♫ ~20.1 ʏᴏᴜ ᴄᴀɴ'ᴛ ꜱᴛᴀʀᴛ ᴀ ꜰɪʀᴇ ᴡɪᴛʜᴏᴜᴛ ᴀ ꜱᴘᴀʀᴋ

You can't start a fire
Worrying about your little world falling apart
This gun's for hire
Even if we're just dancing in the dark
Bruce Springsteen
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Ho sempre pensato di non essere nient'altro che un'insignificante puntino che vaga sul pianeta terra. Una massa scura e informe. 
Pensavo di essere un'anima che vaga nell'oscurità, uno spreco di spazio. 
Eppure questa notte mi sono sentita brillare come la stella più bella e luminosa del cielo. 
Lui mi ha fatta brillare in quel modo. Lui ha innescato una scintilla dentro di me. 

Non avrei mai pensato che in vita mia, mi sarei toccata davanti a un ragazzo. È una cosa troppo intima. 
L'imbarazzo però non c'era. Affatto. 
Tutt'altro, mi è piaciuto da morire essere guardata da lui e da quelle due magnifiche meteore che ha al posto degli occhi. 

I suoi gemiti? La cosa più dolce e sensuale che le mie orecchie abbiano mai sentito. 

Ora però non mi resta altro che fare i conti con la realtà. 

Vengo svegliata da qualcosa che mi sfiora la guancia e inumidisce la mia pelle.
E oddio, ha un po' un alito fetente. 

«William, smettila» mi lamento, agitandomi. 

Succedono tre cose. 

La prima è, non so come, sono sdraiata a cavalcioni su di lui, con la coperta sulle mie spalle che ci copre entrambi. 

La seconda è che la sua erezione spinge prepotente in mezzo alle mie gambe divaricate. 

La terza è che qualcuno mi sta leccando la guancia. 

«Stai zitta», brontola. 

Ne succede anche una quarta. Le sue mani sono infilate sotto l'elastico del mio costume e i suoi palmi sono aperti sulle mie chiappe. 

Sono stanca, ho ancora bisogno di dormire. Ieri notte dopo il nostro momento intimo, ci siamo addormentati all'istante. Io poi mi sono svegliata e ho mangiato quasi tutto quello che lui aveva portato. Avevo una gran fame, cavolo. 

Non so come ci siamo finiti a dormire in questa posizione. Non mi lamento, mi piace. Anche se i suoi palmi ruvidi mi graffiano leggermente la pelle. Non mi lamento. 

Un'altra leccata – ruvida- sulla mia guancia mi obbliga ad aprire gli occhi. 
All'inizio mi spavento perché non capisco che cosa ho davanti agli occhi. 
Due occhi gialli e penetranti mi stanno fissando con interesse. 

Scatto a sedere ignorando l'uccello di William che ringrazia per questo gesto. La coperta mi scivola giù dalle spalle. 

Cosa ci fa un gattino in spiaggia? Non hanno tipo paura dell'acqua? 

«Ciao, piccolino!» squittisco, con ancora la voce impasta dal sonno. «Che ci fai qui?»
Non capirò mai perché noi essere umani quando vediamo un animale o un bambino, in automatico sfoderiamo questa vocina imbarazzante. 

William protesta. «Ti stai zitta?» posa le mani sui miei fianchi e mi butta sulla sabbia. 

Ha dei modi di fare da cavernicolo, non cambierà mai. 

Intanto il nuovo arrivato si lecca una zampetta senza smettere di guardarmi. Ha una pelliccia nera con alcune sfumature marroni. È adorabile. 
Mi accovaccio sulle ginocchia e tendo una mano verso di lui. 
O mi squarta o si lascia accarezzare, sono solo due le opzioni. 

Da piccola avevo un gatto ed era l'animale domestico del diavolo. Infatti mio padre lo aveva chiamato Lucifer. Sul serio, era cattivo e non si faceva mai accarezzare. Per dargli da mangiare dovevamo indossare i guanti. Poi un giorno, di punto in bianco, è sparito e non è più tornato. 

All'inizio si ritrae abbassando le orecchie e accovacciandosi su stesso con timore. 

«Non ti farò del male, voglio solo accarezzarti», sussurro. 

Sfioro la sua testolina, e lui – o lei- la solleva leggermente per venire incontro alla mia mano. 

«Oddio, quanto sei morbido» dico, sempre con quella vocina da ebete. 

Inizia a ronfare e io mi sciolgo. 
Si avvicina ancora di più a me e struscia la testa contro le mie gambe. 

«William» squittisco, richiamo l'uomo delle nevi. 
Lui apre solo un occhio e mi fulmina. «Perché parli così tanto la mattina? Giuro che non ti sopporto più.»
Ignoro la sua acidità mattutina. «C'è un gattino!»

Schiude anche l'altro occhio e solleva appena la testa dalla sabbia. Arriccia il naso come se avesse appena visto una montagna di merda. «Mandalo via, non mi piacciono i gatti.»

Aggrotto la fronte. «Non lo mando via.»
«Sono gli animali più infami del mondo» borbotta, strofinandosi gli occhi. 

Sono tutti convinti che i gatti siano falsi. Non è assolutamente vero. Anche loro sanno dare amore. A modo loro. Tranne Lucifer. Lui era privo di qualsiasi sentimento. Lui progettava di squarciarci la gola mentre stavamo dormendo. 

Gli rifilo un'ultima occhiataccia e riporto la mia attenzione sulla palla di pelo che continua a ronfare. «Non lo ascoltare. È un ragazzo cattivo», bisbiglio. 

Intanto William si mette a sedere. Si stiracchia i muscoli prima di alzarsi e afferrare i sacchetti, scoprendo che io ho mangiato quasi tutto quello che c'era dentro. «Sicuramente un topo ha mangiato tutto», borbotta. 

«Avevo fame, okay?» mi difendo. 

Ma quanto è antipatico la mattina? Mamma mia. 
Prende uno dei pochi rocky road rimasti  e lo mangia, lentamente. Nonostante sia antipatico, la sua bellezza non cambia. Da appena sveglio è l'essere più bello che io abbia mai visto. 

Non so come faccia a essere perfetto anche al mattino, sicuramente sotto c'è qualche incantesimo. 

Io sono più che consapevole di avere i capelli annodati e sicuramente un aspetto di merda. 
Vorrei chiedergli come ci si sente a essere i preferiti di Dio. 

«Hai intenzione di portartelo a casa?» bofonchia con la bocca piena. 
Alzo le spalle. «Se non ha una famiglia, sì.» Non lo lascerò qui. Se è venuto da me ci sarà un motivo. 

Ho sentito dire che i gatti scelgono il proprio umano, e non viceversa. A quanto pare, questa meravigliosa creatura ha scelto me. 

Ovviamente non posso rapirlo senza sapere se ha già una famiglia o meno. Se così non fosse, lo porterò a casa con me e ci faremo compagnia a vicenda. 

Adoro i gatti. 

«Nella mia auto non entra», dice categorico. 
Lo guardo male. «Che ti hanno fatto i gatti? Stai parlando come se dovessi infilare un sacco di merda nella tua macchina.»
«Non mi piacciono», sbotta. «E nella mia macchina non sale.»

Sto pensando seriamente di approfittare di un suo momento di distrazione per prendere il gatto e andare via con la sua macchina e lasciarlo qui. 
Qualcosa però mi dice che, dalla rabbia, il Biondo potrebbe anche sviluppare la capacità di volare. 

Mi siedo sulla sabbia e subito il gatto mi sale in grembo. Potrei anche piangere. 

Inizia a impastarmi la pancia e... oddio. Mi sta succhiando la pelle. Ha fame. 

«Pensa che sono la sua mamma», mormoro. 
«Tu sei tutta matta.»
Mi volto a guardarlo. «Guardalo, sta cercando la tettina!»
«Vorresti farti succhiare il capezzolo da un sacco di pulci? Che schifo», storce la bocca. 

Accarezzo il gatto. «Non ascoltarlo. È lui che fa schifo, non tu.»

William alle mie spalle ridacchia. Una risata roca. «Faccio schifo? Questa notte non mi sembrava che ti facessi così tanto schifo.»

Inevitabilmente le mie guance si accendono. Sento il calore risalirmi lungo il collo. «Stai zitto.»

Schiocca la lingua. «La verità fa male, Pudding.»

Odio quando mi chiama così. Sul serio. «Fottiti, William.»

«Altrettanto», ribatte senza esitare. 

Cane e gatto. Ecco cosa siamo io e lui. I due nemici per eccellenza. 

Tranne quando ci avviciniamo troppo e succedono... cose.

Si alza definitivamente dalla sabbia, si pulisce il costume e si avvicina a me e al mio nuovo amico. Lo guarda con riluttanza. «È orrendo.» 

«Tu sei orrendo», sollevo lo sguardo su di lui per guardarlo male. 
«Lascia stare quel coso e vestiti. Dobbiamo tornare a Londra.» Si volta  e si allontana. Lo vedo raccogliere la sua maglietta. La guarda. Poi decide di non indossarla.
Ci credo, l'ha usata per pulirsi.

Se la mette sulla spalla e inizia a raccogliere tutto. 
Avvicino il viso a quello del bel gattino. «Io non voglio lasciarti qui», sussurro. 

Il biondo però mi sente. «Lo farai, invece. Altrimenti lascio qui anche te.»

Alzo gli occhi al cielo. «Smettila di intrometterti nelle discussioni degli altri. È maleducazione!»

Inarca un sopracciglio. «Stai parlando con un gatto.»

«Quindi? Sto parlando con lui, non con te.»
Scuote la testa. «Tu sei una svitata del cazzo.» 

Sollevo il mento con aria di sfida. «Lo sei anche tu dato che passi del tempo con me.»

Mi ignora. Infila le scarpe e si incammina verso la strada. 
Guardo il gattino e lui socchiude gli occhi. Che palle, non voglio lasciarlo qui. E se poi gli succede qualcosa di male? Sarebbe colpa mia. 

Riluttante, lo sposto sulla sabbia e mi alzo in piedi. Mi rivesto e lo guardo di nuovo. «Mi dispiace piccolino.»

Per risposta lui miagola e si struscia contro la mia gamba. 

«Non rendere le cose più difficili», sussurro.
Con il cuore un po' pesante mi incammino verso la strada. 

È evidente che c'è qualcosa che non va in me se divento triste per un gattino. 
Raggiungo la macchina di William. Lui è già seduto dentro con tanto di cintura allacciata. 

Apro lo sportello e mi siedo. Appena allungo la mano per chiuderlo sento un piccolo miagolio. Abbasso lo sguardo e il gattino è proprio davanti ai miei occhi. 

Mi ha seguita? 

Alle mie spalle William sbuffa. «Mandalo via.»
Gli scocco un'occhiataccia. «Sei proprio senza cuore.»

«Ti ho già detto che non mi piacciono i gatti, nella mia auto non sale», sbotta. 

Decido di usare la tattica degli occhioni dolci. «Dai, ti prego», metto su il broncio. «Non possiamo lasciarlo qui. Guardalo, è così piccolo e indifeso. Ci ha seguiti fino a qui!»

Serra le labbra in una linea dura. «Ci ha seguiti per colpa tua, perché gli hai dato corda. I gatti sono gli esseri più approfittatori del mondo.» 

«È un gatto!» sbotto. «Parli come se avessimo davanti la persona più orribile del mondo.»

Mi ignora completamente e mette in moto. «Chiudi lo sportello.»
«Dai, portiamolo con noi», piagnucolo. «Farò qualsiasi cosa mi chiederai.»

Per un millesimo di secondo i suoi occhi vengono attraversati da una strana scintilla peccaminosa. «No» dice, ma le sue labbra ovviamente dicono altro. 

«Farò cento squat. Ti cucinerò il pranzo e la cena per un mese!»

Scuote la testa in segno negativo. «Se cucini come hai cucinato quel povero pollo: no grazie.»
«So cucinare», mi indispettisco. 

Arriccia le labbra. «Si vede.»
Alzo gli occhi al cielo. «Ti laverò anche i vestiti, per un mese. Farò tutto quel...»

«Mi farai anche un pompino?» mi interrompe. Sulle sue labbra si forma un sorriso malizioso. 

Porco. «Te lo scordi.»
«Bene, allora il gatto rimane qui» replica, secco. 
Lo guardo con occhi sbarrati. «Sul serio mi minacci in questo modo? Poi sarei io la pazza?»

Ridacchia, poi torna subito serio. «Prendi quel cazzo di sacco di pulci e tienilo lontano da me», borbotta. 

Felice come una bambina il giorno di Natale, mi sporgo oltre lo sportello e prendo il gattino in braccio. Miagola e si sistema subito sul mio grembo. «Non c'è pericolo che venga da te, gli stai già sulle palle», lo punzecchio. Chiudo lo sportello e allaccio la cintura. 

«La cosa è reciproca, tranquilla», borbotta. Si volta appena per fare retromarcia, ma non prima di aver lanciato uno sguardo schifato verso il gattino che sta già dormendo sulle mie gambe.

Per quasi tutto il tragitto non abbiamo spiccicato parola. Ogni tanto lui lanciava sguardi fulminei al gattino. Poverino, è stato bravissimo, ha dormito per tutto il viaggio senza mai dare fastidio. 

Non vedo l'ora di tornare a casa e dargli qualcosa da mangiare. 

William si ferma davanti a casa mia. Si schiarisce la gola. «Quello che abbiamo fatto stanotte...», fa una pausa. «Vorrei che restasse tra di noi. Non dirlo nemmeno alla tua amica» conclude, secco. 

Sbuffo una risata. «Oh, e io che pensavo di appendere dei manifesti per tutta la città. Non è successo niente, non ci siamo neanche sfiorati. Rilassati» rimbecco, altrettanto secca. 

Pensa sul serio che possa andare in giro a dire che mi sono masturbata davanti a lui che mi guardava? E poi la svitata sarei io. 

«Non succederà più.» il tono della sua voce diventa sempre più freddo e distaccato. 

Si è pentito? Cristo, manco avessimo scopato come due porno attori. 

«Direi proprio di no», prendo il gattino e apro lo sportello. 
«È maschio, comunque. Ha le palle» dice, sempre inespressivo. 

Mi allontano senza neanche salutarlo o guardarlo. Idiota che non è altro. 

Ma ora basta pensare a Psycho. Ho una questione più importante a cui badare: nutrire il mio nuovo amico. 

Appena entro dentro casa libero il gattino e lui inizia ad annusare qualsiasi cosa. 
«Be', non è una reggia, ma insieme staremo bene», gli dico. 

Bene, ora mi metto a parlare anche con un gatto. 
Filo dritta in bagno a fare una doccia veloce, mi rivesto e torno in salotto. 
Il gatto si è comodamente acciambellato sul letto. È così carino. 

Approfitto del fatto che stia dormendo per andare nel negozietto sotto casa per comprargli qualcosa da mangiare. 

Dieci minuti dopo torno a casa con un sacco di scatolette di ogni tipo, una lettiera, un topolino fatto di spago e anche una ciotolina azzurra. 

Poso tutte le buste sul bancone della cucina e gli metto subito cibo e acqua. 
Appena sente che strappo la bustina per aprirla, salta giù dal letto e corre da me, dandomi alcune testate alle caviglie. 
Metto la ciotola a terra e lui si avventa come se non avesse mai visto cibo. 

Non so quanti mesi abbia, forse dovrei cercare un veterinario che sappia dirmelo e consigliarmi bene come accudirlo. 
Mi siedo sul bancone della cucina e mi perdo a osservarlo mentre mangia con gusto. «Come ti chiamo?»

Lui emette un miagolio buffo mentre si lecca i baffi. 
Sono sempre stata una grandissima fan di Buffy L'Ammazza Vampiri. Il mio personaggio preferito era Spike. Solo che non posso chiamarlo Spike. Lui era biondo... platino. Il gatto è nero. 

Cavolo, a quanto pare anche la mia fantasia è andata a farsi benedire. 
Lo osservo ancora mentre infila una zampa dentro l'acqua, se la bagna e poi la lecca. Ha un modo strano per bere. 

Be', ovviamente non poteva capitarmi un gatto normale. Dato che io non lo sono. 

«Salem!» esclamo, facendolo sussultare. «Ti chiamerò Salem, come il gatto di Sabrina. Però ti avverto, se parli, mi cago sotto», ridacchio. 

Pazza. Sono una pazza. 

«Oppure potrei chiamarti Vicious», inclino la testa di lato. «Però non mi sembri così malvagio. Mh, no, meglio Salem» annuisco, concordando con me stessa. 

Passo quasi tutta la mattinata e gran parte del pomeriggio a osservare Salem. Lo guardo come se fosse qualcosa di alieno e di molto interessante. Invece non ha fatto niente di così eclatante. Ha mangiato, fatto i bisogni e poi si è lavato il sedere. Infine prima di mettersi a dormire, mi ha dato una leccatina sulla mano. Dopo essersi fatto il bidet. 

Al momento ha una vita più interessante della mia, che spendo tempo a osservarlo come una scema. 

Il biondo non si è fatto vivo. Temo che possa essersi pentito di quello che abbiamo fatto. 
Perché dovrebbe? Non ci siamo neanche toccati. Certo, mi ha mordicchiato un capezzolo, ma non è stato niente di così eccessivo. 

Dovrei dimenticare anche io quello che è successo. Lo so. 
Come faccio però? Non ho mai fatto niente di simile. Ho provato sensazioni che mai avrei pensato di provare in tutta la mia vita. 
Mentre me ne stavo lì, con le cosce aperte e un dito infilato dentro, davanti ai suoi occhi offuscati dalla lussuria, mi sono sentita fottutamente viva. Viva e dannatamente bella. Mi sentivo la ragazza più bella e sexy dell'intero universo. Lui, mi guardava come se fossi la ragazza più bella che avesse mai visto. 

Se ci ripenso mi viene la pelle d'oca e un vuoto allo stomaco. 
Però subentra anche un'altra sensazione, che non so cosa sia. 

Forse la vergogna? 
Ho perso completamente il senso del pudore questa notte. 

Cazzo, mi sono masturbata davanti a William!
Ho avuto il mio primo orgasmo davanti a William Gilmour. 

Sono venuta guardandolo negli occhi. L'ho fatto venire, davanti ai miei occhi. 

Sento le guance scaldarsi. Non so neanche che cosa pensare. 
Di sicuro non avrei mai pensato che il mio primo orgasmo sarebbe stato così. Non davanti a lui. Non con lui. Non per mano mia. 
Mi ha travolta come un fiume in piena. Per un secondo ho pensato di star volando tra le nuvole e oltre. Ho toccato il cielo con un dito e ho abbracciato ogni singola stella presente in quel momento. 

È stato bellissimo. Magnifico. Devo dimenticarlo però. Lui lo ha già fatto. 
È tornato tutto alla normalità non appena mi sono svegliata. Io ero di nuovo io. Lui era di nuovo lui. 

Quella strana magia che si è creata sotto il cielo stellato è svanita non appena ci siamo svegliati. 

Che cosa mi aspettavo?
Che il nostro strambo rapporto sarebbe cambiato? 
Ovviamente no. Non mi aspettavo questo. È stato solo un bellissimo momento. 

Quello che cerco non è una relazione. Tanto meno con lui. Non potrei mai stare insieme a un ragazzo come William Gilmour. Antipatico e lunatico a livelli assurdi. 
È fottutamente bello, questo sembra ombra di dubbio. Ma non c'è altro niente di positivo in lui. 
Forse il modo in cui riesce a farmi stare bene. Solo questo. Per il resto, è uno stronzo. 

Vengo distratta dal suono del mio telefono. 
È un messaggio di papà. 

DaddyBear: Ciao Pudding, ti andrebbe di venire a cena a casa?

Avevo altri programmi per stasera. Tipo osservare il gatto. 
Però non voglio rifiutare. 

Io: Va bene, verrò
DaddyBear: D'accordo, passo a prenderti verso le 19:30. 
Io: Ok, a dopo. 

Dato che non ho pranzato, non mi sono allenata e non ho la più pallida idea di cosa mangerò a casa di papà, invio un messaggio a William per chiedergli un consiglio. 
Passano più di venti minuti. Ha letto e mi ha beatamente ignorata. 
Che cosa gli prende? Non mi sembra di aver fatto qualcosa di sbagliato. 

Abbiamo fatto quello che entrambi volevamo in quel momento. Nessuno ha puntato una pistola contro la tempia di nessuno. 

Bastardo lunatico. 

Bene, dato che non mi rispondere mangerò quello che mi pare e piace. 
Magicamente mi è tornato l'appetito, anche troppo. 

Alle diciannove e trenta, puntuale come un orologio svizzero, mio padre è fuori da casa mia. 
Prima di uscire mi assicuro che Salem abbia tutto il necessario per stare qualche ora senza di me. 

Mi sono affezionata già a questo piccolo scricciolo peloso. Questo la dice lunga sulla mia stabilità emotiva. Almeno da oggi non sarò più da sola. E semmai quei brutti pensieri torneranno a tormentarmi la vita, posso distrarmi con il mio gattino. 

«Ciao», mi sporgo in avanti e lascio un bacio sulla sua guancia. 
Papà sorride. «Come mai così allegra?»

«Ho preso un gattino. In realtà, è lui che mi ha trovata», prendo il telefono e gli faccio vedere una delle tante foto che gli ho scattato. 

Papà storce appena il naso, proprio come ha fatto William. «Carino. Somiglia molto a quel demonio di Lucifer.»

Poverino, papà sicuramente è rimasto traumatizzato da quella volta che Lucifer gli si è aggrappato alla coscia con le unghie e una gli è rimasta attaccata alla pelle. 
Era davvero pazzo quel gattino. 

Rimetto il telefono in tasca e scrollo le spalle. «Sì, si somigliano, ma non è come lui. Sembra calmo», ancora è troppo presto per dirlo. Conviviamo soltanto da un paio d'ore. 

«Come lo hai chiamato?»
«Salem, come il gatto di Sabrina», sorrido. 
«Spero per te che non si metta improvvisamente a parlare», ridacchia. 

«Almeno avrei qualcuno con cui parlare» dico, forse un po' troppo in fretta. 

Papà serra appena le labbra, ma la sua espressione non lascia trasparire quello che realmente pensa. «Lo sai che puoi parlare con me ogni volta che vuoi.»

«Lo so», sussurro. 

In questo ultimo periodo il nostro rapporto sembra essere tornato come prima. Non del tutto però. Non ci siamo ancora seduti a parlare seriamente. Entrambi fingiamo che tutto quello che ho fatto, non sia mai successo. 
Da una parte mi sta bene così. Dall'altra non tanto. Anche lui merita delle scuse. Merita di capire il motivo per il quale sua figlia sia improvvisamente impazzita. 

Forse un giorno riuscirò a dargli una risposta. A darla anche a me stessa. 

Ora sto bene, diciamo. Dentro la mia testa al momento c'è una calma piatta. Il mio cervello ha smesso quasi del tutto di sussurrare cose orribili. 

Tutto questo succede da quando passo del tempo con William. Non ho tempo di perdermi nei miei stessi pensieri. Lui fa sempre in modo di tenermi impegnata. 

Non mi piace tutto questo. Aggrapparmi a lui non è un opzione. 

Solo che quando sparisce, il mio umore vacilla un po'. Tipo ora, lui è sparito e io mi sento un po' strana. Vorrei solo sapere se tra noi è tutto a posto dopo quello che è successo stanotte. Voglio sapere solo questo. 

Questa sera decido di cucinare. Siamo solo io e mio padre e Thor. I miei nonni sono usciti fuori a cena e Thomas... be', non ne ho idea. Sicuramente è stato rapito dagli alieni o da qualche ragazza. Molto più probabile la seconda. 

Lui è un po' allergico alle relazioni. Non l'ho mai visto con la stessa ragazza. Non ne ha mai portata una a casa. Ma se a lui va bene così, okay. 

Papà mi ha messa al corrente sulla situazione del nonno. Ha iniziato anche la radioterapia e sembra che stia andando tutto bene. Anche se ha detto che dopo la prima seduta è stato un po' male. 
Spero solo che riesca a sconfiggere questo male del cazzo. È ancora giovane per andarsene. E io sono certa che non la prenderei affatto bene. 

Mentre faccio rosolare la carne io e papà ascoltiamo una canzone di Bruce Springsteen. Credo che sia una delle voci più belle del mondo rock. Mi piacerebbe vedere un suo concerto prima che saluti per sempre il palco. Inizia ad avere una certa età. Purtroppo non ci sono concerti in vista per quest'anno. 

Papà mi si affianca sbirciando quello che sto facendo. «Sai qualcosa dei ragazzi? A che punto sono con il disco?»

Dobbiamo per forza parlare di loro?
«
Credo che siano a buon punto...» rispondo vagamente. 
«Tu e Billy state passando un sacco di tempo insieme», asserisce. «Mi fa piacere che siate diventati amici.»

Un brivido mi scivola lungo la schiena. Gli amici fanno quello che abbiamo fatto io e William? Immagino di no. Non mi è mai venuto in mente di masturbarmi davanti a Dylan. Anche perché non gli farebbe per niente piacere. 

«Sì, siamo amici», farfuglio. «Ogni tanto lo aiuto con il disco... e lui mi obbliga ad andare in palestra con lui.»

Ridacchia. «Un po' di esercizio fisico non ti fa male. Anzi, ti vedo bene.»

Lo so. Il mio corpo sta cambiando. Mangio in modo sano e mi alleno quasi quanto Rocky Balboa. Per lo meno adesso le mie costole non sono poi così visibili, e le mie braccia scheletriche hanno un minimo di muscolo. 

Porto la pentola a tavola e ci sediamo. 

Mio padre assume una strana espressione. Lo conosco abbastanza bene da capire che vorrebbe dirmi qualcosa di serio. Molto serio.  

Gli riempio il piatto solo per rifuggire dal suo sguardo. 

Lui si schiarisce la gola pronto a sganciare la bomba. «Vorrei che tu non vedessi più Vincent Wright», sganciata. 

Sollevo appena lo sguardo su di lui. «Perché?»

Forse perché ti ha dato dell'eroina e ti stava scopando senza preoccuparsi di farti male o meno? Che ne dici? È una motivazione abbastanza valida per la tua testa malata?

Taglia un pezzo di carne mentre mi inchioda sulla sedia guardandomi con tale intensità da farmi contorcere lo stomaco. «Non mi piace. Non è un bravo ragazzo.» Porta la forchetta alla bocca e mastica lentamente. 

«Non lo conosci nemmeno.»

Serra la mascella. «No, non lo conosco. Ma so quello che fa.»

Merda. Cerco di essere più disinvolta possibile, taglio un pezzo di carne e la mangio. «Non devi preoccuparti, non lo vedo da un po'.»

Le sue labbra si incurvano appena ma si rifiutano di sorridere. «Meglio così.»
«Che cosa mi nascondi?» sbotto. Sul serio pensa che io non conosca ogni sua espressione?

Alza le spalle. Afferra il bicchiere e beve un sorso di vino rosso. «Niente. Perché pensi che ti stia nascondendo qualcosa?»
Serro le labbra. «Perché ti conosco. A quanto pare però tu ogni tanto dimentichi questo particolare. Avanti, sputa il rospo. Che cosa hai fatto?»

Posa lentamente il bicchiere sul tavolo, afferra il tovagliolo e si pulisce gli angoli della bocca. «Niente», ripete. «Che cosa avrei dovuto fare?»

Non lo sopporto quando fa così. «Se hai parlato così è perché sai o hai fatto qualcosa.»

Si appoggia contro lo schienale della sedia. «Ci ho solo scambiato due chiacchiere.»

Posso anche solo immaginare che cosa gli ha detto. Forse è per questo motivo che è sparito nel nulla cosmico e non lo vedo più dal giorno dell'inaugurazione del suo teatro? 

Qualcosa mi dice che di mezzo c'è anche il Biondo Psycho. 
Lui e mio padre hanno fatto comunella?
Non mi sorprenderebbe. Hanno decisamente troppe cose che gli accomuna. 

«Okay. Cosa gli hai detto?»

La sua espressione cambia. I suoi occhi saettano un po' ovunque ma mai nella mia direzione. Con fare un po' agitato, si allenta un bottone della camicia. «Niente di che.»
Gli punto la forchetta contro. «Papà», lo ammonisco. «Dimmi che cosa gli hai detto!» sbotto. 

Finalmente mi guarda negli occhi. «Di starti lontano. Non voglio vederlo accanto a te, Blue. So che cosa è successo tra voi due, okay?» sbotta anche lui. 

Il sangue mi diventa di sabbia nelle vene. Che cosa sa esattamente? Come fa a saperlo? Deglutisco bruscamente. «Che cosa sai?»

«Quello che è successo il mese scorso», borbotta. «Che ti ha messo le mani addosso e poi ti ha regalato una bustina di cocaina.»

Sbuffo una risata. «Messo le mani addosso? Ma che dici? Ero consenziente.»

Anche se io e mio padre non abbiamo mai avuto peli sulla lingua e nessun problema a parlare di sesso, adesso non vorrei proprio avere questa conversazione. Tra noi non sono mai esistiti tabù. Di nessun genere. Ha sempre parlato chiaro e senza usare mezzi termini. Cavolo, quest'uomo è piombato nella mia stanza con un pacco di assorbenti e un video tutorial su come metterlo! 

Ora però non voglio toccare questo argomento. Non da quando ha scoperto che sua figlia si concede con troppa facilità ai ragazzi. 

«Sicura? Eri consenziente davvero oppure lo hai fatto solo perché eri ubriaca e fatta di qualcosa?»

Aggrotto la fronte. «L'ho fatto di mia spontanea volontà!»
Si tocca il mento con fare nervoso. «Va bene. Questo però non cambia il fatto che non voglio più venire a sapere che ti vedi con lui. Ok?»

«Chi te lo ha detto?» ribatto. 
Sventola una mano per aria. «Non ha importanza.»

«Sì che ce l'ha!» sbotto furibonda. «È stato quel maledetto Biondo, vero?»

Una piccola ruga d'espressione gli trema appena. Non risponde. Ma quel piccolo movimento involontario ha confermato la risposta alla mia domanda. 

Da quando William si mette a spifferare le mie cose a mio padre? Che altro gli ha detto? 
Oh, scommetto che non gli dirà mai quello che abbiamo fatto su quella maledetta spiaggia. In questo momento vorrei averlo davanti agli occhi per poterlo strozzare con le mie stesse mani. 

Stronzo che non è altro. 

«Non ha importanza, Blue. Voglio solo che tu stia lontana da quel tizio», si altera anche lui. 
Sbatto le mani contro il tavolo. «La vita è la mia. Faccio quello che mi pare. Non vivo più qui e non devo renderti conto con chi scopo e no, okay?» Mi pento delle mie parole un attimo dopo averle dette. Mi mordo la lingua ma ormai è troppo tardi. 

Il viso di mio padre si spegne all'istante. La mascella contratta e il pugno stretto in morsa salda sul tavolo. «Si, ho visto dove  ti hanno portata le tue decisioni. Forse ti sei dimenticata di quelle due volte che io e tuo fratello ti abbiamo trovata a un soffio dalla morte?» sbraita, si alza in piedi facendo stridere la sedia a terra. Non l'ho mai, mai visto così arrabbiato. «Continua pure a farti scopare da quei bastardi a cui non frega niente di te! Continua pure a svalorizzarti. Drogati se vuoi; ma non venire a piangere da me quando tutte le tue pessime decisioni si ritorceranno contro di te», mi rifila un'ultima occhiataccia in tralice ed esce dalla cucina lasciandomi sola. 

Ricado sulla sedia sentendo le mie spalle afflosciarsi. Gli occhi mi pizzicano ma non piangerò. Non lo farò. 

È pazzesca la capacità che ho di rovinare qualsiasi cosa tocco. Ogni volta che faccio un passo avanti per riprendere il rapporto che avevo con mio padre, prontamente rovino tutto tornando indietro. 

Devo chiedergli scusa. Non ora però. Quando è arrabbiato è meglio che lo lasci per conto suo. 
Ora quello che più mi preme è trovare William e prenderlo a testate sul naso. 

Come cazzo si è permesso di andare a spifferare tutto a mio padre? 
Non avrebbe dovuto farlo. Maledetto. 

Mi alzo di nuovo in piedi. La rabbia ribolle nelle mie vene come lo scoppiettio di un ceppo accesso. Senza pensarci afferro le chiavi della macchina di mio padre ed esco di casa. 

Andrò a Stanmore e giuro su Dio che gli leverò quel sorriso beffardo dalla faccia per sempre. Coglione.

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