♫ ~24.1 ᴊᴜꜱᴛ ᴛᴀᴋᴇ ᴛʜɪꜱ ꜱᴏɴɢ ᴀɴᴅ ʏᴏᴜ'ʟʟ ɴᴇᴠᴇʀ ꜰᴇᴇʟ ʟᴇꜰᴛ ᴀʟʟ ᴀʟᴏɴᴇ

Just take this song and you'll never feel
Left all alone
Take me to your heart
Feel me in your bones
Just one more night
And I'm comin' off this
Long & winding road
I'm on my way
Well I'm on my way
Home sweet home
Mötley Crüe
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◄ ││ ►

Apro gli occhi pensando di ritrovarmi su qualche nuovo pianeta da esplorare. Invece riconosco l'umidità che macchia le mura di casa mia e anche il ronfare di Salem.

Ma non sono qui da sola. E fuori ormai c'è il sole.

Non ho la più pallida idea di come ci sono tornata a casa. Immagino di non essermi smaterializzata come per magia sul mio letto.

Cerco di mettermi a sedere facendo leva sui gomiti ma non ci riesco. È come se il mio corpo pesasse un quintale in questo momento.
Qualcuno da qualche parte della stanza si schiarisce la voce.

Riconosco subito di chi si tratta. Riconosco persino un piccolo suono che emette. È grave.

«Vattene» sussurro, quando riesco a collegare il cervello alla lingua.

William appare davanti ai miei occhi, non ha più le ali. In compenso però sembra parecchio incazzato. «Non dirmi quello che devo fare.»

L'ultima cosa che voglio in questo momento è litigare con lui. Non ce la faccio. A stento riesco a sapere in che mondo mi trovo. Anche se non so più dove ho la testa e il resto del mio corpo.

«Sei a casa mia, quindi posso cacciarti», sbuffo. Passo una mano tra i miei capelli e tocco qualcosa di viscido. Alcune ciocche di capelli sono incrostate e appiccicate tra loro.

Che schifo. Mi sono vomitata i capelli?

Il materasso si abbassa sotto il suo peso. «Dobbiamo parlare.»

Afferro il cuscino dove dorme Salem e lo premo sul viso. «Non voglio parlare. Non adesso. Lasciami in pace, non ho niente da dirti.»

Me lo strappa via dal viso in malo modo e lo getta sul letto. La tempesta di ghiaccio che si sta abbattendo dentro i suoi occhi non promette niente di buono.
E io ora, non ce la farei a sopravvivere a quella tempesta, non ora.

«Ti ricordi che cosa hai detto?»

Lo ricordo eccome. Purtroppo ricordo tutto. Inumidisco le labbra. «Sì.»
Ricordo anche il modo in cui si è avventato contro il suo amico. Sicuramente lo ha scambiato per un sacco da boxe.

«Quindi sei andata a letto con Sid e poi mi hai permesso di toccarti» la sua non è una domanda.
«Sì. Non è importante. Anche voi continuate a farvela con qualsiasi cosa respiri. Eppure non mi sembra di avervi detto qualcosa» sussurro, fissando un punto del soffitto.

«Non è questo il punto.»
«E allora qual è?» sbotto. «Mi avete usata. E io ho fatto la stessa identica cosa, William!»

Lo sento sospirare pesantemente. «Io non ti ho usata.»

Come no. Questa sì che è una bella battuta. Da sbellicarsi dalle risate.

«Lo hai fatto anche tu. Così come Sid e tutti gli altri», dico secca. «Anzi, Sid no. Sei stato tu a tenerlo lontano da me.»

Scatta in piedi inchiodandomi con lo sguardo. «Non permetterò a nessuno di voi di rovinarmi la carriera!»

Riesco a mettermi seduta. «È questo il tuo unico problema?» Sbraito. «La tua cazzo di carriera? Non vedo come possa entrarci con la mia vita privata!»

Si passa una mano sul viso. Ha l'aria stanca, ma non m'importa. «Sì! E se tuo padre lo venisse a sapere...» colpisce con un calcio il mio comodino che traballa appena. «Sarebbe la fine.»

«Non ho nessuna intenzione di interferire con la tua stupida carriera. E tu sei pregato di non interferire con la mia vita privata, okay? Da oggi in poi stammi semplicemente lontano!» urlo. «Invece che appena ne hai l'occasione mi infili il tuo uccello in bocca!» Addio calma e addio garbo.

Mi fulmina con lo sguardo. «Non ho fatto niente che tu non volessi», sibila. «Cazzo, sei una maledetta stronza!» sbraita, avvicinandosi pericolosamente a me.

Abbasso lo sguardo per non guardarlo negli occhi. «Vattene via, William. Non voglio più avere niente a che fare con te.»

Incombe su di me come un grosso nuvolone minaccioso. «Tu non hai capito proprio un cazzo», sibila. Il suo respiro bollente mi solletica le labbra.

Deglutisco in modo convulso. «Può darsi. Non voglio capire niente. Voglio solo che tu esca dalla mia vita.»

Si tira su sembrando ancora più alto e minaccioso. «D'accordo.»

Ci resto un po' male perché ha ceduto un po' troppo in fretta. Ma dentro me so che è la cosa giusta da fare. Con lui accanto divento la versione più tossica e sbagliata di me stessa. Qualunque strana cosa ci sia tra noi finisce adesso.

«D'accordo», sussurro.

Si volta è va via sbattendosi la porta alle spalle.

Il mio cuore trema e diventa come di piombo dentro il petto. Per un momento mi sembra di sentirlo accartocciarsi su stesso per poi strapparsi come un fragile foglio di scadente velina.
Non so nemmeno come chiamare la sensazione che mi sta lacerando lo stomaco. Non lo so e non voglio nemmeno attribuirgli un nome.

Sollevo lo sguardo sull'orologio da parete. Balzo in piedi appena vedo che sono le dieci del mattino passate e sono in ritardo di quasi un'ora e mezza per andare a lavoro.

Non ho tempo di fare una doccia ma devo comunque levarmi il vomito dai capelli. Li lavo nel lavandino della cucina e li asciugo con un telo per i piatti. Ancora grondanti d'acqua, li lego in una coda disordinata.

Infilo al volo un paio di jeans e una maglietta che trovo per terra, le scarpe e schizzo via.

Corro alla fermata del bus con i polmoni in fiamme e le gambe doloranti. Quel bastardo arriva con venti minuti di ritardo.

Quando mi lascia davanti al negozio nella fretta di precipitarmi dentro, per poco non vengo investita da una Jeep. Insulto l'autista e lui fa altrettanto.
È colpa mia, sono io che non ho guardato prima di attraversare.

Entro dentro il negozio con l'affanno. Mi piego e poso le mani sulle ginocchia. «Scusa il ritardo», boccheggio.

Rox ha un'espressione parecchio contrariata dipinta sul volto. «Per questa volta posso chiudere un occhio» dice, freddamente.

Getto lo zainetto a terra e mi metto subito a fare qualcosa.

L'universo si prende gioco di me passando alla radio un'altra canzone degli Overdrive. Vorrei stracciare le casse altoparlanti e gettarle per strada, se solo potessi. Ma poi Rox mi detrarrebbe qualche sterlina dallo stipendio.

Ho come l'impressione di avere tutto il mondo contro oggi. E anche ogni divinità esistente.

Ovviamente me lo merito. Merito di avere tutti contro.
Le mie cazzate stanno andando a peggiore col passare del tempo.

E solo che... non riesco a farne a meno. È come se io fossi nata per combinarne una dietro l'altra. Avrebbero dovuto chiamarmi Cazzata Ambulante Weller invece di Blue Jean. Almeno sarebbe stato coerente con il mio modo di approcciarmi al mondo in cui vivo.

Per tutta la mattinata cerco di tenere la testa impegnata mentre spolvero ogni singolo vinile presente nel negozio. Ho persino dato una ripulita a tutto il locale e ora profuma più della sottoscritta.

Rox è stata molto silenziosa e non posso fare a meno di chiedermi se abbia qualcosa con me. Credo di non aver fatto niente di male nei suoi confronti.

Quando ho preso l'acido loro non erano più al Rocktail. Quindi dubito che sappia quello che ho combinato. Eppure ho la netta sensazione che sia arrabbiata con me. Forse lo è per via del mio ritardo. Non posso che darle ragione per questo.
Dovrei prendere seriamente il mio lavoro, la vita stessa. Se mi licenzierà mi ritroverò in automatico a vivere sotto il London Bridge. E non c'è spazio lì sotto, per accamparsi. Quindi devo darci un taglio con le stronzate.

Mentre sono intenta a sistemare l'ultimo vinile dei Korn, dopo averlo spolverato con cura, la mia attenzione si concentra sulla persona che sta entrando in questo momento.
Mio padre è qui. E non ha per niente una bella espressione.

I suoi occhi cercano subito i miei. Ripongo il vinile al suo posto e mi avvicino con il cuore in gola.
Percepisco il suo stato d'animo sulla mia pelle. Non è arrabbiato. Quella che percepisco è paura.

«Papà» mormoro, appena gli sono davanti.
Deglutisce bruscamente e mi guarda negli occhi. Sembra che non sappia come fare a dire quello che sta per dirmi. «Blue...»

Il mio nome pronunciato in quel modo mi fa cedere le ginocchia costringendomi ad aggrapparmi al bancone della cassa. Rox ci scocca un'occhiata preoccupata ma non si intromette.

Annuisco perché non so che altro dire.

Si passa una mano sul viso stropicciandolo appena. «Papà è di nuovo finito al pronto soccorso.»

La terra sotto ai miei piedi inizia a tremare furiosamente minacciando di sgretolarsi da un momento all'altro. Stringo il bancone sotto le mani. «Perché?»
Alza le spalle. «Io... non lo so.»

Avevano detto che le cure stavano facendo effetto, che cosa c'è che non va allora?

Alle mie spalle Roxy si schiarisce la gola. «Vai pure, Blue. Non preoccuparti.»
Le lancio un'occhiata dispiaciuta, ma lei non mi da tempo neanche di aprire bocca. «Vai.»

«Grazie» sussurro, cercando di inghiottire il nodo che mi attanaglia la gola. Guardo papà e lui mi indica la porta con un cenno del capo. Saluto Roxy e lo seguo fuori.

Nel più assordante dei silenzi ci sediamo in macchina. Nessuno parla. Questa volta temo che lui non sappia rispondere alle mie domande.

«Ha avuto una crisi epilettica» inizia, sferzando il silenzio. «Non so ancora niente. Sono venuto subito da te.»

Mi fa male al cuore pensare che nonostante tutto mio padre cerchi conforto da parte mia. Mi sento anche una merda per essere quella che sono: una figlia orribile.
Tutto il post stordimento da acido è andato via. Ora voglio solo sapere come sta mio nonno.

Stringo la mano che tiene stretta sul cambio delle marce. Vorrei poter dire qualcosa di confortante ma faccio schifo in queste cose.

Si inumidisce le labbra. «Mi dispiace per le cose che ti ho detto», dice, continuando a guardare la strada davanti a noi.
«Non fa niente. Me le meritavo», mormoro.

Scuote appena il capo. «No, non te le meritavi. Che razza di padre sono se dico queste cose a mia figlia?» sbotta. «Dovrei starti accanto e supportarti sempre. Invece...» sospira in modo frustrato. «Sono il padre peggiore del mondo.»

Sussulto a queste parole e stringo più forte la sua mano. «Non è vero. Tu sei il padre migliore del mondo. Hai sempre fatto di tutto per me e Thomas. Non dirlo mai più. Sono io quella sbagliata... sono io che sbaglio sempre. Io che distruggo tutto ciò che tocco», la mia voce si spezza.

«Non sei sbagliata Blue. Avevi solo bisogno di essere tirata su tutte le volte che sei caduta. E io non c'ero.»

No, non voglio che pensi che sia colpa sua. Non è colpa di nessuno, se non mia. «Hai fatto il possibile per me.»
«Non è vero. Non ho fatto il possibile. Ti ho cresciuta in modo tale che potessi cavartela anche da sola. Ma non avevo messo in conto che avrei dovuto proteggerti anche da te stessa.»

Le sue parole mi colpiscono sullo stomaco come un pugno. Non posso dargli torto. Ha ragione. Sono io stessa il mio peggior nemico. Ed è impossibile liberarsi di qualcosa che vive dentro di me. Io sono la causa di ogni mio male. Nessun altro. Né Thomas che mi odia. Né le droghe che assumo come se fossero caramelle. Né l'alcool che mi calo in gola. Nemmeno William, Sid o tutti gli altri. Sono solo io.

«Mi dispiace da morire papà», le lacrime prendono il sopravvento abbattendo ogni barriera. Piango così tanto che il mio corpo viene scosso dai singhiozzi, obbligando mio padre ad accostare.
«Piccola mia», sussurra prima di stringermi in un abbraccio. «Dispiace tanto anche a me per non esserti stato accanto come meritavi.» Mi stringe così forte che quasi mi manca l'aria.

Scuoto la testa contro il suo petto facendogli capire silenziosamente che non ha niente per cui dispiacersi o scusarsi.

Posa una mano sotto il mio mento per guardarmi negli occhi. Asciuga le mie lacrime con il pollice e poi si sporge per baciarmi dolcemente sulla fronte. «Tu vai bene così come sei, capito? Devi solo abbattere il muro che ti sei costruita attorno. Vedrai che se ti affacci il mondo non fa poi così schifo. Io ti amo più della mia stessa vita. I tuoi amici ti vogliono bene. Sei un'artista!» dice, abbozzando un sorriso. «Non sei sola. Hai capito?»

Annuisco perché non so che dire.

«Non lo sei e mai lo sarai finché io sarò qui.»Asciuga di nuovo le mie guance inumidite dalle lacrime. «Sistemeremo tutto. Anche le cose che io non riesco a vedere. Se servirà, colorerò io stesso il tuo mondo quando diventerà grigio. So per certo che un piccolo pezzo della vecchia Blue Jean è ancora qui dentro», posa una mano sul mio cuore. «Ha solo paura di uscire fuori. Ma per questo ci sono io. Sei una giovane donna con le palle», sorride. «Metaforicamente parlando.» Mi strappa una risata. «So che puoi sconfiggere qualsiasi cosa, Blue. Qualsiasi. E io ti prometto che sarò sempre pronto a sorreggerti. Sempre. Finché avrò fiato in corpo. Sei la mia dolce bambina... non posso più vederti così. A vagare come un'anima in pena dentro la tua stessa mente. Non posso più stare fermo a guardare. Guariremo insieme.»

Scoppio di nuovo a piangere e lui mi abbraccia.

Come ho fatto ad allontanarlo da me? Lui è la mia ancora di salvezza, il punto fermo della mia vita caotica. La stella polare che brilla in mezzo a tutta questa maledetta oscurità. Come ho fatto a sopravvivere questi mesi senza di lui? Mio padre è l'unica persona al mondo che mi conosce nel profondo, che mi ha sempre supportata. E io invece di rifugiarmi tra le sue braccia confortanti, mi sono allontanata.

Forse avevo solo bisogno del richiamo della sua voce per sferzare l'oscurità che mi avvolge, per tagliare i rovi che avvolgono il mio cuore. Avevo bisogno del mio papà per ritrovare la via di casa. Per salvarmi da me stessa.
Avevo solo ed esclusivamente bisogno dell'unica persona sulla terra che non mi ha mai voltato le spalle nonostante tutto. Dell'unica persona che ha sempre creduto in me. Dell'unica che mi amerebbe anche se fossi il peggior essere umano sulla faccia della terra.
Il solo e unico uomo che vede realmente chi sono. Il dono più prezioso che la vita mi ha dato.

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Appena varchiamo le porte del pronto soccorso mia nonna mi getta le braccia al collo e singhiozza.
Mi coglie un po' alla sprovvista, ma riesco comunque a restituirle l'abbraccio. È distrutta. Ogni traccia di serenità che la contraddistingue ha abbandonato il suo viso.
Ha gli occhi gonfi, i capelli arruffati. Non c'è traccia della sua solita allegria. Dal suo stato capisco che sotto c'è qualcosa di grave.

Thomas mi scocca un'occhiata ma non dice niente. Resta fermo dietro le spalle di nostra nonna con le braccia conserte e l'espressione preoccupata.

«Hanno detto qualcosa?» le chiedo, mentre le accarezzo dolcemente la schiena sperando di calmare il suo pianto.
Si sposta leggermente posando le mani sulle mie spalle. «No, ancora niente di nuovo.» Porta una mano davanti alla bocca cercando di smorzare un singhiozzo che le sfugge comunque.

Odio vederla così. Odio vedere i suoi occhi così addolorati.

Mia nonna è la persona più solare e luminosa che io abbia mai conosciuto. Lei è in grado di portare gioia e luce là dove non ce n'è. Ma ora tutta la sua positività è sparita. Spazzata via dalle lacrime e dalla paura.

Non sapere che cosa sta succedendo mi fa ammattire. A quanto pare siamo tutti sulla stessa barca.
Nonna sprofonda sulla sedia e vi si accascia prima di nascondere il viso tra le mani.

Non avrei mai pensato che tutto questo sarebbe potuto succedere alla mia famiglia.
Mio nonno è sempre stato una persona abbastanza attiva. Non fuma e non beve, a parte qualche bicchiere di vino o qualche mezzo dito di Whisky, ma non è mai stato un gran bevitore. A dirla tutta bevo molto più io che lui.

A quanto pare a quel male non importa se tu sei una persona astemia e che non fuma. Se ti vuole ti prende lo stesso, senza guardare in faccia a nessuno.
Spero solo, e lo spero con tutto il cuore, che riesca a sconfiggerlo. Non potrei accettare di perderlo.

So che fa parte della vita, nessuno di noi è immortale. Tutti prima o poi moriamo, è la stessa sorte che tocca a tutti. Solo che non voglio perderlo così presto. È ancora giovane. Sarebbe devastante.
Ho ancora bisogno di passare del tempo con lui e di recuperare quello che ho perso in questi mesi.

Quindi Dio, se esisti e mi stai ascoltando, lascia in pace mio nonno.
Il mondo è pieno di gente orribile, prendi loro, ma non lui.

Ricordo che quando ero piccola, la vicina di casa nostra che mi dava sempre i gelati, è morta improvvisamente. Ha smesso semplicemente di esistere da un momento all'altro. Ovviamente io quando mia nonna mi aveva messo al corrente del fattaccio, ci ero rimasta male. Mi ero arrabbiata perché la signora Lina era una bravissima persona. Allora mia nonna mi aveva detto che Dio, per creare il suo bel giardino, prendeva i fiori più belli e colorati.

Per me non aveva nessun senso quella frase. Anche i fiori brutti meritano di essere presi. Ma lei aveva ripetuto le stesse parole: che per creare il suo giardino, voleva solo ed esclusivamente i fiori più belli.

Quindi, stando a quanto dice lei, le persone buone meritano di morire. Mentre quelle marce – o secche- possono continuare a vivere come se niente fosse. E anche quei fiori un po' bruttini e rinsecchiti, non meritano di andare in paradiso? È quello che ha cercato di dirmi?
E io merito un domani di stare nel giardino di Dio?

Ne dubito. Io faccio parte di quei fiori secchi che nessuno prende in considerazione. Quei fiori che strappi dal terreno e li lasci lì a morire senza un goccio d'acqua. Un po' come hanno fatto i ragazzi con cui sono stata.
Mi hanno vista "in fiore", mi hanno strappata dal terreno per poi lasciarmi una volta che mi hanno vista avvizzirmi.

Il flusso dei miei pensieri si interrompe bruscamente quando un medico ci viene incontro.
Mia nonna si alza in piedi con un balzo.
Io sento le gambe tremare.

Non ha una bella espressione. Chiaramente non ci darà buone notizie.
Infila le mani nelle tasche del camice bianco e si schiarisce la voce. «Allora, il Signor Weller ora si è ripreso.»
Mia nonna si porta le mani sul cuore. «È una notizia magnifica!» sorride, con le lacrime agli occhi.

La freddezza e la mancanza di empatia con cui il medico la guarda, mi fa venire il voltastomaco. «Sì, un'ottima notizia. Ma non è così.»
Le braccia di mia nonna cadono inerti lungo i fianchi esili. «È peggiorato?»
Il medico annuisce con un unico gesto secco del capo. «Lo abbiamo sottoposto ad una TAC total body...»

Chiudo gli occhi.
Non voglio sentire.
Non voglio sentire.

«... Purtroppo il tumore al cervello è a uno stadio avanzato. È cresciuto di altri cinque centimetri e sono spuntati fuori altri noduli abbastanza importarti.»

Mia nonna crolla di nuovo sulla sedia. Papà le va subito vicino e la stringe in un abbraccio.

«Quindi? Non c'è più un cazzo da fare?» tuona Thomas. «Avevate detto che le cure avrebbero funzionato», sputa con cattiveria.

Il dottore lo guarda con sufficienza. Ovviamente è abituato a vedere i parenti dei pazienti perdere il controllo – e le buone maniere- . «Purtroppo il tumore non è operabile. Non possiamo più sottoporlo alla radioterapia. Ed è l'unico modo per arrivare al tumore. I cicli di radioterapia non servirebbero a niente.»
«Ah capisco, quindi deve morire?» le sue parole dure sferzano l'aria tesa della sala con la stessa efficienza di una frusta.

«Possiamo provare con la chemio sotto forma di pasticca» il medico, invece, continua a mantenere un tono freddo e distaccato.
L'empatia se l'è ficcata su per il culo sicuramente. Capisco che sia il suo lavoro. Ma stiamo parlando di mio nonno e non di una povera cavia. Dei "possiamo provare" non ce ne facciamo un cazzo.

«Provare» ripete sprezzante, Thomas.
«Sì, provare», ribadisce il dottore. Poi guarda di nuovo mia nonna. «Lo terremo in osservazione per un paio di giorni. Purtroppo posso far entrare solo una persona, in questo caso la moglie. Voi altri potete tornare a casa e passare a vederlo quando lo sposteremo in reparto.» Si congeda con un rapido e freddo sorriso di circostanza. Di quelli che si fanno quando ti imbatti più volte in una persona che hai già salutato.

Nonna si alza in piedi. «Andate a casa, vi terrò aggiornati», sospira. Sembra così fragile che temo possa disintegrarsi da un momento all'altro.
Si alza anche papà. «Chiama per qualsiasi cosa, okay?» Si china per baciarle una guancia.
Alcune volte dimentico che sono i suoi genitori, e non solo i miei nonni.

Nonna gli posa una mano sulla guancia. «Va bene tesoro mio, andate a casa», raccoglie la sua borsetta dalla sedia e si avvia verso la porta rossa.
Mio padre sospira. «Andiamo a casa.»

Non replico. Non gli chiedo nemmeno di portarmi a casa mia. Voglio stare con loro adesso. Se tornassi a casa mia sarebbe la fine. Farei qualsiasi cosa per spegnere il cervello e distaccarmi da questa situazione. Quindi è meglio andare con loro.

In auto nessuno fiata. Per tutto il tragitto verso casa non si è sentita nemmeno una mosca volare.

Papà ha cucinato qualcosa per cena ma nessuno di noi ha fame. Siamo tutti e tre seduti a tavola ma neanche ci guardiamo negli occhi.
Sussultiamo quando il telefono di papà squilla. Lo estrae velocemente dalla tasca dei pantaloni. Tutto il suo corpo sembra tirare un sospiro di sollievo quando legge il nome di chi lo sta chiamando. «Torno subito, scusate», si alza in piedi ed esce dalla cucina.

Io spingo con la forchetta una patata in fondo al piatto. Non ho fame, anche se sento lo stomaco brontolare.
Thomas ha lo sguardo perso mentre giocherella a sua volta con il cibo che ha nel piatto.
Questo silenzio tra noi mi sta uccidendo.

Sollevo lo sguardo per cercare i suoi occhi. I nostri sguardi si incontrano. L'espressione che aleggia sul suo viso è indecifrabile. Schiude le labbra e io mi preparo mentalmente a una delle sue frecciatine avvelenate. Invece mi sorprende chiedendomi: «Come stai?»

«Viva», mormoro. «Tu?»
Alza una spalla. «Diciamo che sono stato meglio.»

Quando ancora io non esistevo. Mi suggerisce il mio cervello.

Sospiro. «Pensi che il nonno...»
«Morirà?» termina la mia frase. «Ovvio che morirà! Non hai sentito che non gli faranno più un cazzo, oppure avevi il cervello da un'altra parte come sempre?» sbotta.

Non me la merito una sua sfuriata. Non adesso.
«Perché mi odi così tanto? Potresti almeno adesso fingere di sopportarmi?» sbotto, battendo una mano sul tavolo.

Il mio gesto lo fa scattare in piedi come una molla. «Sopportarti?» mi schernisce con una risata carica di amarezza. «Credi che possa tornare tutto come prima solo perché nostro nonno sta per crepare? Se pensi questo, sei proprio una scema del cazzo!»
«Non me lo merito» sussurro, sentendo le lacrime annidarsi dietro le palpebre.

Mi rivolge un sorriso derisorio. «Ah no? Non te lo meriti? E cosa ti meriti allora? Che ti stenda un tappeto rosso quando ci degni della tua presenza?» sbuffa una risata. «Perché non te ne vai a fanculo?»

La rabbia si mescola con le lacrime che prendono a cadere furiose dai miei occhi. Vorrei solo che lui la smettesse di odiarmi, almeno per ora. Ora che ci troviamo tutti insieme in questa situazione. A lui però non importa niente. Il suo odio nei miei confronti supera di gran lunga tutta la situazione in cui stiamo navigando. Stiamo remando in direzioni diverse, allontanandoci uno dall'altro sempre di più.

«Se fosse per me non ti guarderei neanche più in faccia» sputa, con cattiveria.

Nostro padre torna in cucina. Stritola il telefono tra le mani e fulmina mio fratello con un'occhiataccia. «Lascia in pace tua sorella», lo redarguisce.

Thomas spinge la sedia che sbatte contro il tavolo e se ne va.

Nascondo il viso con una mano e chino il capo, reggendomi con un gomito sul tavolo. «Mi odia... non gli passerà mai», tiro su col naso.

Posa una mano sulla mia spalla e la stringe appena. «Gli passerà. Ora è tutto l'insieme, non riesce a contenersi.»

Certo e questo gli dà il diritto di trattarmi come se fossi della spazzatura?
Mi odia e basta, non gli passerà.

Scuoto il capo. «L'ho perso per sempre papà...» sussurro. Non so nemmeno a cosa o a chi mi sto riferendo in questo momento.

«Non hai perso niente, Blue», afferra una mia mano. «Vieni con me.»

Mi lascio tirare su e lo seguo in corridoio. Nemmeno qui è cambiato niente. È tutto come lo ricordavo.
Apre la porta del suo ufficio dove ci sono tutte le sue chitarre appese alla parete.
Adoravo passare il tempo qui mentre lui componeva canzoni. Amavo abbandonarmi ai miei sogni che comprendevano me nelle vesti di una rock star, a cantare sul palco davanti a una marea di persone, mentre io mi lanciavo nell'assolo di chitarra così potente da far tremare anche il cielo.
Avevo proprio una bella fantasia da bambina.

Papà apre il cassetto della sua scrivania e ne estrae un quaderno nero con il logo dei Mötley Crüe, che io conosco molto bene ma di cui avevo dimenticato l'esistenza.

Me lo porge. «Te lo ricordi?»

Annuisco.

«Andavi pazza per loro», ridacchia. « Eri ossessionata da Tommy Lee.»

Giusto. Be', a quanto pare da piccola ero ossessionata da un mucchio di rock star. Basti pensare che la mia stanza qui è ancora tappezzata dai poster di Billy Idol e Lenny Kraviz.

Abbozzo un sorriso. «Tommy Lee è bello anche adesso. Ed è uno dei migliori batteristi ancora in circolazione.»
Storce il naso. «Uhm, sai come la penso a riguardo.»
Alzo gli occhi al cielo, anche se non riesco a trattenere un sorriso. «Lo so. I migliori batteristi per te sono solo John Bonham e Keith Moon», lo canzono.
«Di quelli più o meno recenti, diciamo. Ci sono stati altri grandi batteristi», sorride.
«Ognuno è bravo a modo suo. Non hanno tutti lo stesso modo di suonare» dico, carezzando il quaderno che tengo tra le mani.

Qui dentro ci scrivevo alcuni testi. Tutte le parole che mi frullavano in testa, io le trascrivevo qui. Poi ho smesso. Perché quelle parole sono diventate confuse. Impossibili da leggere e da capire.

«Ti va di suonare con me?» mi chiede.

Il mio cuore perde un battito. L'ho appena sentito fermarsi un microsecondo e poi ripartire all'impazzata.
«Sì. Sì!» dico, incapace di contenere la felicità. Mi è mancato da morire suonare con lui.
Tira giù due chitarre dalla parete e una la passa a me. Si siede sul pavimento e io lo imito.

«Che cosa vuoi suonare?» mi chiede, sistemandosi la chitarra in grembo.

Suonerei qualsiasi cosa in questo momento, anche una canzone senza senso.
«Home Sweet Home dei Mötley?» propongo.

Lui alza gli occhi al cielo, anche se le sue labbra si incurvano in sorriso. «D'accordo. Voglio proprio vedere se sei migliorata», mi punzecchia.

Arriccio il naso. «Vediamo se tu non ti sei arrugginito» dico, anche se è più probabile che nevichi all'inferno, piuttosto che mio padre dimentichi come suonare una chitarra. Immagino che anche lui ci sia nato con questo dono. Chissà, forse alla nascita aveva già una piccola Stratocaster tra le mani.

Lascio che sia lui a iniziare. Poi gli vado.
La voce di mio padre è pulita e assolutamente bellissima. Mi spezza il cuore e me lo ricompone allo stesso tempo.
Cantiamo armonizzando le voci come se fossimo un'unica cosa. Come se ci fossimo fusi. Mi guarda e sorride mentre muove lentamente la testa a ritmo della musica che lui stesso produce con la sua chitarra.

Lascia cantare a me le note più alte. Mi guarda con gli occhi che brillano. La sua gioia è contagiosa. Mi accende. È l'emozione più pura e più potente che io abbia mai provato.
Questo è il posto in cui sono nata per stare. Qui con mio padre. Qui con le nostre voci che si intrecciano e le nostre dita che pizzicano all'unisono le corde della chitarra.

Solo con un'altra persona ho provato le stesse identiche sensazione. Con lui, William.
No, non voglio rovinarmi il momento pensando a lui.
Lo scaccio subito via dalla mia testa.

«My heart's like an open book, for the whole world to read. Sometime nothing keeps me together at the seams. I'm on my way, i'm on my way, home sweet home. Tonight, tonight. I'm on my way, just set me free home sweet home», cantiamo insieme.

Smette di suonare per lasciarmi spazio nell'assolo di chitarra che io prolungo più di quello originale. Lo faccio durare di più, sotto il suo sguardo compiaciuto e fiero. È fiero di me.
Sorrido radiosa mentre fingo di inchinarmi davanti a un pubblico invisibile, seduta comodamente davanti all'uomo meraviglioso che è mio padre.

«Sei spettacolare, Pudding», la sua voce è un po' incrinata. Sembra che sia sul punto di piangere dalla felicità. Non lo so, i suoi occhi brillano di un sacco di emozioni che non riesco a capire.

Mi stringo nelle spalle. «Ho imparato dal migliore.»
«Un'altra?», propone. Nell'esatto momento in cui conclude la domanda, il suo telefono squilla un'altra volta.

Restiamo qualche secondo con gli occhi fissi sullo schermo che lampeggia. Il nome di mia nonna scorre sul display. Sono le undici di notte. Tutti sappiamo che quando qualcuno chiama in piena notte non è mai niente di buono.

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I prossimi capitoli saranno un po' tristi... 😔

Fatemi sapere che cosa ne pensate🖤
Vi piacciono le immagini random in mezzo al capitolo?

Grazie mille per il supporto

~ LONG LIVE ROCK'N'ROLL~

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