♬ ~ 3.1 ɪ'ᴍ ᴀ ᴄʀᴇᴇᴘ. ɪ'ᴍ ᴀ ᴡᴇɪʀᴅᴏ

You're just like an angel,
Your skin makes me cry.
You float like a feather In a beautiful world
I wish I was special
You're so fuckin' special.
But i'm a creep. I'm a weirdo.
Radiohead
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È una sensazione strana. Provo più calore nell'oscurità che in mezzo alle persone.
Ogni singolo giorno in cui apro gli occhi, sento che si porta via un altro pezzetto di me. Manca davvero pochissimo, prima che si inghiottisca l'ultimo pezzo.

E io, sto solo aspettando quel giorno.
Qualcuno diceva che avremmo dovuto conoscere l'oscurità prima di poter apprezzare la luce.
Io invece, penso che siano tutte delle grosse puttanate poetiche.

L'oscurità si sta portando via ogni cosa di me. Mi divora dall'interno e non mi permette in nessun modo di urlare quello che provo. Mi impedisce di chiedere aiuto. Mi obbliga a fingere davanti al mondo intero che sto bene. E io bene, non lo sto affatto.

Finirà male. Il mio destino è già stato scritto, inciso nei meandri più oscuri dell'inferno.

Esco di casa con nemmeno un'ora di sonno alle spalle. Ho passato tutta la notte a rigirarmi nel letto, a tremare, a pensare.

Oggi, ho la giornata libera. Avrei voluto starmene tutto il giorno chiusa in quella bolla che è diventata casa mia. Ma i miei pensieri stavano iniziando a fare un gran chiasso. Non li sopportavo più e sono scappata. Ho infilato le cuffie e mi sono recata al centro della città, imponendomi di fare almeno oggi una spesa decente. Anche se so come andrà a finire; non mangerò niente di ciò che acquisterò. Ma la verità è un'altra: ho finito la mia scorta vergognosa di alcolici.

Ed eccomi qui; con due occhiaie che toccano terra. Il viso sepolto dalla matassa scompigliata dei miei capelli. Nascosta dentro abiti troppo grandi per me, che un tempo mi stavano bene, a riempire il cestino di bottiglie di Vodka e rum, sotto gli occhi sconcertati degli altri presenti. Be', che dicano pure ciò che vogliono; tanto ho le cuffie e non mi importa nemmeno di quello che penseranno di me.

Raggiungo gli scaffali delle schifezze. Di quelle cose talmente dolci che ti danno l'ingresso diretto nello studio del diabetologo. Al momento, riesco solo a ingerire quantità malsane di zuccheri.

Col cappuccio tirato sulla testa e la musica a palla, mi tiro sulle punte dei piedi per afferrare un pacco di biscotti glassati con del cioccolato al latte.

Il suono della musica viene disturbato da delle voci, che sono più che sicura non appartengano alla canzone che sto ascoltano. Infilo i biscotti nel cestino, tra la bottiglia di vodka e quella di rum e levo una cuffia.

Qualcuno dall'altro lato dello scaffale sta avendo un'accesa discussione. Non è mio solito origliare, infatti, prendo di nuovo la cuffietta pronta per infilarla nell'orecchio, ma qualcosa, una voce cattura di nuovo la mia attenzione.

«Hai rotto il cazzo, Noel!» sbotta, quella stessa voce roca e impertinente che mi ha chiesto quale disturbo ho.

«No, tu hai rotto il cazzo!» risponde, una voce meno mascolina ma non meno arrabbiata.
«Dovresti baciare la terra su cui cammino, se non sei finito in una fottuta casa famiglia.»

Noel emette una risatina. «Sai, l'idea non mi sembra più così malvagia.»

Un impulso istintivo mi spinge a sbirciare oltre le confezioni di biscotti. Pessima mossa, cazzo. Pessima, dato che quattro iridi fredde come il ghiaccio stanno guardando proprio me.

Colta alla sprovvista mi abbasso e prego di venire inghiottita dal pavimento del supermercato. Mi rannicchio su me stessa e chiudo persino gli occhi.

«Ti abbiamo vista» dice, la voce divertita di Noel. Il tono arrabbiato di poco fa è sparito nel nulla.

Strizzo gli occhi e per qualche secondo temo anche di aver smesso di respirare. Non rispondo. Forse se mi fingo invisibile, lo divento davvero.

Un'altra voce mi raggiunge alle orecchie. «Ora ho capito quale disturbo ti affligge: sei una specie di stalker.» Non è una domanda. È una constatazione.

Aggrotto la fronte anche se non può vedermi. Mi alzo in piedi, ormai mi hanno vista e nascondermi è praticamente inutile.

«Non sono una stalker» sibilo, senza voltarmi. Mi sistemo il cappuccio sulla testa e mi allontano da lì senza aggiungere altro.

Raggiungo il reparto dei gelati. In realtà neanche ho voglia di gelato, ma è il reparto più vicino alla cassa. Quindi, posso scappare subito.

Afferro una vaschetta di gelato al limone e la infilo nel cestino. Sto per chiudere il freezer quando una mano enorme e tatuata mi impedisce di farlo. Non ho bisogno di voltarmi per capire di chi si tratta. Anche perché accanto a me è appena comparso il Biondo Junior.

Faccio un passo indietro, andando a sbattere contro il petto duro come il marmo del Biondo Senior. Ma che cazzo.

Mi scanso come se mi avesse folgorata. Raddrizzo le spalle e sollevo il mento con aria di sfida. «Adesso chi è che segue chi?»
Entrambi i fratelli sogghignano. Dio, perché sono così identici? Sembrano fatti a stampino. Non sembrano nemmeno reali, maledizione.

«Sempre tu. Come sempre tu ascolti le conversazioni altrui», dice il Biondo Maggiore. Quei cubetti di ghiaccio che lui chiama iridi, scivolano in basso e si posano sul mio cestino. Un sopracciglio scuro si inarca appena. «Stalker e anche alcolizzata. Bene», guarda il fratello. «Credo proprio che cambierai strizza cervelli.»

Noel alza gli occhi al cielo e sbuffa. «Lascialo perdere.»

«Come se mi importasse del suo giudizio», sbuffo indifferente.

«Si vede che non ti importa di quello che pensano di te. Altrimenti», mi indica dalla testa ai piedi con la mano, «Non andresti in giro così.»

Che grandissima testa di cazzo. «Non sei obbligato a guardarmi», replico stizzita.

Noel si sovrappone tra noi, intralciandomi la vista con la sua altezza. Apre il freezer e prende una confezione di cornetti alla panna. «A quanto pare hai già avuto il dispiacere di conoscere mio fratello. Posso assicurarti che io e l'altro non siamo così.»

C'è n'è anche un altro un altro? Che cos'è, un epidemia?

«In realtà non lo conosco affatto.»

Per tutta risposta, con un sorriso beffardo a incurvargli le labbra, il Biondo Senior tende una mano verso di me. «William.»

Osservo prima la sua mano poi il suo volto. « Non è un piacere per me conoscerti. Quindi, non ti stringerò la mano.»

Noel ridacchia divertito da questo spettacolino imbarazzante. «Be', Billy, lei si chiama come una canzone di quel vecchio che ascolti tu... com'è che si chiama?» Ci pensa un po' su, mentre posa la confezione di cornetti nel carrello. «Non ricordo, comunque quello con i capelli arancioni.»

Ma che sta dicendo?

Persino William lo guarda in modo confuso. Noel ci ignora, poi schiocca le dita. «Giusto, Bowie, si chiama!»

«Lei si chiama David Bowie? Ma che cazzo stai dicendo?» sbotta irritato William.

Noel alza nuovamente gli occhi al cielo. «Ma che cazzo dici tu! Si chiama come una sua canzone!»
William è sempre più confuso e irritato. «Ah, si chiama Space Oddity? Life on Mars? Rebel Rebel? Let's dance? Heroes...»

«Blue Jean! Per l'amor del cielo taci!» Mi intrometto, facendogli tappare quella boccaccia.
Lui mi guarda. «Sul serio?»

Annuisco spazientita. «Sì, qualche problema anche sul mio nome?»
«No», risponde secco.

«Bene. Ora se avete finito di mettermi in imbarazzo, me ne vado», borbotto stringendo le maniglie del mio cestino.

Una scintilla attraversa gli occhi di Noel. «Perché non vieni a bere un caffè con noi?»

La sua domanda mi spiazza al tal punto da sbattere le palpebre ripetutamente. La volta scorsa, quando eravamo seduti tutti in cerchio non sembrava così... Amichevole? Perché ora sì?

Sbatto ancora le palpebre a furia di scacciare via la sorpresa. «Ehm no? Grazie per l'invito ma la risposta è no.»
William schiocca la lingua. «Guarda che non mangiamo persone. Non in pubblico, almeno.»

Il suo sarcasmo inizia già a urtarmi il sistema nervoso. «La risposta è comunque no. Non prendo un caffè con uno che la prima volta in vita sua che mi vede mi chiede di quale disturbo soffro.»

Noel si volta di scatto verso il fratello. «L'hai fatto davvero?»

William alza le spalle con noncuranza.

«Sì, l'ha fatto», rispondo io. «Quindi perdonami Noel se declino l'invito. Dovresti portarci anche lui dal dottor Colvin. Qualcosa mi dice che ne ha bisogno.» Detto ciò, giro i tacchi e mi avvio verso la cassa. Sentendo gli occhi di William perforarmi la nuca e la risatina divertita di Noel.

Mentre sistemo la mia roba sul rullo della cassa, mi maledico mentalmente per aver deciso di venire qui a fare la spesa, per aver abbandonato per una volta il mio negozietto di fiducia a Camden.
La cassiera tossisce attirando la mia attenzione, per poi scoppiarmi una bolla rosa di chewing gum in faccia. «Sei maggiorenne almeno?» indica con un gesto del mento il mio bottino alcolico.

«A quanto dicono i miei documenti sì», rispondo secca. «Vuoi vederlo?»

«Sì.»

E io che pensavo che avrebbe lasciato perdere. Che palle.
Apro lo zainetto e prendo la mia patente di guida dalla foto inguardabile. Ma almeno in quello scatto ero ancora me stessa.

Scoppia un'altra bolla alla fragola con fare annoiato. «D'accordo» dice, prima di restituirmi la patente.

Pronta a infilarla di nuovo dentro lo zainetto, questa mi viene strappata via di mano. Alzo lo sguardo, incredula e soprattutto furiosa.

William la tiene tra il pollice e l'indice, un'espressione divertita su quella faccia da schiaffi. «Bene, hai solo ventun anni e bevi come un camionista» si ammutolisce, poi mi guarda negli occhi. «Weller» , quegli occhi magnifici si sgranano appena. «Sei la figlia di James Weller? Non si direbbe.»

Dovrei offendermi? Forse un po'. Tutti dicono che somiglio a mio padre. O per lo meno, quando avevo i capelli del mio colore naturale.

Mi indispettisco e gli strappo di mano la mia patente, riponendola al sicuro. «Non sono cazzi tuoi!»
«Disse la principessa» mi schernisce, un'altra volta. «Sul serio, è tuo padre?»

«Sono cento sterline» ripete intanto la cassiera, seccata.

Cento sterline? Ho preso due stronzate! Costano davvero così tanto gli alcolici?

Frugo nella tasca dei jeans e ne estraggo un paio di banconote accartocciate su se stesse. Aspetto impaziente il mio resto, quasi glielo strappo di mano quando la tende verso di me.

Borbotto un grazie e corro via.

So che a Londra tutti conoscono mio padre, è impossibile non conoscerlo. Non voglio però che mi associno a lui o meglio: che lui venga associato a me.

Avere una figlia come me dovrebbe essere una vergogna, un qualcosa da tenere nascosto.

Infilo di nuovo le cuffie e mi incammino verso la metropolitana, con le bottiglie di alcol che sbattendosi contro le mie cosce tintinnano e attirano alcuni sguardi. Lo capisco. Un clochard non ha niente da invidiarmi. Siamo a pari livello. Solo che io dormo su un letto, è l'unica differenza.

James Hetfield urla nelle mie orecchie mentre raggiungo la metro. Una mano si posa sulla mia spalla e io salto in aria dalla paura. Non è la prima volta che qualcuno tenta di derubarmi alla luce del sole. Così, senza nemmeno pensarci mi giro e sollevo una gamba, che va a incastrarsi in mezzo alle gambe di qualcuno.

Impiego qualche secondo a realizzare che si tratta di William che al momento, se ne sta piegato in due e impreca tra i denti. Noel, accanto a lui ride come un pazzo.

Strappo via una cuffia che va a incastrarsi tra i miei capelli. «Oddio scusa», gracchio. «Anzi, niente scuse! Così ti impara ad arrivare alle spalle delle persone.»

«In realtà ti abbiamo chiamata», si intromette Noel.
Scrollo le spalle. «Be', non dovrebbe comunque toccare le persone in questo modo.»

William solleva lo sguardo, gli occhi che brillano di un misto di dolore e rabbia. Si tira su un po' incerto e traballante. «Va bene Chuck Norris, questa volta me lo sono meritato», emette un sospiro tremante.

«Direi. Be' che cosa vuoi?»
«Credo che voglia portarti a letto per procurarsi un contratto con la casa discografica di tuo padre», risponde Noel.

William lo guarda così male che rabbrividisco anche io sotto quello sguardo. «Non è proprio così. Vorrei che mettessi una buona parola con tuo padre.»

Mi sfugge una risata. «Scusa? Ma se nemmeno so chi sei! E poi, una buona parola su cosa, esattamente.»

Lui alza gli occhi al cielo. «Cosa mai potrei cercare da un discografico? Dell'eroina? Cipolle e patate? Mi sembravi più sveglia.»

Adesso è il mio turno di alzare gli occhi al cielo. «Perché non vai direttamente da lui? Io non posso fare niente» Neanche gli parlo. Non lo vedo da mesi.
E William non sta facendo altro che ricordarmi che figlia di merda sono. La peggiore in assoluto.

Strattona lo zainetto che ha Noel, apre la zip per poi estrarne un disco. « Lo sai meglio di me che parlare con uno come tuo padre è impossibile. Per prendere un appuntamento passano mesi. E noi, tempo non ne abbiamo.»

Noel borbotta qualcosa sottovoce che non capisco.
Osservo il disco che mi sta sventolando davanti agli occhi. «Da me che vuoi?»

Serra le labbra. «Ma allora sei scema? Potresti dargli questo fottuto disco e chiedergli gentilmente di ascoltarlo?»

Ma chi si crede di essere?

«No», replico in tono fermo. «Non è un mio compito. Prendi un appuntamento come tutte le persone normali e glielo dai di persona.»

«Sei una stronza, lo sai?» Sbotta, con la fronte aggrottata.
Alzo le spalle. «Lo so. Ma è così che mi comporto con gli arroganti. Ora, se non hai altre cazzate da dirmi, dovrei proprio andare.»

I suoi occhi si assottigliano così tanto che l'azzurro delle sue iridi viene risucchiato. So che vorrebbe insultarmi, qualcosa però lo trattiene. «Per favore.»

Oddio, ma allora è testardo come un mulo!

Scuoto il capo. «Senti, tagliamo corto: io non parlo con mio padre da mesi. Non lo farò di certo per consegnargli un disco del cazzo che sicuramente farà schifo. Ti risparmio la figura di merda. Cerca un'altra etichetta discografica.» Un po' cattivella oggi?

Noel soffoca un'altra risatina.
Invece William, vorrebbe vedermi prendere fuoco davanti ai suoi occhi. «Fottiti.»

«Altrettanto. Ciao!» sventolo la mano per aria e me ne vado.

L'ultima cosa che ho intenzione di fare è quella di presentarmi dal nulla, dopo mesi a casa di mio padre con un disco tra le mani che molto probabilmente farà schifo. Non esiste.

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Di pomeriggio mi presento alla solita riunione di anime perdute e vaganti. C'è anche Noel. Mi saluta con un cenno della mano che io ricambio con un'alzata di mento.

Mi siedo al mio solito posto e poco dopo lui si alza per venire a sedersi accanto a me.

Sbuffo per fargli capire che non sono del tutto d'accordo con la sua decisione. E che non ho nemmeno tanta voglia di conversare con qualcuno.

Si avvicina a me, sporgendosi nella mia direzione. «Credo proprio che qualcuno abbia preso il mio posto nel podio dei più odiati.»

«Cosa?» chiedo in modo svogliato.

«Ti sei guadagnata il podio sulla lista dei più odiati di mio fratello», spiega.
Alzo gli occhi al cielo. «Credo che dormirò lo stesso questa notte.»

Lui sorride. «Mamma mia, hai un pessimo carattere. Mi ricordi lui.»
Lo guardo di sbieco. «No, non paragonarmi a nessuno. Io sono io, lui è lui.»

«Devo confessarti una cosa.»
Sbuffo ancora, mi sta irritando parecchio. «Tutto quello che devi dirmi, puoi dirlo al dottor Colvin.»
«Dubito che a lui importi sapere che mio fratello mi ha incaricato di infilarti il cd nello zainetto. Ma se vuoi, glielo dico comunque», ridacchia.

Aggrotto la fronte. «Sul serio? E tu ti sei lasciato convincere?»

«Certo che sì! Farei qualunque cosa pur di non sentire la sua voce. Quindi, o lo butto appena usciamo da qui. Oppure lo prendi tu e lo butti. Così siamo apposto tutti e due. Potresti dirgli di averlo fatto arrivate a tuo padre tramite piccione e credo che ti lascerà in pace. Lascerà in pace anche a me.» Strizza l'occhio in modo ammiccante, per niente persuasivo.

Sbuffo ancora. «D'accordo, dammi questo maledetto di cd», apro il palmo della mano. Lui lo prende dallo zaino e me lo passa.

«Grazie, sei un angelo», mi canzona.

Annuisco senza rispondere e getto il cd dentro lo zainetto.

L'intera ora passa lenta, lentissima e noiosa. Più di una volta ho rischiato di addormentarmi sulla sedia. Evito di andare su a fumare con la paura di ritrovarmi di fronte quel Biondo Malefico. E ora sto per dare di matto perché è da circa due ore che non fumo. E quando il mio corpo chiede, pretende nicotina, bisogna accontentarlo il più preso possibile.

Noel si avvicina di nuovo a me. «Come mai hai le lentiggini?»

Ma che domande sono?

Lo guardo stranita. «Ti stai annoiando? No perché questa è una domanda senza senso.»

Scuote il capo e alcuni ciuffi color platino gli vanno a finire negli occhi. «Non ho mai visto una con i capelli neri e così tante lentiggini di questo colore.» Mi osserva da più vicino con quei cubetti di ghiaccio mettendomi terribilmente in soggezione. Mi sento come uno strano insetto studiato al microscopio.

Mi allontano appena per riprendermi un po' del mio spazio personale. «Be', ora l'hai visto.»

Continua a ispezionare minuziosamente il mio viso. Poi il suo sguardo si posa sulla mia fronte. Un sorriso gli incurva le labbra vermiglie. «Sono tinti» dichiara, sicuro di sé.

«Bravo, hai vinto il premio per il miglior impiccione del mondo», borbotto.
«Rossi» continua, sorvolando sul mio sarcasmo. «Sono rossi. Perché li hai tinti?»

Oddio, tutte queste domande mi stanno snervando. In più mi fanno agitare e venire ancora più voglia di fumare. «Perché volevo cambiare.»

Arriccia il naso in un modo carino. «Secondo me ti sei solo rovinata.»
Annuisco, le mie gambe iniziano a muoversi con più urgenza. «Grazie per il complimento.»

«Non c'è di che», sorride. «Senti...»

Sollevo una mano per azzittirlo. «Basta! Ho voglia di fumare, sono nervosa e non posso andare a fumare perché temo di incontrare quello svitato di tuo fratello! Dammi tregua!» sbotto.

Lui non si scompone più di tanto. «Mio fratello non c'è, puoi andare. Oggi è impegnato con una delle tante. Esce con così tante ragazze che immagino stia facendo un album delle figurine.»

«Grazie per l'informazione non richiesta.» Mi affretto ad afferrare il pacchetto delle sigarette dallo zainetto e mi alzo dalla sedia senza dire una parola.

Salgo le scale ed esco in terrazza. Effettivamente Jack Frost non è qui.

Mi siedo sul muretto e accendo subito una sigaretta.

Proprio nel momento in cui butto fuori il fumo, il mio telefono vibra nella tasca. Ogni volta è un colpo al cuore.
Lo prendo. È Thomas. Una chiamata.
Fremo dalla voglia di rispondere. Di sentire la sua voce, anche se sicuramente saranno solo insulti. Invece, premo la cornetta rossa.

Poco dopo, mi arriva un sms.

Thom: Non ti sto chiamando perché ho tutta questa gran voglia di sentirti. Ti volevo solo avvisare che nonno si trova al pronto soccorso. Niente di grave, è solo caduto mentre cercava di battere papà alla Wii. Ma, dato che io non sono come te, ti informo su quello che succede a casa.
Ciao.

Impiego qualche secondo per regolarizzare i battiti del mio cuore.

Mi odia così tanto?
Certo che ti odia. Ne ha tutto il cazzo di diritto.

Getto la sigaretta oltre il muretto e torno rapidamente giù. «Io devo scappare» dichiaro, sistemandomi lo zainetto in spalla.

«Non è ancora finito il tempo» dice, Colvin.
«È un'emergenza. Mio nonno è all'ospedale!» E cazzo, non dovrei nemmeno giustificarmi.

«Oh, spero niente di grave. Puoi andare. A domani», mi sorride.

«Sì, ciao.» Mi volto ed esco da quella stanza.

Esco fuori dall'edificio ma rimango ferma sul posto. Non ho la più pallida idea in quale pronto soccorso si trovi mio nonno. Né se sia una buona idea presentarmi così di punto in bianco dopo mesi di silenzio. E solo che... Voglio vederlo. Voglio vederli. Anche se solo per due millesimi di secondo.

Prendo il telefono e scrivo di nuovo a mio fratello.

Io: Ciao Thom... Dove si trova nonno?

La sua risposta arriva subito.

Thom: St Thomas' Hospital. Che coincidenza, no?
Almeno so che sei viva.
Io: Sto andando lì.
Thom: Che vuoi, un applauso? È il minimo che potresti fare.

Lotto contro l'impulso di lanciare il cellulare dentro al Tamigi. Non rispondo. Non è il momento di litigare e né tanto meno per cose dette in preda dalla rabbia. So che è arrabbiato con me e devo solo accettarlo. È una reazione giusta per il modo in cui mi sto comportando. Non sono loro a essere nel torto. Sono io ad aver sbagliato letteralmente tutto.

Faccio il giro più lungo del solito per raggiungere l'ospedale. Per tutto il tragitto non ho fatto altro che pensare a come presentarmi in quella stanza. A che cosa dire.

A ogni passo che faccio, che mi avvicina all'ospedale, il mio cuore perde un battito. Minaccia di squarciarmi la cassa toracica e di lasciarmi con un enorme buco al centro del petto.
Incanalo un bel po' d'aria prima di entrare dentro quell'edificio. Sapere che sono tutti lì, mi fa agitare parecchio.

Come reagirà mio padre? Mia nonna? Nonno? Che cosa diranno trovandosi davanti ai loro occhi la stronza che non risponde a nessun loro messaggio e che è sparita di punto in bianco dalle loro vite?

Giuro che l'idea di fare retromarcia attraversa parecchie volte la mia mente. Ma non lo faccio. Non lo faccio perché la voglia di rivederli, in questo momento, supera anche la paura di venire rifiutata.

Non mi aspetto niente da loro. Non mi stenderanno un tappeto rosso al mio arrivo. Non mi aspetto nemmeno un abbraccio.

Quando varco le porte scorrevoli del pronto soccorso, sono fin troppo consapevole di non ricevere nessuna parola di benvenuto.
Mi dirigo alla reception per chiedere informazioni. L'infermiera mi informa che mio nonno si trova nella stanza numero quattordici.

Con il cuore in gola e con le ginocchia molli attraverso il corridoio, lasciandomi dietro una lunga scia di odore di disinfettante. Persone che urlano di dolore, altre che piangono disperate. Non mi sono mai piaciuti gli ospedali, men che meno quando uno di casa si trova qui dentro.

Mancano davvero pochi passi per raggiungere la stanza numero quattordici. Il cuore sta per scoppiarmi come un petardo la notte di Capodanno. Mi fa male lo stomaco e sento la bile risalirmi su per la gola.

Mi tremano le mani quando mi fermo davanti alla porta. Sento vociferare dall'altra parte. Riconosco subito la risata cristallina di mio nonno. Il mio cuore si scioglie un po'.

Non riesco a muovermi, i miei piedi è come se avessero messo delle radici invisibili dentro il pavimento. Sono pietrificata. Il cuore mi rimbomba dentro le orecchie.

Come dovrei entrare? Dopo otto mesi, che cazzo devo dire?

Ehilà, sono la pecora nera della famiglia! Come butta?

Sono lì per lì per voltarmi e andare via, quando la porta si apre e quegli occhi così identici ai miei, incrociano il mio sguardo.

C'è un attimo di smarrimento da parte di entrambi. Mio padre mi guarda come se avesse appena visto un fantasma. Mi osserva dalla testa ai piedi, l'espressione che non lascia trasparire niente.
Se ho imparato a nascondere i miei sentimenti, l'ho imparato da lui.
Ma non è sempre stato così, affatto. Sin da piccola papà mi ha dato l'abitudine di dire tutto ciò che mi passava per la testa. Non c'erano tabù tra di noi.

Però in questo momento, per un istante, mi sembra di avere uno sconosciuto davanti agli occhi. E pagherei oro per sentire i suoi pensieri.

«Blue?» la voce ridotta a un sussurro quasi inudibile.

Annuisco lentamente. Ho una paura tremenda di muovermi. Forse anche un po' di paura di vomitare sul pavimento. «Ciao, papà», la voce mi trema così tanto che devo portare una mano sullo stomaco per placare il subbuglio che ho dentro.

Abbozza un sorriso, poi torna imperscrutabile. Si fa da parte per lasciarmi entrare.

Abbasso lo sguardo a terra ed entro dentro la stanza.

Quando lo rialzo, vedo mio nonno che è seduto sul letto, ha una spalla fasciata e un grosso bernoccolo sulla fronte. L'aria è intrisa da un forte odore di alcool e disinfettante. Sulla poltrona dall'aria scomodissima, c'è mia nonna. I capelli rossi sono legati in uno chignon morbido. Indossa un vestito lungo fino alle caviglie bianco con delle piccole rose disegnate. È impeccabile, come sempre.

Di certo, la classe e la femminilità non l'ho ereditata da lei.

In fondo alla stanza, in piedi, appoggiato contro il muro e con la fronte aggrottata, c'è mio fratello. Bello come sempre. Incazzato come sempre. È lui il primo a rendersi conto della mia presenza. Per un momento mi sembra pure che voglia venirmi incontro, invece, resta lì dov'è a guardarmi.

Poi è il turno di nonna che appena mi vede balza in piedi, raggira il letto e mi corre incontro. A lei non importa se tu sei il peggiore dei criminali, se sei il peggior nipote del mondo. Lei è buona. Mi stritola in un abbraccio che purtroppo non riesco a ricambiare. Posa le mani sulle mie spalle e mi allontana appena per guardarmi meglio.

La sua espressione si fa più seria. «Sei dimagrita tantissimo, amore. Non stai mangiando?»

Distolgo lo sguardo dai suoi occhi. Non ho il coraggio di guardarla negli occhi e mentire. «Sto solo lavorando tanto, ma sì, sto mangiando» sorrido, senza nemmeno guardarla in faccia.

Mio nonno mi regala uno dei sorrisi più calorosi del mondo. Solleva il braccio buono e mi invita ad andare da lui.

Lo raggiungo. Lascio che mi abbracci e che mi baci tra i capelli. Poi mi scosta e, con il dito leva una ciocca di capelli e me la sistema dietro l'orecchio. «Che hai fatto ai capelli? Sembri più pallida.»

Simulo una risata. «Volevo solo cambiare. Ma col tempo, andrà via.»

«Lo spero proprio! I capelli rossi sono un marchio di famiglia, Blue Bean

Quel nomignolo mi colpisce sullo stomaco come un cazzotto. È da tanto che non mi sentivo chiamare così da lui. Era stato Dylan ad appiopparmi quel nomignolo quando eravamo piccoli.

Le cose si stanno mettendo male per me. Desidero già scappare via, troppi sono i pensieri e i ricordi.

Schiarisco la gola. «Allora, che cosa stavi combinando?»

Lui si sistema contro i cuscini, mi sorride in modo furbo. I miei nonni non sono affatto vecchi. A quanto pare, avere figli da giovanissimi è una specie di maledizione nella mia famiglia. Quella maledizione però, è finita con me. Ho ventun anni e nessun mostriciattolo tra i piedi.

«Stavo facendo il culo a tuo padre con quel gioco... Oui, Wifi », sventola una mano per aria.
«Insomma, hai capito cosa intendo, no? Be', lui non voleva accettare la sconfitta e mi ha fatto cadere.»

Papà alle mie spalle ridacchia. «Ma non è vero! Sei caduto a terra come un sacco di patate. Non dare la colpa a me. Erano testimoni mamma e Thomas.»

Ridacchiano tutti.

Improvvisamente mi sento un'estranea in mezzo a degli sconosciuti. Per un momento non mi sento più parte di questa famiglia. So che è solo frutto dei pensieri maledetti del mio cervello. Eppure lo penso. Eppure fa male da morire.
Per colpa mia sto perdendo le cose più belle. Le giornate passate a giocare a giochi stupidi. Mi sto perdendo i pranzi, le cene, le loro risate.

Qualcosa dentro di me si frantuma in mille pezzi. La vista si offusca appena, ma sono brava a ricacciare le lacrime indietro.

Thomas continua a guardarmi in silenzio. Io muoio dalla voglia di scappare via.
E sono pronta a farlo, se mio padre non mi avesse appena posato una mano sulla spalla e mi avesse detto: «Possiamo parlare?»

Tutto il mio corpo si sta rifiutando. Ma la mia bocca sussurra un flebile: «Sì.»

Sotto lo sguardo di tutti usciamo fuori nel corridoio. Io guardo ovunque tranne che negli occhi di mio padre. Lo sento, lo sento perfettamente il suo sguardo addosso che cerca di scavarmi disperatamente dentro.

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