure non riuscivo a immaginarmelo. Lui era Michele, quindicenne, compleanno otto febbraio, via Galilei quindici, un sogno nel cassetto... che ancora non conoscevo, in effetti.
"Cosa vuoi fare da grande?" gli chiesi, dimenticandomi della sua fissazione per i dialoghi in inglese.
"Pardon?"
"Excuse me. I wanted say" tradussi velocemente, ma dalla smorfia che gli attraversò il naso mi fermai. "Che c'è?"
Desistette. "I wanted to say" mi corresse, nella grammatica come nella pronuncia, e nei suoi occhi vidi un tono quasi di scusa per il dovermi fare da maestro. Lo guardai con indulgenza, in una maniera che voleva dire: 'Ma te l'ho chiesto io', anche se avrei voluto anche dire: 'Ma se sei bravissimo!', 'Non c'è bisogno che ti scusi', 'Non c'è altro modo di cui tu possa servirti, sono io la mela marcia', ma non sapevo come dirlo. Non sapevo nemmeno come si dicesse 'bravo'.
"Pardon. Excuse me. I wanted to say, 'what do you want to do when you...?'"
Mi sembrava una frase molto stupida. E Michele annuì, cosa che non mi rassicurò.
"'What do you want to be when you grow up?' I don't know which job I could do." liquidò brevemente.
"'Understand' vuol dire 'capire', e 'crescere' si dice 'grow up'. Appun... tatelo?" mi domandò, terminando come una domanda quella che era un'affermazione, e che accettai con un "Sì!" di sfida per la sua maledetta insicurezza.
Mi guardava mentre scrivevo, e, nonostante avessi gli occhi fissi sul mio foglio, avevo notato le sue labbra incurvate.
"Ehi, cos'è questo?" mi rimproverò quasi, indicando una parola sui miei appunti di Micheleità (il titolo in alto del foglio).
Seguendo il suo dito, notai la parola che indicava: "Groww". Ops.
Corressi, con tante rigacce l'una sull'altra, e Michele storse il naso, ma non disse nulla.
"Patito dell'ordine?" sogghignai; non parve farci caso, mentre mi rispondeva in tono di sfida: "Sì. Perciò lava quegli appunti..." e tirò fuori due Coca-Cola dal nulla.
Gli sorrisi, cominciando ad aprire la mia. Non era proprio una delle mie bevande preferite, ma mi piaceva staccarne le linguette con calma e pazienza, ascoltando le mie labbra sussurrare pian piano: "A... B... C..."
"Dillo in inglese."
Oh cavolo. E chi se lo ricordava l'alfabeto???
"Non me lo ricordo..."
Michele mi prese di mano la lattina, e anche se il gesto tutto sommato non mi piacque, mi piacque molto.
"Ripeti con me..." sorrise lui, al mio sorriso, e cominciò: "Ei."
Quella era la 'A'?
"Ei."
"Bi."
"Bi."
"Sì dì ì eff jì heich ai gei kei el em enn ou pì kiù a: es tì iù vì dabolvì ix uài zed."
Lo guardai male. "Cattivo."
"Molto. Prova senza che ti guidi."
Ma erano, quante?, una, due, tre, cinque parole. Perché non riuscivo a seguire il filo del mio pensiero, voglio dire, le lettere in italiano mi venivano senza nemmeno richiamarle alla mente...
"Non ci riesco!"
"Devi sentirle e risentirle" mi sorrise Michele, conciliante, "così ti ci abitui", dandomi un CD chiamato "per inglesi principianti". Un nome stupido, un CD per stupidi; ci rimasi quasi male.
"Non guardarmi così. Non è vero che non ci riesci. Devi solo provare" continuò a sorridermi Michele, sempre più dolce, ma non riuscendo a guadagnarsi un mio sorriso. Non volevo farlo, punto.
"Provaci. Ti chiedo solo di provarci un'altra volta."
Gli sorrisi. "Ei, bì, sì, dì, i, eff" tutto sommato erano simili all'italiano... e già mi bloccai.
"Cosa pensavi, sciocca?"
"Niente." E, tentando di essere sincera su quello su cui avevo già mentito, con la testa vuota arrivai fino a "kei": poi non mi raccapezzai più...
"Vedi che sei brava? Eccoti lo zuccherino..." mi sorrise ancora Michele, porgendomi un Ferrero Rocher oltre che alla Coca-Cola. Gli diedi uno spintone, e in men che non si dica ci rotolavamo sul pavimento a farci il solletico.
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