20 - Perché?

Per qualche ragione mi sentivo ancora inquieta di lì a due giorni. Eppure era vacanza, e la prospettiva di tornare a scuola alle prese in giro, a sguardi vuoti, a sguardi di rimprovero, e a non-sguardi era ancora lontana, anche se ancora troppo disperatamente vicina.

Avrei sperato di passare il mio secondo anno di scuola superiore meglio del primo, che era stato molto traballante fra nuovi impegni, brutte compagnie e pessime prospettive. E quando Michele era entrato nella mia vita ci avevo quasi creduto. Ma era stato un errore, uno stupido, banalissimo errore.

Come lo era stato accettare il suo invito di andare dietro, a conoscere i ragazzi. Quelli potevano sembrare tanto carini da lontano, tutti spiritosi e spensierati; ma da vicino erano il male, proprio come le ragazze: ciance, ciance, ciance. E io, che non capivo i ragazzi almeno quanto non capivo le ragazze, non riuscivo a capacitarmi del perché non andassero troppo d'accordo, del perché per i ragazzi fosse così difficile tentare un'avance seria e del perché avessero quasi paura delle ragazze, ritenendole aliene; perché per loro ci fosse una definizione di "macho", fatta di gesti rozzi, mancanza di sensibilità e falso onore, da cui non potevano allontanarsi un attimo; e non capivo cosa le ragazze ci trovassero nei ragazzi, tanto da parlarne sempre e proiettare su di loro l'idea di completezza e felicità, rendendoli il senso ultimo della loro esistenza; e non riuscivo a concepire nemmeno metà del motivo per cui fossero così "misteriose", ambigue, e incomprensibili, a loro modo; non capivo perché alcune ambissero tanto a far soffrire i ragazzi, quando, se non andavano loro a genio, bastava ignorarli. Perché si ingabbiavano nelle loro presunte, fittizie identità?

I misteri dell'universo. Il mondo non era destinato a morire, ma lo facevano morire gli umani: e perché? Perché gli umani sono sempre stati in conflitto fra loro? Perché l'uomo deve sempre avere qualcuno a cui dare la colpa? Perché i potenti devono sempre far vedere che sono potenti, accaparrandosi più potere di quanto non ne dovrebbe spettare a dieci di loro messi insieme? Perché l'idiota deve far vedere di essere superiore a qualcun altro, quando il solo volerlo "dimostrare" palesa il fatto che sia assolutamente inferiore? Perché devo sempre sentirmi come un'idiota, incapace, insensibile, troppo sensibile stupidissima adolescente inutile che sa solo chiedersi perchéperchéperché senza mai darsi per vinta e sapendo credere solo nella stupidità, o nel dolore, o nell'impossibile?

Perché me ne stavo lì, sul letto, stesa, senza sapere quello che succedeva dentro di me, senza riuscire a ricordare quello che era la 'felicità', senza riuscire a sorridere, o ad alzarmi, e nemmeno a piangere?

Mi presi la testa fra le mani, cominciando a stringercela fortissimo, sperando di poterla schiacciare, tanto da non consentirle più di rimuginare. Era un po' che mi sentivo così, quando ero sola. Ed era strano, perché il pensiero che mi giungeva più spesso in mente non era la solitudine.

In verità, non era nulla quello che pensavo. A cominciare era una sensazione di vuoto che partiva dal cuore: il cuore, vuoto, cominciava a pesare e mi diceva che non ero nessuno, non meritavo niente, e tutte quelle cavolate lì. Se non fossi stata nessuno, allora perché Michele avrebbe perso tempo con me?

Quasi mi veniva in mente Marty, in quel momento, proprio come se l'avesse meritato. Quell'ultimo giorno prima delle vacanze di Natale mi aveva evitata come se avessi avuto la rabbia, come se fossi stata peggio che una sconosciuta, più invisibile di un fantasma.

Ma non era al suo mutamento che volevo pensare, perché faceva male, e sommato al resto non mi dava altra voglia che urlare. Per questo mi concentrai su Michele.
Michele. Michele.

Un sorriso quasi si allargò sul mio viso sciupato dallo stress, dallo stress di soffrire e non sapere perché. Sentivo che i miei occhi, dietro le palpebre, sorridevano; al buio, brillavano.

Avevo le braccia strette sulla testa, a nascondermi dal mondo, come se i miei pensieri potessero essere letti attraverso i miei occhi, come se ci fosse stato qualcuno a guardarmi e non avessi voluto mostrarvi la mia espressione.

Anche se non c'era molto da nascondere, in un sorriso, me ne vergognavo quasi, tanto da non volerne nemmeno parlare al mio diario. Avrebbe reso quella sensazione materiale, quell'affetto delle parole, e credevo che qualsiasi parola non sarebbe bastato a descriverla.

Gli volevo troppo bene.

Singhiozzai, e piansi.  

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