♬ ~ 2.1 'ᴄᴀᴜꜱᴇ ᴀʟʟ ᴏꜰ ᴛʜᴇ ꜱᴛᴀʀ ᴀʀᴇ ꜰᴀᴅɪɴɢ ᴀᴡᴀʏ

Just try not to worry, you'll see them someday
Take what you need, and be on your way
And stop crying your heart out
- Oasis
__________________________________
◄ ││ ►

Quindi come si può guarire da qualcosa che nessuno vede?

Ogni mattina mi sveglio e penso per quale cazzo di motivo io non sia morta nel sonno, così tutto finirebbe. Invece, ogni fottuta mattina io apro gli occhi e devo convivere con questa sensazione di vuoto perenne. Devo sopportare questo peso nel petto che a lungo andare mi sta impedendo persino di respirare in modo normale.
Mi sento come se avessi perennemente l'acqua alla gola. Come se stessi nuotando contro corrente. Ma più avanzo, più quelle onde si fanno via via sempre più giganti.

Pure oggi è tutto troppo. E io, anche oggi sono troppo poco.
Non ce la faccio più. Questa non è vita.
Questa non è la vita che desideravo.

Sin da bambina sognavo di diventare una rock star di fama mondiale. Di far conoscere la mia voce al tutto mondo.
Invece, quel sogno rimane a impolverarsi sul fondo del cassetto in attesa di essere spolverato e realizzato.

Inizia a mancarmi davvero la ragazza solare che ero prima prima. I miei occhi brillavano di vita. Adesso quando mi guardo allo specchio non riesco nemmeno a riconoscermi. Non so chi sia quella ragazza che mi guarda a sua volta attraverso lo specchio. Sono il  fantasma di me stessa.
Alcune volte penso anche di essere irreale. Di star vivendo la vita con il pilota automatico. Magari sono morta e non me ne sono neppure resa conto.
È una sensazione orribile. Sul serio. Solo che io non riesco a uscirne. È  come se fossi entrata in un loop infinito. Come se stessi ripetutamente cadendo dentro un buco nero senza mai toccare il fondo.

Sono stanca di lottare contro gli attacchi di panico che arrivavano alla sprovvista. Mi spezzano il respiro. Mi irrigidiscono i muscoli fino a farmi dannatamente male. Arrivavano quando meno me lo aspetto, in ogni posto io mi trovi. Loro non hanno nessuna pietà di me. Non importa se mi trovo in mezzo alla gente, a fare la spesa, a fare qualsiasi cosa comune che fanno le persone normali: loro arrivano, furiosi come un uragano. Abbattendo ogni cosa. Distruggendo ogni cosa dentro di me. L'unica cosa che posso fare in quei momenti, ovunque io mi trovi, è scappare. Perché sì. Ogni volta che un attacco di panico prende il sopravvento, io ho il disperato bisogno di scappare via. Scappo e mi nascondo fino a quando non passa.

Bella vita, mh?

È una merda.

Più mi succedono queste cose, più mi chiudo in me stessa e non riesco più a trovare una via d'uscita.

Che senso ha continuare a non vivere in questo modo?

Cederei volentieri la mia vita a qualcuno che sappia viverla meglio di me.

Purtroppo non si può.

Sto causando solo dispiaceri a chi mi vuole bene.
Senza volerlo, stavo trascinando tutte le persone a me intorno nel vortice oscuro. Per questo motivo ho deciso  di prendere le distanze da tutti. Andando via di casa. Ho smesso di vedere i miei amici, la mia famiglia. Sono sparita nel nulla. Mi limito solo, ogni tanto a rassicurare mio padre che sono ancora viva. Sono più di otto mesi che non vedo nessuno di loro. E giuro che mi dispiace da morire, ma non posso rischiare di far cadere anche loro nell'oblio. Non me lo perdonerei mai. Stare accanto ad una persona che non vede nient'altro colore che il nero: è impossibile; devastante.

Nonostante la mia famiglia sia benestante, ho deciso di trovarmi un lavoro per mantenermi da sola. Non voglio in nessun modo pesare sulle spalle di mio padre. Quell'uomo ne ha passate già tante e io non voglio gravare ancora sulla sua vita.

Nonostante mi tenga a debita distanza, so tutto quello che succede nelle loro vite. Come posso non farlo? Mio padre possiede una delle più famose etichette discografiche di Londra. Pur non volendo, mi basta aprire Internet o un quotidiano per leggere su di lui.

Mio padre è un fenomeno e ha un fiuto eccellente nel scovare dei veri talenti.
Avevo la possibilità di realizzare il mio sogno, di diventare qualcuno. Invece, non succederà mai. Nemmeno se mio padre possiede la Blue&T Records.

Ha persino chiamato la sua etichetta discografica con il mio nome e quello di mio fratello. Io so perfettamente quanto mio padre ami sia me che mio fratello. Solo che io, non riesco più a dimostrarlo e, a quanto pare, neanche ad accettarlo.

James Weller ha letteralmente messo in secondo piano la sua vita per crescere due figli da solo. Gli devo tutto, persino la mia stessa vita.

Mi manca da morire mio padre. I nostri momenti tra padre e figlia. Mi manca suonare la chitarra con lui. I suoi abbracci sono la cosa che più mi mancano in assoluto, solo lì, tra le sue braccia riuscivo a sentirmi al sicuro. Tra le sue braccia il mondo mi faceva meno paura.
Mi chiedo spesso se la vecchia Blue Jean tornerà mai a casa. Ormai, è fuori da un bel po', dubito che lei possa tornare. È andata via lasciando questo guscio vuoto. Forse anche la mia anima ha abbandonato il mio corpo. Ogni volta che mi guardo allo specchio non la vedo. Vedo solo due occhi vuoti e spenti. Non brillano più, nemmeno per le cose che mi piacevano da impazzire.

Le mie giornate passano tutte allo stesso modo. Ogni giorno sembra sempre lo stesso, e io non provo niente. Niente. Solo puro e totale vuoto.

Mi chiedo perché sono nata, se non riesco a vivere e a provare qualcosa che non sia la disperazione e la voglia di sparire.
In certi momenti maledico di essere venuta al mondo. Ed è stato proprio in uno di questi momenti bui che  ho incolpato mio padre. Additandolo come il responsabile di tutto questo mio mal di vivere. Dandogli la colpa di avermi messo al mondo.

Lui non ha detto niente. Non si è nemmeno arrabbiato. Mi ha abbracciata forte. Così forte che tutt'ora quell'abbraccio lo sento incastrato nelle costole.

Non rispondeva mai quando io gli vomitavo addosso tutta la mia frustrazione, mai. L'unico che mi andava contro, e che rispondeva alle mie sfuriate deliranti era Thomas, mio fratello. Lui non restava mai zitto, affatto. Ci siamo urlati contro le peggiori cose. So che mi vuole bene, anche io gliene voglio, tanto. Ma è normale che lui non stava zitto davanti al vomito orrendo che erano le mie parole. Taglienti. Dette di proposito per fare male. Parole che neanche pensavo sul serio ma che dicevo perché il mio cervello mi diceva che erano vere.

Non ho mai chiesto scusa, a nessuno di loro. Né per le brutte parole, né per i gesti estremi che ho fatto. Mi sono allontanata,  semplicemente.

Mio padre non ha aperto bocca quando, otto mesi fa, gli ho detto che sarei andata via di casa. Non ha detto proprio niente. Solo di cercare aiuto da uno bravo. Così ho fatto.

La vecchia me non avrebbe mai fatto niente di simile. La vecchia me non andava a letto con gli sconosciuti. La vecchia Blue Jean era una sognatrice e sperava in un amore da favola. Invece, la nuova me ha perso la verginità con uno di cui non ricorda nemmeno il nome perché in quel momento era troppo fatta. Non ricordo neanche come sia stata la mia prima volta. Ero anestetizzata dalla marijuana e totalmente fuori dal mio corpo per via della cocaina. Non ricordo niente. Ricordo solo di essermi risvegliata completamente nuda come un verme, su un materasso sudicio dentro ad una casa abbandonata. O per lo meno, frequentata soltanto dalle persone perse come me. Accanto a me non c'era più nessuno. Ricordo di essermi alzata e di aver sentito un bruciore fastidioso al basso ventre. Di aver guardato il materasso dove c'era del sangue. Il mio sangue. Ho capito in quel momento di aver fatto sesso per la prima. Altrimenti, non lo avrei mai ricordato. Ricordo di essermi rivestita e come se niente fosse sono uscita da quella stanza. Nel salotto avevo fatto anche lo slalom tra i corpi semi incoscienti sdraiati a terra. Ero uscita da quell'appartamento, ed ero tornata a casa mia.

Mi sono sentita sporca, tutt'ora mi sento uno schifo quando mi concedo a qualcuno solo per il disperato bisogno di colmare questo maledetto vuoto. Purtroppo, ho capito troppo tardi che il sesso non lo colmerà mai. Credo di non aver mai avuto un orgasmo durante  le mie scopate occasionali. O almeno, non ricordo di averlo mai raggiunto. Ormai ci ho fatto l'abitudine. Il più delle volte lo faccio mentre sono fuori di me. Lascio che usino il mio corpo, io uso il loro, anche se non raggiungo mai quel famosissimo piacere.

È capitato, che alcuni ragazzi si siano arrabbiati perché dicevano che fingevo. Ed è vero: io fingo di provare piacere. Do' sempre la colpa a ciò che in quel momento mi sono calata in corpo.
Alcune volte, penso di essere diventata una puttana. È vero che non prendo soldi, ma ricevo comunque qualcosa in compenso. Che sia alcool oppure della droga. Quindi, non sono poi così diversa da quelle che si fanno pagare.

Provo ribrezzo verso questa versione sbagliata di me stessa. Così schifo che alcune volte fatico persino a guardarmi allo specchio. L'ultima volta che mi sono guardata allo specchio, dopo aver scopato con uno sconosciuto, ho pianto fino allo sfinimento. Avevo gli occhi vuoti. Il corpo costellato di succhiotti. Quando la crisi era passata, mi ero truccata gli occhi di nero ed ero uscita di casa. Ho vagato per mezza Londra con la consapevolezza, che pesava quanto un macigno, che la vecchia Blue Jean era definitivamente morta dentro al piccolo ed incasinato bagno di casa mia.

Per tutto questo tempo, ammetto di essermi chiesta come se la sta passando la stronza che ha messo al mondo me e mio fratello. Sicuramente sta meglio della sottoscritta. Quando avevo solo sei anni e mio fratello undici, la madre dell'anno aveva ben pensato di sgattaiolare via di casa mentre tutti stavamo dormendo. Ignari del fatto che lei stesse scappando via con il suo amante. Un uomo ricco e vent'anni più grande di lei.

Immaginate il "trauma" che tutti abbiamo avuto quando l'indomani ci siamo svegliati e lei e tutte le sue cose erano sparite nel nulla. È sparita come se non fosse mai esistita.
Ho visto mio padre crollare in mille pezzi. Mio fratello spaccare tutto ciò che gli capitava davanti agli occhi. Io? Be', io all'inizio non capivo che cosa stesse succedendo.  Ricordo solo che papà mi ripeteva che tutto sarebbe andato bene.

Credo che sia una specie di fortuna non ricordare bene il giorno in cui sono stata abbandonata. Certo, è stato difficile colmare la figura che solo una mamma può rappresentare. Mio padre però ha fatto di tutto per non farmi sentire la sua mancanza.

La odio, certo. Ma non è importante. Alla fine, nemmeno la ricordo. Non ricordo il suo viso, i suoi occhi o la sua voce. Dove lei mancava, c'era il mio papà o Thomas.
Lei non mi manca e non desidero nemmeno riallacciare i rapporti con lei. Tre anni fa, ha provato a contattarmi, ma non le ho mai risposto. Lei non è stata  più mia madre dal momento che se n'è andata via. Non è altro che la persona che mi ha ospitata per nove mesi dentro di sé. Tutto qui.

Mia nonna paterna mi ha cresciuta come se fosse mia madre. Mio padre ha fatto entrambe le parti. Di sicuro, non avevo e non ho bisogno di lei.

Quello che forse ha sofferto un po' di più è Thomas. Lui era molto legato a Diana Bianchi. E poi, era abbastanza grande per capire tutto. A undici anni, sei grande abbastanza  per capire che tua madre ti ha abbandonato. Mentre io ero piccola e forse è stato più facile, non lo so.

L'unica cosa che so per certo è che dentro di me si è rotto qualcosa. E forse, niente potrà aggiustarlo.
Non mi resta altro che conviverci e sperare di non svegliarmi più.

Ma non è nemmeno questo il giorno. Anche oggi mi sono svegliata. I miei occhi si sono aperti e stanno fissando il soffitto umido del mio monolocale. Dalla finestra spalancata entrano i rumori della città che ormai si è svegliata già da un paio d'ore. Mi sembra di vivere un fottuto loop.

Ho un post sbronza da paura e un mal di testa pulsante. Ogni giorno della mia vita in cui bevo come se non ci fosse un domani, mi maledico per aver bevuto fino a perdere, probabilmente, i sensi.
Non ricordo come sono tornata a casa. A quanto pare però, sono tornata da sola. E, cosa più importante: non sono nuda. Due giorni di fila che al mio risveglio non sono nuda? Un record!

Sollevo  lo sguardo sull'orologio appeso sopra al frigo. Sono le due del pomeriggio e io, tra meno di venti minuti, devo andare dall'altra parte di Londra a lavorare. Una volta finito a lavoro, devo presentarmi ad una di quelle stupide terapie di gruppo in cui quasi nessuno parla. Dove ci sediamo in cerchio e il dottor Colvin ci sprona a parlare di noi. Perché mai dovrei parlare di me con degli sconosciuti? Non esiste.

Fosse stato per me, non ci sarei andata, ma ormai ho imparato a conoscere Matthew Colvin, e sono certa che si presenterebbe a casa mia; butterebbe giù la porta di casa e mi trascinerebbe a quegli stupidi incontri.
L'unica cosa che egoisticamente mi rincuora, è che a quelle sedute partecipano un sacco di giovani. Alcuni, con i miei stessi "problemi". Altri, sono molto più gravi o affetti da qualche disturbo importante. E io, mi sento tremendamente in colpa nei loro confronti. Mi sento una fottuta ingrata. Perché loro non l'hanno deciso di essere così, di avere quel disturbo. Mentre io volendo  potrei farci qualcosa. Ma a quanto pare, non mi va proprio di riemergere in superficie. Mi sono come dire: adagiata. Certo, il dottor Colvin dice che anche il mio è un disturbo. Un disturbo che decisamente non ho voluto nemmeno io. La depressione è un disturbo, una malattia. Io però non riesco ancora a vederla tale. Io penso solo che sia una specie di via di fuga dai veri problemi. Anche se, in tutta onestà: ammetto che gli attacchi di panico non sono affatto piacevoli, e nemmeno tutte quelle cose che mi passano per la testa.

Nonostante fuori ci siano almeno trentaquattro gradi, io sono avvolta sotto le coperte, come sempre. Le lenzuola si sono aggrovigliate alle mie gambe come dell'edera. La cosa bella è che io non sento più caldo.
Le mie mani sono sempre due blocchetti di ghiaccio.
Il dottore dice anche che è un sintomo comune per chi non si alimenta in modo corretto. Neanche qui posso farci molto. Anche la voglia di mangiare ha lasciato questo corpo. 

Vedere il mio corpo cambiare così drasticamente, è stato un colpo al cuore. Per una come me, amante del cibo e dei dolciumi. Non sono mai stata sottopeso. Ero in salute prima. Ora sono solo... consunta? Pelle e ossa?

Scalcio via le coperte e mi metto a sedere, vengo subito colpita da una forte scossa alla tempia. Ho un saporaccio orribile in bocca e anche la gola secca.
Mi alzo, reggendomi ad ogni cosa per raggiungere il bagno. Forse sono ancora mezza ubriaca. O forse, i miei arti oggi, hanno preso un giorno di ferie. Calpesto un sacco di cose prima di raggiungere la mia destinazione.

Qui dentro regna il caos.

Il dottore  ha detto che lo stato in cui teniamo la nostra casa, rispecchia ciò che abbiamo dentro. Se dovessi descrivere quello che ho dentro, non esiterei a indicare il mio salotto/cameretta. Il caos.

Mi fa rabbia non riuscire a mettere in ordine. Io ero la persona più ordinata del mondo, cazzo. Odiavo il caos e la casa sporca. Tutto doveva essere in ordine. Nemmeno un granello di polvere. Adesso invece, il mio piccolo appartamento è diventato una discarica, così come il cervello.

Scosto la tenda della vasca e mi trascino dentro. Apro l'acqua e la faccio scorrere lungo tutto il mio corpo esile. È da un po' che evito in tutti i modi di sfiorarmi. Sentire le ossa mi fa venire i brividi.

Sciacquo i capelli e insieme a l'acqua, scorre via anche la tinta nera per capelli.

Chiudo l'acqua ed esco dalla doccia. Avvolgo un asciugamano sul mio corpo e con la mano levo la condensa sullo specchio. Il mio riflesso mi viene sbattuto in faccia con brutalità. Gli occhi infossati, il viso scavato. Le labbra dal colore smorto. Il piercing che le rende ancora più pallide.

Potendo mi prenderei a schiaffi da sola. Ma non posso. Non ci metterei la forza giusta nel colpirmi.

Alcune volte, desidero disperatamente di trovare una zip dietro al mio collo sottile e abbandonare questo corpo vuoto che non mi appartiene più.

Mi asciugo alla bene meglio e torno in salotto. Vado subito alla ricerca di qualcosa di pulito da indossare. Alla fine, indosso un paio di jeans scuri, una vecchia maglietta di mio padre degli Iron Maiden che mi arriva quasi alle ginocchia. Sopra, infilo una felpa nera.

Indosso i miei inseparabili anfibi. Tiro su il cappuccio sulla testa, prendo lo zainetto, il telefono che non squilla più da parecchio, ed esco di casa, pronta a sopravvivere ad un'altra giornata vuota.

L'impatto con il mondo che mi circonda è sempre destabilizzante. Vedere le persone che svolgono la loro vita quotidiana, mi devasta parecchio. Mi fa sentire fottutamente inutile.
Nel cielo splende il sole. Non è presente nemmeno una nuvola. E io inizio a odiare tutto. Tutti i colori. Tutto questo calore. Tutto. Persino vedere le persone ridere tra loro mi innervosisce.
Mi fa rabbia perché sono invidiosa. Ecco perché.

Li invidio da morire. Dal primo all'ultimo. Anche se so perfettamente che dietro un sorriso o una risata si può nascondere il dolore. Lo so. Anche io per tanto tempo ho finto di sorridere, ho nascosto la tristezza con una risata. Ho sorriso, con gli occhi che non seguivano le labbra. Perché loro erano spenti, inespressivi. Urlavano tutto il dolore che avevo dentro. Nessuno però ci ha fatto caso. Si concentravano sulla mia risata, sulle mie labbra che si incurvavano in un sorriso.

Non ricordo nemmeno il suono della mia risata, quella vera. Ogni volta che mi sforzo di sorride, mi sembra di avere una paralisi facciale. Non ricordo la sensazione di sorridere e di gioire in modo sincero. Non me lo ricordo più.

__________________________________
◄ ││ ►

Dopo aver preso due metro e un bus, arrivo finalmente a Morden, dove si trova il Paradise Of Vinyl's di Roxy.

Sono  capitata in questa zona per caso, a dire il vero. La prima cosa che avevo notato era un cartello appeso contro la porta nera. La proprietaria – Roxy- era alla ricerca di un dipendente. Non ci ho pensato due volte ad aprire la porta e offrirmi volontaria. In un modo o nell'altro, la musica mi attira a sé come una calamita. Qui dentro mi sento bene. Posso essere me stessa e soprattutto nessuno mi giudica.

Il tintinnio delle campanelle a forma di note musicali, avvisa la mia presenza. La chioma rosa shocking di Roxy cattura subito la mia attenzione. È intenta a sollevare alcuni scatoloni dal pavimento e a posarli sul bancone della cassa. Io adoro Roxy. È una persona fantastica. Immagino che, se non fossi... Così, saremmo potute diventare ottime amiche. Ha solo qualche anno più di me. Mi piace ogni cosa di lei. La sua esuberanza, la sua voglia di vivere, il suo stile. Tutto.

Oggi indossa un paio di jeans a zampa di elefante. Un top corto marrone intrecciato sulla schiena e, da sotto i jeans spuntano degli stivali in camoscio del medesimo colore del top. A quanto pare adora indossare parecchi bracciali e lunghissime collane colorate. Solleva lo sguardo e mi guarda attraverso i suoi occhiali tondi. I suoi occhi ambrati si posano su di me e un sorriso le incurva le labbra. È sempre contenta di vedermi.

«Buongiorno splendore!» esclama, con la sua voce stridula ma dolcissima. «Sono arrivati nuovi vinili», riprende a sistemare gli scatoloni. «Prima di iniziare ad aiutarmi, perché non ti bevi un bel caffè?»

Immagino che si sia resa conto del mio aspetto di merda. Le do retta. Getto lo zainetto a terra e accendo subito la macchinetta del caffè. Temo che oggi non basteranno quantità esagerate di caffeina per riportarmi nel mondo dei vivi.

«Nottataccia, eh?» mi viene incontro e, senza farmelo notare troppo, infila la cialda e prepara la tazzina, dato che io mi sono persa in chissà quale galassia. 
Scuoto impercettibilmente il capo. «No, sono solo uscita ed ho esagerato con l'alcool.» La sincerità prima di tutto.
Lei annuisce. Mi porge il caffè e ne prepara anche uno per sé. «In quale parte di Londra ti sei cacciata ieri?»

Soffio il caffè caldo dentro la tazzina prima di rispondere. «Non ne ho idea.» Bevo un sorso, bruciandomi la lingua. Cazzo. «Non ricordo dove sono finita, né tanto meno che cosa ho combinato.»
Serra appena le labbra tinte di rosa. «Tesoro, perché bevi così tanto?»

Per non pensare. «Volevo solo divertirmi.»
Da sola, perché non ho più amici, per colpa mia.

Mi rifila un'altra occhiata di biasimo. «Perché non usciamo insieme, qualche volta?»
«Certo» sorrido, consapevole che non la chiamerò mai per uscire.

Da quando lavoro per lei, questa è la quinta volta che mi chiede di fare qualcosa insieme. Forse si è resa conto che sono sola come un cane, dato che non ho mai nominato amici o famiglia. Forse le faccio anche un po' di pena, anche se non lo dirà mai ad alta voce. Ho rifiutato tutti i suoi inviti. Non voglio che nessuno si avvicini a me. Non voglio rovinare la vita di nessun altro. Meglio sola, così non rischio di deludere altre persone.

Butto la tazzina del caffè nel cestino come se scottasse. Senza aggiungere altro, aiuto Roxy a sistemare i nuovi vinili. In silenzio, come sempre. Ormai non ho più niente da dire alle persone. Non so più come si socializza con un altro essere umano.

Tutto quello che ho fatto prima di spegnermi, mi sembra un lontano ricordo. Un sogno. Le uscite con Dylan e Scarlet. Le nostre cazzate, le risate vere. Mi sembra di non averle mai vissute. Che siano solo frutto della mia mente bacata. Le nostre giornate passate a suonare nel garage dei miei nonni. Le giornate passate a Seaford  al mare. Alcune volte penso di essermi immaginata tutto. Eppure, dentro di me, sento ancora il sapore di quelle giornate spensierate. L'odore della salsedine sulla mia pelle abbronzata. Il suono delle risate. Riesco a sentirle ancora. Come sento ancora gli abbracci sinceri di Scarlet, i baci affettuosi di Dylan.

Chissà che cosa ne pensano loro di tutto questo. Non ho dato loro modo di esprimere un parere. Mi sono allontanata in punta di piedi senza dargli nessuna spiegazione. Disintegrando un'amicizia che dura da una vita. Per un po' hanno cercato di mettersi in contatto con me. Chiamate, sms a cui io non ho mai risposto. Alla fine, hanno smesso semplicemente di cercarmi. E mi va bene così. Non mi merito degli amici come loro. Affatto. Non merito proprio di essere voluta bene. Sono la peggior figlia, nipote, sorella e amica del mondo.

L'unica cosa che merito è quella di essere lasciata sola a marcire nei miei stessi cazzo di pensieri. Sola come un cane, uno scarto della società. Come l'essere inutile che sono, che si permette di rubare ancora ossigeno a chi non può più averne.

La mano dalle unghie smaltate di Rox si posa sulla mia spalla. Sbatto le palpebre e incrocio il suo sguardo. «Va tutto bene?» la sua voce mi raggiunge un po' lontana.

Devo sbattere di nuovo le palpebre per tornare alla realtà, per rendere il mondo intorno a me nitido. Inumidisco le labbra e sorrido. «Sì, tutto bene.»
Posa anche l'altra mano, rafforzando la presa. «Perché non torni a casa? Posso fare da sola per oggi.»

Scuoto il capo. «No, sto bene.» I soldi mi servono. Non ho più la carta che mi aveva dato papà. L'ho lasciata sul comodino della mia stanza a casa sua quando me ne sono andata via.

«Ti pago la giornata come se avessi lavorato. Ma ti prego: torna a casa e riposati, okay?» Mi guarda dritto negli occhi. I suoi, sembrano preoccupati.

Chissà che cosa vede.

Sento le spalle dapprima rigide, afflosciarsi. «Okay», mormoro con un filo di voce.
Accenna un sorriso. «Rimettiti in piedi, Blue Bean.»

Sbuffo una risata nel sentire quel nomignolo. È quello con cui mi chiama mio nonno e che uso sui social. «Lo farò. Promesso.» Afferro il mio zainetto, la ringrazio ed esco dal negozio.

Chissà da quando ho iniziato a promettere le cose e a non mantenerle. Se c'era una cosa di cui potevo vantarmi era proprio questo: io mantenevo sempre le promesse. Cascasse il mondo facevo di tutto. Ora invece, prometto come se fosse la cosa più normale del mondo e, le infrango, come se fosse la cosa più normale del mondo.

Infilo le cuffie nelle orecchie e mi perdo tra le note. Tra i casini dentro la mia testa. Tra gli assoli di chitarra.

Il telefono vibra nella tasca della felpa. A primo impatto sussulto. È da tanto che nessuno mi invia messaggi o mi chiama. Nemmeno l'operatore telefonico, mi invia più messaggi.

Dentro di me, l'ansia inizia subito a prendere il sopravvento. Lo tiro fuori dalla tasca mentre il cuore prende a martellarmi nel petto.

Leggo il nome del mittente e per qualche secondo il mondo intorno a me smette di girare. Si ferma tutto, persino il respiro, che mi resta incastrato nella gola.
È mia nonna.




·¯·♩¸¸·¯· ·¯·♩¸¸·¯·♫¸¸¸¸♬·¯·♩¸¸·¯·


Lei è Roxy, la proprietaria del negozio di vinili

Roxy ( Roxanne) Bell
~ 24 anni

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top