Prologo


Prologo


«Non ti è rimasto nient'altro che un nome, il resto è andato perso nel buio di quel burrone. Ti hanno tradito, rubato tutto e voltato le spalle. Ti hanno dimenticato. È arrivato il momento di reclamare ciò che ti è stato tolto. Non è così, Randall?»


La collina verde, appena fuori villa Ascot, emanava un buon odore d'erba appena tagliata ad ogni nuova folata di vento. I primi giorni d'estate vantavano, nel cielo blu di Stansbury, l'ardere piacevole della stella più grande del sistema solare, il sole e, da almeno due giorni, la campagna inglese non minacciava pioggia e vento.

Randall si senti di dire, ad alta voce, seduto per terra e con i piedi immersi nel piccolo laghetto vicino al mulino, che finalmente era arrivata l'estate. Non era solo il sole ad aver annunciato il lieto evento, ma anche la fine della scuola, i compiti a casa e le vacanze che i suoi avevano già organizzato e che, per un po', l'avrebbero tenuto lontano dai suoi amici – e da Angela, soprattutto.

Lei era seduta accanto a lui. I capelli biondi a caschetto, così chiari che quasi sembravano bianchi, le coprivano continuamente il viso per colpa del vento. Non faceva che spostarsi ciocche disordinate dietro le orecchie, con una piccola ombra di fastidio che palesava arricciando il naso. Era adorabile.

Randall rise, dimenticandosi di farlo a bassa voce ma, dopotutto, non era mai stato bravo a tenersi dentro le emozioni.

Angela lo fulminò con lo sguardo, ma si vedeva che non era davvero arrabbiata con lui.

«Eddai, non prendermi in giro! Vorrei vedere te, se avessi i capelli lunghi», lo prese in giro, dandogli un piccolo schiaffo sul braccio che fece ridere di più Randall.

«Di certo sarei impeccabile come sempre! E tu sei bellissima anche così.» Tentò di arruffianarsi la ragazzina, e parve riuscirci, perché lei abbassò lo sguardo e nascose un sorriso imbarazzato dietro una mano.

«Non mi comprerai così facilmente», mormorò lei.

L'ho già fatto! «Nah, lo so. Mi impegnerò di più, allora», ammiccò, poi alzò un braccio quando, spostando la traiettoria del suo sguardo oltre la spalla di Angela, vide Alphonse Dalston scendere dalla collina, dal sentiero che costeggiava villa Ascot. Robusto com'era fece un po' di fatica a tenersi in equilibrio, rischiando più volte di inciampare nei propri piedi ma, quando finalmente li raggiunse, alzò anche lui una mano, con quella solita aria menefreghista che però nascondeva un grande affetto.

«Al, alla buon'ora.»

«Non è colpa mia se non ci hai dato un orario, Mascotte», lo apostrofò Dalston, senza guardarlo, mentre si sedeva a gambe incrociate sull'erba, accanto a Angela.

Randall represse l'istinto di dirgli, per la milionesima volta, di smetterla con quel nomignolo – storpiatura del suo cognome, che faceva già ridere così, senza che Al infierisse ulteriormente, ma lasciò stare. E lo fece solo perché era l'ultimo giorno in cui li avrebbe visti prima di partire tre mesi per Brighton, dove la sua famiglia aveva una piccola casetta per le vacanze.

Si era ripromesso che, una volta tornato, avrebbe rivoluzionato la sua vita. Quell'anno avrebbe iniziato la scuola secondaria, e di fronte a lui si estendeva un futuro radioso. Era già abbastanza sicuro di ciò che avrebbe fatto da grande; un sogno che sembrava sempre più vicino, sebbene il tempo pareva scorrere con una lentezza snervante.

L'archeologo, ecco cosa avrebbe fatto e sarebbe stato famoso, ebbene sì e avrebbe fatto la scoperta del secolo, se lo sentiva; come era stato per Heinrich Schliemann con il Tesoro di Priamo o con la maschera di Agamennone o come era stato per Donald Rutlage con le sue scoperte a proposito della civiltà Aslant. Misteri ancora racchiusi nell'ombra su cui, Randall ne era certo, lui avrebbe fatto di certo luce, lasciando poi che il mondo dell'archeologia ne riconoscesse i meriti, rendendolo famoso e senza tempo.

Questo voleva, Randall: l'immortalità del proprio ricordo e compiere un'impresa che nessuno avrebbe potuto replicare.

Alzò la testa verso il cielo, con i palmi delle mani premuti contro l'erba e un sorriso raggiante a illuminargli il viso. I capelli rossi ondeggiarono al vento, e Randall chiude gli occhi, assaporando per qualche secondo la brezza estiva che gli accarezzava il viso.

«Signorino Randall, ho portato del tè freddo.»

La voce di Erik lo destò e, voltandosi di tre quarti verso il maggiordomo, gli rivolse un cenno di assenso e quello porse i bicchieri pieni della bevanda e del ghiaccio agli amici, prima che a lui.

Poi Erik fece per andare via, ma Randall lo fermò.

«Ma dove vai, scusa? Non ti siedi con noi? E dai, una pausa dal lavoro te la puoi anche prendere, no?»

Erik parve arrossire, di fronte alla sua spontaneità e, lanciandosi uno sguardo con Angela – che annuì, e con Alphonse che non parve avere obiezioni, deglutì un groppo d'aria in gola.

«Non penso che suo padre ne sarebbe contento, signorino Randall. Devo tornare alle mie mansioni, ho alcuni lavori che devo finire e n-»

«Li finiremo insieme più tardi, e parlerò io con mio padre! Lo sai che, con te, chiude sempre un occhio. Gli dirò che ci siamo concessi un'oretta d'aria. Non penso se la prenderà.»

«Ma... domani partiamo e io dovr-»

«Erik, smettila di preoccuparti! Ti aiuterò io, e dirò a mio padre che ti ho costretto, così non avrai alcun problema! Fidati di me e rilassati, sei tra amici ed è giusto che tu spenda questo tempo divertendoti, okay?»

Il ragazzo esitò qualche secondo poi, ridacchiando, alzò le spalle. «Va bene, mi fido di lei», rispose solo e si sedette accanto a lui, teso come una corda di violino, ma Randall fu felice di quel passo avanti.

Erik Ledore era il figlio della loro domestica, lasciata sola dal marito non appena il ragazzo era venuto al mondo e rimasta senza una casa e senza un futuro. I signori Ascot, i genitori di Randall, erano stati inamovibili quando le avevano proposto di trasferirsi con il bambino a casa loro, e di non preoccuparsi di nulla. Il signor Ascot avrebbe provveduto a tutte le spese per crescerlo, e lei avrebbe solo dovuto continuare a lavorare lì.

Erik, appena cresciuto, aveva ricevuto una buona educazione e, all'età di dieci anni, la madre aveva deciso di iniziarlo alla carriera da domestico, così che avrebbe potuto anche lui contribuire alle mansioni in casa, ringraziando allo stesso tempo i signori Ascot per tutto quello che stavano facendo per loro.

Erano cresciuti insieme, lui e Randall, e quest'ultimo lo considerava alla stregua di un vero e proprio fratello. Avevano condiviso molto tempo insieme, da quello dei compiti di scuola a quello dei giochi, fino alle punizioni ricevute per le marachelle compiute – di cui Randall si prendeva sempre tutte le colpe, per non compromettere la condotta di Erik. E comunque, pensò reprimendo un sorriso, era in effetti sempre colpa sua, che trascinava Erik nelle sue avventure, dove si fingeva un archeologo affermato.

Così erano lì, seduti sulla riva del fiume, a solo undici anni; tutti pieni di sogni, speranze, affetto e paure.

Erano tutti lì, vicini, e sembrava assurdo solo pensare che in un futuro avrebbero potuto perdersi e non ritrovarsi mai più.

Li strinse mentalmente in un abbraccio, sperando di trovare presto il coraggio di darne loro uno vero. Caldo.

Quello che avrebbe dato alla sua famiglia. Loro erano la sua famiglia, in quel piccolo paesino sperduto chiamato Stansbury.

«Qualunque cosa accada, noi resteremo sempre uniti, non è così?»



L'uomo rise, tendendogli la mano. «Non è così, Randall?»


Fine Prologo


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