Hurts
N:A: A Micaela, che il 3 marzo ha festeggiato il suo compleanno e a cui avevo promesso questo capitolo. tivibi.
-Quindi,- esordì il professore, il silenzio rimbombava nelle orecchie di quelle giovani menti, la voglia di crescere e di essere segnati assenti alle lezioni di vita -Domani riprenderò ad interrogare, preparatevi.-
Annuirono tutti, il mondo attorno a loro li avvolgeva a spirale, c'era chi disegnava, chi giocava con le penne e chi pensava assentemente, come condannarli?
Sentivano il peso di quegli anni, i peggiori, certo, ma i migliori, la certezza di ricordarli con un volto corrucciato, la forza di proseguire si impossessava di loro, riportandoli a riva.
Erano così, tutti, impegnati a sorridere al nulla, da non rendersi conto che i secondi scivolavano loro di mano, che l'assenza di una sorta di piano per il futuro, interiormente, li divorava senza che se ne rendessero conto.
Delancy scoppiò in una flebile risatina, dando una leggera gomitata all'amica, che non sorrise, neppure la guardò. Quel giorno lei vomitava apatia, rimetteva brutti ricordi e la perdita di qualsiasi forza che potesse possedere.
In quel giorno di novembre, i capelli mossi raccolti in una coda ed il viso senza neppure un accenno di trucco, vi erano i peccati che si riversavano sulle persone, la pioggia dal cielo, quelle lacrime divine, la paura che anche quella giornata potesse finire.
Quelle lettere pronunciate, in frasi, in parole, in discorsi o spiegazioni, a loro, come a lei, non interessavano. In questo, cari miei, i ragazzi si somigliano tutti.
Nessuno sguardo, neppure d'amore, in un giorno dove tanti peccati la travolgevano in un uragano, poteva salvarla, era semplicemente così.
Frantumi di persone, i cuori sono a terra, tu non puoi impedirlo, i postumi di una sbornia, il motivo per cui si beve.
Per dimenticare, o no, forse per imprimere nella loro mente quei lineamenti, le guance e le labbra che si desideravano scordare.
Indistruttibili i ricordi, fragili chi li vive, frutti di persone dannate.
Giocò con il bracciale al polso, le finte perle che in uno scatto si allontanavano ed avvicinavano alla pelle, i denti che mordevano le labbra e gli occhi vuoti, li chiamavano così, no?
L'assenza di un motivo per andare avanti.
-Arrivederci, ragazzi.- pronunciò il professore, prendendo la sua cartella nera di pelle, rovinata, il cappotto appeso alla lavagna, i capelli bianchi e il volto arricchito da una vita vissuta.
Era irresistibile la voglia di osservare come la vita sarebbe evoluta, come quelle persone sarebbero cambiate con gli anni, magari per semplice aspetto fisico, oppure perché la vita é così fatua da cambiare persino il carattere.
Ma dona un pezzo ora, uno dopo, un altro fra un po' di tempo, finirai per restare senza nulla, ricordalo.
Quel maglione rosa le cingeva il petto, le regalava un'aria così pura, le si addiceva, non c'era che dire.
Gli occhi verdi viaggiarono sul suo banco, era da ore che non alzava la testa, persino la mattina non aveva osato proferire parola.
Ma nessuno, dal canto proprio, osava rivolgere il perdono ad una simile assassina, perché in quel giorno venivano a galla i veri pensieri ed i rancori.
Le persone sono di plastica, così false, sotto le luci dell'obiettività che i loro lineamenti trapelavano.
Si alzarono tutti, il professore uscì dall'aula e, come ogni ora, l'intera classe prese a parlare e a ridere, senza preoccuparsi di chi volesse stare solo in silenzio.
Delancy le lanciò un'occhiata preoccupata ed incapacitata, ma la lasciò silenziosamente a sé, ne aveva bisogno, quei gesti lo lasciavano intendere.
Tirò con le unghie il tessuto nero del leggins che le fasciava le magre gambe e che la faceva parere ancora più gracile di quanto in realtà fosse.
La rossa tinta si alzò, correndo per la classe, mormorando cose stupide, lo facevano tutti, perché per lei sarebbe dovuto essere diverso.
Diego si avvicinò a Blake, corrugò le sopracciglia, si leccò il labbro, ricordava cosa aveva fatto la sera prima ed un innato senso di aver sbagliato si impossessò di lui, ma era talmente giusto in quello che era il suo cuore che non osava dire il contrario, era di plastica, di fronte alla realtà.
Passò una mano nei capelli rossi, a lenti passi le sedette accanto, tenendo i gomiti sul banco verde, le dita picchiettavano tra loro e quei suoi occhi osservavano quell'ambigua figura, la cui testa era bassa.
-Cosa succede?- non lo aveva mai usato quel tono, preferiva lasciar trasparire che non gli interessasse la risposta, che era una domanda per ottenere, nient'altro, ma in quel caso, era diverso. Vedere una simile distruzione avrebbe devastato chiunque.
Lei alzò appena il capo, le mani finirono sul maglione rosa, strofinandolo con una grazia che le apparteneva da sempre, la voglia di rendere orgoglioso qualcuno.
-Niente- era apatia quella, rigettava parole senza rendersene conto, pezzo dopo pezzo, si era, semplicemente, persa.
-Non é un peccato sbagliare, lo sai?- non capiva, non capivano. Si stavano parlando, per anni si erano ignorati, era rumore quello che c'era attorno a loro, ma restavano in silenzio.
-Cosa cerchi di ottenere?- ed ancora una volta, crescendo dentro di lei, nessun grido di pietà fu pronunciato, semplice tono piatto.
-Sei forte, lo sai?- le scosse il braccio, era così piccola, pensò, le alzò il mento con le dita, raggelò alla vista di tanto vuoto presente su quel volto, distruzione.
Frammenti di speranze vagavano.
-Rimangiatelo, adesso, so che vuoi farlo- per la sua età era testarda e forte, la voglia di avere ragione prendeva largo in lei ogni qualvolta era possibile, nonostante il tono distaccato, nonostante le crepe in quell'anima.
Diego rise appena, scuotendo la testa e donandole la tanto agoniata ragione con lo sguardo, prima di spostarlo verso la finestra.
Occhi blu, guance rosse, notti insonne ed abiti riempiti di desideri futili, tutto in una persona che non sprecava il suo tempo, quel suo sguardo bruciava sulle scene che lo circondavano, i pugni serrati al ventre.
-Potresti ringraziarmi- sorrise Diego, lasciandole abbassare ancora una volta la testa, ridacchiando a tanta dolcezza ed ingenuità mischiate, dondolavano assieme.
-Nessuno te l'ha chiesto- sibilò l'altra, i capelli biondi le donavano un'aria persino più affranta, se fosse stato possibile.
Diego rise, era così falsa, tanta gracilità era palpabile, tanta forza sprecata nelle bugie e nei semplici anni che vivevano nel vuoto, ma lo avrebbero rifatto.
Qualsiasi cosa avessero preso in considerazione, i ragazzi, lo avrebbero rifatto. Appaganti le delusioni, crescite rapide. Ma quei ragazzi erano maturati prima del tempo.
Bambole gettate prima che il seno cominciasse a diventare prosperoso, areoplanini poggiati sul letto e mai ripresi prima che la voce prendesse a cambiare.
-Capisco perché tengano tanto a te- lei rise, quella era una risata amara, simbolo che, forse, quella solitudine non era per loro, ma la vivevano senza via d'uscita.
Avrebbero voluto stringersi per strada, le lacrime agli occhi durante quei suoni così sommossamente affranti, baci magari su una pista da ballo.
-No, Diego, ti sbagli.- non disse altro, sebbene lo sguardo di quel ragazzo così curioso bruciasse su di lei, nonostante i richiami di Delancy o i risolini della rossa dietro di lei, lei non alzò lo sguardo, non lo avrebbe osato farlo.
Perché doveva essere così soffocante? Quella sensazione di non appartenere, quella sensazione di ricordare anche il bello piangendo.
Perché, i ragazzi, anziché ricordare con un sorriso, vi piangono? Non si ricordano per caso le cose belle?
E Federico era come la ragazza dai lineamenti delicati, era codardo, era ingenuo, a modo suo, era cresciuto fin troppo in fretta.
Lui non voleva nascondere quello che erano, ma perchè ammettere al mondo di amarsi? Non era giusto, quello che provavano, da bravi egoisti, doveva restar loro.
Passò una mano nei capelli corvini, guardandola, con paura di sfiorarla e timore che fosse la fine. Viveva quei sentimenti, temendoli, non rendendosi conto di quello che stava respirando.
'É finita? Hai lasciato così la nostra libertà?'
Gli aveva scritto quella mattina Lorenzo, nei suoi inganni, nei suoi rancori e nelle sue menzogne, ci sarebbe finito affogato. Lo sommergevano, capitava persino che non respirasse per quello che aveva creato, perso, distrutto, amato. Anche lui aveva amato e ricercato la felicità, se qualcuno, però, non gliel'avesse strappata ancor prima di afferrarla pienamente.
E la guardò ancora, Marco accanto a lui faceva lo stesso, a differenza che quel gesto lo ripetesse da, ormai, troppi anni. Con forza e stupidità, ma era suo, anche se non avrebbe mai amato come desiderava quella ragazza, lui era suo, distrutto, così distrutto, ma era suo.
'No' scrisse, aveva fatto la sua scelta, non ancora avendo fatto i conti con quello che si definisce destino.
Un'altra caratteristica quasi, s'oserebbe dire stupida, dei ragazzi era quella di crearsi l'infelicità con le stesse mani che desideravano l'opposto.
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Federico's pov
[in corrispondenza ai pov di Martina]
-Ci credi che Madame Bovary muore?- strillò, quella sua voce acuta, ma al col tempo timida. Spostò gli occhiali dal naso, posandoli sul tavolo, come era troppo solita fare ogni qualvolta terminasse di immedesimarsi in un ennesimo romanzo.
-Non mi dire- la presi in giro, prendendo una maglia dalla sedia dei panni ancora non stirati ed indossandola, non sarei uscito di casa, nulla sarebbe cambiato.
Mi osservai nello specchio accanto alla colonna, i lineamenti marcati e i tatuaggi che mi ricoprivano le braccia. Gli acceni di barba e gli anni mischiati ai peccati che portavo sulle spalle, vergognandomene.
-Dovresti tagliarti i capelli, Jake- scrollò le spalle, osservandomi incurosita, nella sua felpa di supermam e nel suo metro e sessanta, neppure, di statura.
-Sta' zitta, Lu'- la ammonii, accompagnando le parole da un semplice, ma soddisfacente, dito medio.
Lei mi fece la linguaccia, sciogliendo i lunghi capelli castani e riprendendoli in una disordinata crocchia, i leggins neri le fasciavano le gambe, seppure si vergognasse del suo fisico.
Lucrezia si alzò definitivamente dalla sedia, chiudendo ammirata l'ennesimo libro che divorava e riposandolo nel suo apposito scaffale, lanciando un'occhiata ai suoi dizionari di greco e latino, consapevole di aver scelto la facoltà più difficile di tutte.
-Un giorno mi dirai perché mai vuoi andare ad insegnare in Italia- mi rivolsi seccato, avvicinandomi alla cucina, per preparare il nostro solito tea, tra quelle semplici quattro mura.
A volte le scelte parevano avvolgerci troppo facilmente, non sempre soddisfatti di quello che ottenevamo.
E l'avevo cercata per anni, mi ero mosso in ogni parte del mondo.
E quei tatuaggi racchiudevano i peccati che volevo nascondere, le lacrime versate la notte, quando le persone non possono sentirti.
Quando si ha paura di vivere il proprio amore, per quanto malsano sarebbe potuto essere, era il nostro, solo nostro.
Come ogni amore degno di un libro, non era necessario alcun lieto fine, se solo le persone fossero state felici anche senza.
E vivevo di rimpianti, parole rubate e ritirate, subito dopo averle lasciate fuggire dalla mia bocca.
E restando lì, fra quei luoghi che percorrevo, i ricordi a galla, si impossessavano di me, mi chiedevo come mi potessero rispondere 'sta bene' se quello che avevamo avuto fosse stato reale.
Anche se baciato da un bugia, era perfettamente vero. Reale e privo di qualsiasi menzogna. Per quanto assurdo sarebbe potuto sembrare.
-Tu mi dirai mai qualcosa di te?- tentò, cercando di penetrare quella barriera che da anni si era elevata.
E l'uomo, da essere imperfetto, viveva di quelle curiosità. E Lucrezia, a modo suo, si nutriva di quelle sensazioni. Stava bene se le persone la rendevano partecipe delle loro avventure.
Si sentiva meno vuota, proprio come me. Vagava, semplicemente, provando a sentire qualcosa di diverso dal rimettere apatia e dalla stanchezza.
Anche conoscendo che i dannati, miei cari, restano soli per sempre, non si smette mai di cercare qualcuno che possa rimettere assieme i pezzi.
-Ho ventisei anni- scherzai, versando il tea nelle tazze ed incupendomi nel ricordare quanti anni vissuti negli errori e nelle illusioni sfumate in delusioni, a causa mia, avessi visto, accentuandoli ad ogni pentimento.
Scoppiò in uno sbuffo, superandomi con discrezione e bofonchiando lamentele e, nonostante tentassi di non ascoltarla, esse mi perforavano la corazza, portavano alla luce la parte ingenua di me, quella che era cresciuta fin troppo facilmente, offuscandomi le sensazioni.
-Cosa vorresti sapere?- mi arresi, odiavo sentirla fino a quel punto distante, mi rendeva più dolce, tranquillo, umano, per quanto fosse possibile.
Non mi affezionavo, me l'ero ripromesso, non ci cascavo, non restavo intrappolato, erano i sogni che si facevano spazio, senza troppi indugi, nella mia mente, danzando con quelli che, poi, erano i fatti reali.
-Chi è la ragazza per cui piangi la notte,- il cuore sembrò minacciare d'uscire dalla gabbia toracica, troppi demoni che m'appartenevano -Blake, vero?-
Scossi la testa, fin troppo duro nei suoi confronti e la lasciai delusa in cucina, con una spallata per niente delicata ed una rabbia incontrollata che non mi apparteneva, ma prendeva piede tra le crepe di un amore senza speranza.
Ma quando mi voltai, le lacrime passate, le speranze vane, era ovvio che quel nome avesse importanza per me, prendendo spazio fra l'incombente pazzia che per quasi dieci anni mi aveva demolito.
-Non si può parlare di un simile nome, di simili ricordi. Voglio nasconderci,- quelle note rotte che uscirono dalla mia bocca le fecero alzare ansiosamente il capo -perché eravamo baci rubati con altrettante azioni nascoste dietro alle porte chiuse- le dissi, i suoi occhi si dilatarono, non era abituata a tali confidenze -Perché non potevamo essere così, sebbene io fossi suo e lei fosse mia.-
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E camminava in silenzio, ondeggiava confusa, la perdita di battiti era vigente in quel corpo, provava una simile sensazione da restar stolti.
Siamo soliti definirla vuoto, siamo soliti sentire quella colpa che cresceva e diminuiva nel petto, la testa libera dai pensieri, solo uno danzava in essa. Perché non poteva essere altrimenti, quando il passato é talmente distrutto, il presente sarà tale.
Ed erano burattini di un destino, quelle gambe che si muovevano senza un pretesto per farlo, solo perchè, al momento, pareva giusto così.
E lui la seguiva, in silenzio, la strada che percorrevano era la stessa, lei lo sapeva, lui lo sapeva, facevano finta di perdersi per scelta e trovarsi per caso.
Abbassò gli occhi al cellulare che vibrò per l'ennesima volta e sospirò, una di quelle parole sussurrate ad un vento inconsapevole e dominante, si sentiva obbligatoriamente distrutta.
Il dito toccò lo schermo, il telefono accanto all'orecchio, i piedi impiantati al terreno, le spalle poggiate ad un muretto.
-Blake?- voleva semplicemente annuire, ma la donna che l'aveva messa al mondo era a chilometri di distanza, l'aveva abbandonata, non le portava rancore, era semplicemente realista.
-Mamma,- il tono risultò allo stesso livello, brillavano entrambe di distruzione rimessa dall'apatia, solo perché non provar nulla era persino noioso.
-Come stai?- girava attorno alla domanda, lo faceva fin troppo spesso.
-Non sono stata alla cappella, non ho intenzione di rubare le chiavi e a scuola tutto bene, hai altro da chiedere?- e quelle parole taglienti arrivarono a Londra, graffiando il cuore della donna dalla matura età, i capelli lisci che ricadevano lunghi le spalle e quella plastica che indossava come una maschera. L'aveva spinta lei verso quel baratro, l'aveva costretta lei a credersi colpevole, quell'inchiesta non accertò mai la complicità di Blake, ma per quella donna risultò fin troppo semplice accusare una creatura mai voluta di essere l'unica colpevole di una catastrofe che le aveva tagliato la vita.
-Non volevo sapere queste cose.- mentì Priscilla, Blake giurò di sapere che stesse giocando con le perle che era solita portare al collo, tenendole strette fra le unghie. Sul viso di Blake prese un raggio di soddisfazione, tra le sfumature di quella disperazione distruttiva.
-E allora cosa volevi sapere?- la voce tagliente di quella ragazzina cresciuta nell'odio di una madre che avrebbe preferito ucciderla quando era ancora frutto di un amore.
-Come sta mia figlia.- non poté che non ridere, amaramente, con insoddisfazione e follia che le inondavano l'organismo, un'onda che bagnava la sabbia e le impronte strappate da essa.
-Distrutta,- rispose, pronta per chiudere quell'inutile conversazione e spegnere il telefono, non erano una per l'altra quella madre e quella figlia, erano fatte di materia simile ed opposta, modi finti e veri, una poesia impostata per confondere -Come volevi che fossi, no? Ci sentiamo, mamma.-
E non poté controbbattere, non poté affermare che la figlia avesse ragione, il telefono venne spento e Blake continuò a camminare, fino alla casa che l'ospitava.
Federico l'aveva osservata, non ebbe potuto ascoltare una sola parola, con lo zaino sulle spalle, perché troppo lontano, ma aveva visto quei lineamenti minacciare di piangere.
Gli si era spezzato il cuore, per quanto ancora potesse rompersi.
La casa era vuota, completamente, la bionda ne fu assolutamente sollevata, lasciò lo zaino accanto al divano e andò in bagno, chiuse la porta a chiave e si guardò allo specchio, furono ore o secondi, minuti o attimi, non potremmo dirlo, seppe solo di star crollando anche in un semplice riflesso.
Non poteva fare a meno di notare come il suo riflesso si proiettasse nel cuore, si perdesse come il sapone a contatto con l'acqua che teneva tra le mani.
E l'oceano che costituiva, ballando con onde senza presente, maremoti in piena dal passato, la demoliva ancora di più.
Un bussare alla porta, un picchiettio rumoroso ed assordante, persino più del silenzio che trovava un cliché.
Sapeva chi era, sapeva che Manuel fosse all'università e che solo una persona poteva essere lì, alle due del pomeriggio. Giurò di sapere che la mano fosse sulla maniglia.
-Va' via.- posò il sapone e poggiò le mani sul lavabo, sospirando amaramente e solitariamente.
-Aprimi la porta Blake- sgranò gli occhi a quella voce rotta, si notò con lo sguardo rosso, ricco di notti passate nei pianti disperati, fin troppe per una ragazzina di appena diciassette anni.
-É così difficile dire che mi dispiace e prometterti di mettere tutto a posto- sapeva che stava mentendo, anzi no, lo sperava, perché udire dei singhiozzi da una bocca tanto vissuta, era simbolo di una prevedibile esplosione -E sappiamo entrambi che ti ferirò ancora, ma non posso impedirlo, posso solo dire che andrei dritto all'inferno per te.-
-Ti prego Blake, apri questa porta.- lei piangeva, lui altrimenti. Compì piccoli passi indecisi, i capelli mossi le circondavano il viso in maniera quasi dolce, il labbro tremava ed una mano era posata dinanzi ad esso, l'altra era a mezz'aria, entrò in collisione con la maniglia, sempre delicatamente, per quanto devastante potesse essere, la gracilità non era mai discussa nei suoi atteggiamenti.
Lui percepì quella presenza, l'avrebbe sentita sempre, avvicinò la fronte al legno, pianse in silenzio, lei era nella stessa posizione.
Tenevano entrambi la maniglia, erano lacerati dai bivi e dalle scelte che osavano prendere, se ne sarebbero pentiti.
-Se potessi iniziare da capo, getterei via le ombre di rimpianti, Blake- ormai piangeva così forte da sentirsi scoppiare -mi dispiace é tutto quello che posso dire, significhi tanto per me.-
-So di ferirti.. so che..- ripeté di nuovo, ma quella volta finì per tacere.
-Magari amo il modo in cui mi ferisci,- lo bloccò, il suo respiro si regolarizzò e le pupille si dilatarono, Blake lo aveva nuovamente stupito -Ti respiro, ti vivo.- si mosse -Non so cosa tu mi stia facendo, quest'ossessione. Ma so che amo il modo in cui mi ferisci.-
-So che non posso tornare indietro- gli aveva donato una risposta, fredda, lo aveva logorato più del silenzio che fino ad allora lo aveva accompagnato. -tutti gli errori che in un uragano ti hanno travolta, io stesso, un errore-
-Ami ferirmi- posò anche l'altra mano sulla maniglia, la spalla fu al legno, i singhiozzi non erano più silenziosi, anzi, erano incontrollati, liberati.
-Non é vero- scattò, in un ringhio, cosa mai insinuava?
-Come io amo il modo in cui menti- rispose dura l'altra, le lacrime li accompagnavano, ma in quei vestiti ricchi di storie da raccontare, si laceravano con le parole.
-Siamo proprio strani io e te- il ragazzo dalla felpa nera rise, con amarezza, accompagnato da un singhiozzo represso, ma la sua lingua assecondò le lacrime che entrarono in bocca, in quella risata.
-Apri questa porta- lei sospirò, era stanca. Era devastata dai troppi sbagli, si sentiva troppo persa per provare ad avere un altro dubbio. Era finita, o almeno pensava d'esserlo.
-Sto giusto cercando la mia metà.- si spostò, lei, provò a lasciare uscire ogni debolezza, provò ad essere talmente visibile da essere più catturabile del solito.
Girò la chiave, lui appena se ne accorse, ed aprì la porta, fin troppo lentamente.
Era la prima volta che si ritrovavano ad osservarsi piangere, entrambi, così sicuri di non meritare altro.
Federico fece qualche passo indietro, Blake qualcuno avanti, erano il riflesso che si completava, la distanza restava quella, erano giorni nascosti.
Il ragazzo dai capelli corvini deglutì, il pomo d'adamo che fu visibile, lei abbassò lo sguardo, i capelli avevano toccato le lacrime, erano persino crespi.
-Non racconterei mai al mondo le sensazioni che noi facciamo- cominciò Federico, lei annuì, in silenzio, lo osservava senza rendersene conto. Quella lampante distruzione nel petto, quella fitta crepa che li attraversava -Mi abbandoneresti ugualmente se fossi pronto a sistemare le cose?-
-Sei fumo di seconda mano, Federico- lo riprese, si avvicinò, ma quella volta lui non indietreggiò, aspettò che le loro fronti si incontrassero -Ma non capisco cosa tu mi faccia. Sei come una necessità incombente.-
-Io penso di star per lasciar andare l'ultimo pezzo del mio cuore, non bruciarlo.- finì Blake, lui intrecciò la sua mano con quella di Blake, sorridendo sulle sue labbra, felice, era felice.
-Ogni pezzo di te,- parlò Federico, finalmente -si adatta perfettamente a me.- giocó con una ciocca dei suoi capelli -Seguimi, ti prego seguimi.-
Si ritrovó ad annuire, erano uno le scelte dell'altra e viceversa.
-Cos'é questo?- domandò la ragazza, era vuota quel giorno, aveva così tante domande, da porle senza un senso, mentre camminavano verso la porta, lasciando pezzi di sbagli sparsi per la stanza. -Cos'é questa cosa che viviamo?-
-Credo sia un amore senza casa.-
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