Sofia
Mi ero appena messa a letto.
Paolo aveva borbottato per tutto il pomeriggio sul divano. Aveva dolore alla schiena. Qualche giorno prima era stato operato di ernia lombare, e il recupero sembrava molto lento. "Non abusare di antinfiammatori", gli avevo detto. "Ti distruggono lo stomaco". "Non più della tua cucina", aveva osservato lui, strappandomi una risata.
Finivano sempre così i litigi fra noi due: con lui che sussurrava, a bassa voce, una battutina, e io che, mio malgrado, non riuscivo a trattenermi dal sorridere. Insomma, alla fine avevo ceduto e gli avevo fatto un'iniezione. Era passata solo mezz'ora, ma già dormiva. Lo capivo dal suono particolare che faceva il suo respiro. Non mi piaceva che russasse: anzi, lo detestavo. Detestavo dover indossare dei tappi per le orecchie prima di addormentarmi, e ancor più odiavo ritardare a lavoro perché non avevo sentito la sveglia. Gli avevo addirittura proposto di dormire in letti separati, esasperata.
Quella notte quello stesso suono mi era sembrato una compagnia.
Avevamo cenato tardi.
Mi era venuta voglia di tiramisù.
"Non sarai mica incinta?" aveva ironizzato Paolo.
Così mi ero messa a cucinare.
Tra i suoi lamenti e la mia inerzia si erano fatte le dieci di sera. Avevamo guardato un po' di tv, sdraiati sul divano. Sul tardi gli avevo fatto l'iniezione, avevo sparecchiato e poi mi ero messa a lavare i piatti.
Ma non ne avevo molta voglia. Erano rimasti lì, nel lavandino.
Li avrei lavati la mattina seguente.
Avevo riposto il tiramisù avanzato nel comparto più alto del frigorifero. Quindi mi ero messa in pigiama e mi ero infilata a letto.
"Paolo, sei ancora sveglio?"
Avevo voglia di parlare.
L'avevo bisbigliato al suo orecchio, abbastanza forte perché mi sentisse. Dormiva profondamente.
Avevo indossato i tappi e spento l'abat-jour sul comodino. Mi ero voltata su un fianco. Verso di lui.
Era arrivata la notte. D'improvviso. Il buio.
Tutto ciò che temevo.
Mi era precipitato addosso.
Senza accorgermene, stavo piangendo. Singhiozzavo come una neonata. Ripensavo al giorno prima. La chiesa. Il caldo. La bara. Bianca. Lucida. Sofia. La mia Sofia.
Mi tolsi i tappi dalle orecchie.
Il russare di Paolo mi sembrava quasi di conforto. Era comunque una distrazione. Ciò di cui avevo bisogno.
Mi voltai sul fianco opposto, asciugandomi le lacrime con le lenzuola.
Lo sentii.
Sentii un rumore. Proveniva dalla cucina. Era un rumore strozzato, soffocato, ma chiaramente udibile.
"Paolo" sussurrai. Lanciai un'occhiata alla sveglia: erano le due di notte.
Mi pietrificai. Ebbi l'impressione che il cuore saltasse un battito. Poi ricominciò a pulsare, più forte. Come se qualcuno l'avesse estratto dal petto, immobilizzato, teso su una fionda e poi schiantato.
Ero terrorizzata.
Qualcuno era entrato in casa.
Nei mesi precedenti c'erano state diverse rapine in appartamenti del nostro quartiere.
Gli avvertimenti della polizia, il moltiplicarsi delle pattuglie in zona: erano tutti chiari segnali che qualcosa non andasse. Si vociferava di una banda di criminali dell'Est Europa, ma di ufficiale non c'era nulla. Tutte chiacchiere tra vicini.
Acuii l'udito, ansiosa.
Attesi. Attendevo qualcosa, qualsiasi cosa che denunciasse un movimento di qualche tipo. Il crack del parquet. Il cigolio di una porta. Il fruscio di una finestra che veniva spalancata.
Sollevai lo sguardo verso il corridoio.
La vidi. Vidi un'ombra. Era l'ombra di un corpo, forse il corpo di un uomo, e si era mossa verso il bagno. Mi voltai verso mio marito. Gli diedi uno scossone.
"Paolo! Paolo!"
I sussurri erano diventati urla soffocate. Lui spalancò gli occhi, stanchi. Le sue iridi bluastre mi squadrarono, perplesse.
"Mi ero appena addormentato" biascicò.
"C'è qualcuno in casa" dissi tutto d'un fiato.
Paolo spalancò le palpebre.
"Hai chiamato la polizia?"
La polizia. Giusto. Perché non ci avevo pensato?
"No. Non so, non ne sono sicura" quasi mi giustificai.
Lui sospirò.
"Ho sentito un rumore. E visto un'ombra" spiegai.
Si era messo a sedere.
"Andava verso il bagno. Deve essere lì. Forse è già uscito dalla finestra. Forse si è accorto che l'abbiamo sentito, e adesso sta tentando di scappare" ipotizzai.
Paolo si alzò e calzò le ciabatte.
"Tu chiama la polizia. Io vado a controllare".
Stavo per dirgli che no, non c'era alcun bisogno che lui andasse da solo, disarmato, incontro a chissà quale pericolo, ma era già partito in quarta.
Gli corsi dietro.
"Amore, non sono sicura che..." iniziai.
Entrò in bagno.
"Non c'è nessuno" mi interruppe.
Pigiò l'interruttore sulla parete e un'ondata di luce invase la stanza.
Era vero: non c'era nessuno.
"Forse sono tornati in cucina" azzardai. "Prima erano lì".
"Erano?" ripeté Paolo. Era scettico. "Non era solo uno?"
Andammo in cucina. Poi nella camera di nostra figlia. In corridoio. Nello sgabuzzino. In balcone. Persino nella nostra stanza.
Non c'era nessuno.
Tornai in camera nostra. Mi lasciai cadere sul letto.
"Non so, mi sembrava..." iniziai. "Non volevo svegliarti. Ti sei messo in piedi, sei ancora in convalescenza... sono stata una stupida".
Paolo si sedette accanto a me e mi afferrò una mano.
"Forse era Sofia" disse. Il suo tono, la sua voce, avevano una dolcezza che in venti anni di matrimonio non avevo mai percepito. Non così intensamente. "Le piaceva il tiramisù. Ricordi?"
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