Epilogo

Epilogo

Quando si guardò allo specchio, quella mattina, fece una fatica immane a riconoscersi. Appoggiò i palmi delle mani sul lavandino e, sospirando, si dedicò una lunghissima occhiata e, per quanto folle, quei diciotto anni, Randall Ascot, non se li sentiva addosso nemmeno un po'.

Dopo aver ricevuto quella lettera, qualche giorno prima, aveva l'impressione che qualcuno avesse premuto di nuovo il tasto play di un film, mandando avanti la sua vita – anzi, riavviandola da dove l'aveva lasciata, esattamente nell'esatto istante in cui era caduto in quel burrone e dove la sua nuova esistenza poi era cominciata.

Se non avesse perso la memoria, probabilmente ora non si sarebbe trovato lì, a chiedersi chi fosse davvero e come uno sconosciuto potesse sapere tutte quelle cose sul suo conto e su ciò che, durante quei diciotto anni, era successo.

Non poteva ancora crederci e, malgrado si sentisse meglio, le cose che aveva letto in quella lettera l'avevano distrutto. Ogni riga era stata una pugnalata al cuore, che apriva la mente a quei ricordi ormai lontani, a quelle persone che non aveva più visto e che, a quanto pareva, non si erano nemmeno premurate di cercarlo.

Aveva avuto la febbre alta, non appena aveva finito di leggerla e, il signor Firth, l'uomo che lo aveva trovato nel fiume anni prima e che si era preso cura di lui, lo aveva fatto anche in quel frangente, rispettando la sua privacy e il fatto che non volesse rivelargli il contenuto della lettera. Lo avrebbe fatto, in futuro, forse una volta scoperta la verità e incontrato il firmatario della missiva, un certo J. Descole.

«Se sei interessato a scoprire di più e tornare da loro riappropriandoti di ciò che ti appartiene, ci vediamo questa domenica nella vecchia chiesa abbandonata di Craggy Dale. Mi troverai lì ad aspettarti.
Spero che deciderai di venire, Randall. Meriti più di chiunque altro di conoscere la verità.

J. Descole»

Per quanto Randall fosse scettico nei riguardi di quelle parole e avesse quasi paura di andare a quell'appuntamento, infine decise che quell'uomo, quel Descole, sapeva troppe cose sul suo conto, troppe verità che gli erano riaffiorate alla mente e che, alla fine, gli avevano reso possibile ricordare ogni cosa. Tutto ciò che in diciotto anni non aveva mai nemmeno creduto più possibile, ad un certo punto. Era tornato alla luce con solo il ricordo del proprio nome e basta. Il resto era rimasto sopito dentro di lui, sotto un cumulo di macerie che, alla fine, si erano corrose e avevano permesso a quei ricordi di riemergere. La sua vita era stata quella. Con Angela, con Hershel ma soprattutto con Erik che... come aveva potuto? Come accidenti aveva potuto fargli un torto simile, anche avesse pensato che fosse morto?

Sposare Angela, usare l'oro degli Aslant che lui aveva trovato per costruire un'intera città, traendo profitto dal turismo, cancellando Stansbury dalla mente delle persone, riducendola a un minuscolo puntino su una mappa. Gli aveva rubato tutto, e come aveva potuto Angela andare avanti senza di lui, diventare complice di quel piano atto solo al guadagno?

E Hershel? Lui, che lo aveva accompagnato in quell'impresa, come aveva potuto tradirlo così, sparire a Londra e rubargli persino il sogno di diventare archeologo, diventandolo al posto suo?

Si sentiva come se la vita stessa, i suoi sogni, le sue ambizioni e il suo cuore fosse stato rubato da ognuno di loro e trasformato in qualcosa di artefatto, di artificiale. Come se lui avesse posto le basi per qualcosa di epico, e gli altri vi avessero speculato sopra.

Fu quella rabbia, infine, a convincerlo. Avvertì il signor Firth che si sarebbe assentato dalle sua mansioni di agricoltore, quel giorno – perché questo era diventato: un contadino e, finché non gli era tornata la memoria, era stato il lavoro più gratificante di sempre. Era sempre circondato da persone che gli volevano bene, che lo supportavano e ora... ora sentiva che quei diciotto anni pesavano sulle spalle e tutto quel tempo che avrebbe potuto passare con in mano il segreto degli Aslant, una moglie che amava accanto e un futuro come lo aveva sempre immaginato, aveva appena perso di significato.

Uscì di casa infilando una giacca grigio topo e un paio di scarpe da lavoro tutte consumate sotto la pianta dei piedi; cercò di sistemare la massa di capelli rossi che gli erano cresciuti e che, a differenza di quando era appena un ragazzo, non aveva più curato. Si avviò così verso la chiesa sconsacrata di Craggy Dale, la cittadina che lo aveva ospitato fino a quel momento e, aprendo la porta, questa scricchiolò in modo quasi macabro.

Non appena mise piede dentro alla struttura, rabbrividì. Il buio la faceva da padrone, eccetto per qualche candela accesa qua e là che rendeva l'ambiente ancora un po' oscuro e inquietante. A chiudere quel quadretto c'era il suono di un organo distorto e quando direzionò il viso verso quella musica, si accorso che, seduto alla strumento, c'era una figura.

Una figura che, un attimo dopo, cominciò a ridere senza smettere di suonare.

«Sapevo che saresti venuto, Randall. Ne ero certo.»

«Chi sei?», chiese, immediatamente, fermandosi al centro della navata che lo separava di qualche metro dall'uomo.

«La domanda giusta sarebbe chi sei tu, ma è chiaro che qui, a conoscerti meglio di chiunque altro, sia paradossalmente io», disse quello, poi la musica cessò e si alzò. Quando si voltò si rivelò essere un'enigmatica figura, con un cappello scuro, un mascherina bianca sugli occhi e un mantello che copriva un completo elegante con le frange nelle maniche. «Io sono Jean Descole, ovviamente non è il mio vero nome ma, per alcune ragioni che non sto a spiegarti, ho necessità di utilizzarne uno falso.»

«Immagino che invece mi spetti di diritto chiederti perché, qualcuno di cui non posso vedere nemmeno il viso, sappia così tanto di me.»

«Saprai tutto a tempo debito, Ascot.» Descole si fece serio, perdendo per un attimo quella verve e quell'ironia che lo avevano contraddistinto sin dal primo scambio di battute che si erano scambiati. «Se sono qui è perché io e te non siamo poi così diversi. Qualcuno ci ha portato via tutto quello che avevamo, usandoci. Qualcuno che credevamo non fosse capace di fare qualcosa di simile e, in qualche modo, le nostre strade si sono incrociate.»

«Te lo ripeterò ancora una volta: come fai a sapere chi sono e da dove vengo e quello che è successo durante questi diciotto anni», ripeté Randall, duro, stringendo i pugni nel tentativo di controllare il tremore che lo stava sopraffacendo.

Descole lo fissò silenzioso per qualche secondo, poi sospirò stancamente e, sedendosi di nuovo sullo sgabello e accavallando le gambe, si preparò a parlare.

«Il Giardino Dorato, la Città dell'Armonia e il Sotterraneo Infinito di Akubadain. Quest'ultimo, purtroppo, mai rinvenuto... o forse a te dice qualcosa, questo nome?»

«A-Akubadain? Sono le rovine che ho trovato dopo aver letto la mappa sul muro di Norwell. Quelle che e io e Hershel...»

«Ah, Layton!», esclamò Descole, improvvisamente, piuttosto divertito nel sentire il nome del suo vecchio amico. «È assurdo che quel ficcanaso sia sempre in mezzo ai piedi, persino quando si parla del passato!»

«Che vuoi dire? Spiegati, smettila di essere così enigmatico!»

«Layton è un tasto che andremo a toccare più avanti; è il punto fondamentale dell'intera vicenda ma, per ora, mettiamolo da parte. Parliamo piuttosto di come tu abbia trovato le rovine di Akubadain e di come tu ti sia appropriato di questa.» Descole tirò fuori da sotto al mantello un oggetto che gli fece male al cuore. Randall guardò quella cosa provando sentimenti contrastanti: una bramosia inspiegabile e un odio quasi incontrollato.

Un oggetto – anzi, l'oggetto che aveva dato iniziato a tutto, il motivo per il quale si trovava lì, in quella chiesa, a cercare di capire chi fosse diventato.

«La Maschera del Caos», mormorò.

«Ebbene sì. Erik Ledore ti ha rubato tutto, persino la Maschera. Ha preso le tue ricerche, le ha fatte sue e ha fondato una città intera sulle rovine di Akubadain, sempre più ghiotto di denaro. Io l'ho presa in prestito e, beh, l'ho riportata al legittimo proprietario. L'ho rubata, pensa un po', nello studio della sua villa privata, quella che divide con sua moglie Angela. Questo nome ti dice niente? Angela Ledore, una persona così amabile», cantilenò Descole, poggiando una mano sul ginocchio e guardando in alto, con un sorriso beffardo. Poi tornò a incrociare gli occhi di Randall, spalancati su tutte quelle verità che gli stava rivelando, incapace di assimilarle con razionalità.

Gli era sempre mancato, quel pregio. Qualcosa che in Hershel aveva sempre invidiato e ammirato.

«Angela non può aver...»

«L'ha sposato, questo è quanto. Fa la ricca signora a Montedore, la città che il tuo caro vecchio amico Erik ha costruito con la tua fortuna. Un posto davvero notevole, delizioso. Ha buon gusto e devo dire ci sa davvero fare con gli affari. È riuscito a non sperperare la tua fortuna inutilmente. Ha creato un villaggio intero, non è pazzesco?»

«Stai... stai mentendo. Erik non avrebbe mai fatto una cosa del genere a me e alla mia famiglia! Lui è sempre stato fedele e...»

«I cani sono fedeli, Ascot. Non le persone. Le persone ti deludono, prendono la palla al balzo non appena possono. L'occasione fa l'uomo ladro. Dopotutto non hai fatto lo stesso anche tu, con una Maschera che apparteneva agli Aslant e non a te?», ironizzò Descole.

«Non è la stessa cosa! Gli Aslant sono un'antica civiltà, qui stiamo parlando di qualcuno che è cresciuto con me, che ha coperto tutte le volte in cui sono scappato di casa per cercare tesori. Erik era un fratello per me, non posso credere ch-»

«Puoi crederci o no, ma è andata così. Quando sono iniziate le ricerche per ritrovarti, hanno trovato il tesoro e a Erik è stata riconosciuta la scoperta. Hanno smesso di cercarti, a nessuno è importato niente di te per diciotto anni. Sono andati tutti avanti, si sono dimenticati di te. Layton se n'è andato a Londra non appena le cose hanno iniziato a cambiare, voltandoti le spalle. Ti ha dato per morto e ti ha dimenticato. Mi si spezza il cuore all'idea che fosse il tuo migliore amico, quel farabutto.» Descole parve parlare di Hershel con un certo disprezzo, come se avesse con lui un conto in sospeso o qualcosa del genere ma, a quel punto, non era questo che Randall voleva sapere. C'erano milioni di domande che gli frullavano per la testa ma una... una sola era quella che gli uscì dalla bocca, quasi in modo esasperatamente disperato.

«Cosa devo fare? Perché sei qui? Cosa vuoi che faccia?»

Descole si alzò in piedi, dopo una lunghissima pausa che dedicò a stirare con una mano ogni piega del suo mantello. Sorrise ancora, con quell'ombra di cattiveria che pareva celare una grande rabbia repressa.

«La fortuna vuole che io sia venuto a conoscenza della tua storia mentre ero alla ricerca della Maschera dell'Ordine.»

«La Maschera dell'Ordine?»

«Mi sorprendi. Pensavo sapessi di cosa stessi parlando. Rutlage, dopotutto, ne ha parlato spesso.»

«So di cosa parli, ma non c'è mai stata una Maschera dell'Ordine. Quando sono entrato nelle rovine di Akubadain c'era solo quella del Caos.»

«È evidente che tu non abbia cercato abbastanza a fondo», rise l'uomo, poi si avvicinò di qualche passo e gli mostrò la maschera, facendogli cenno di prenderla. «La Maschera dell'Ordine e la Maschera del Caos sono la chiave per trovare il Sotterraneo Infinito e sono certo che Erik Ledore se ne sia appropriato, che l'abbia trovata lui tra i tesori degli Aslant su cui tu non hai messo le mani. Io ti sto dando la possibilità di vendicarti di ciò che ti è stato fatto se mi aiuti a trovarla.»

«Io non voglio... non voglio vendicarmi di nessuno», rispose Randall, sebbene dentro di sé, dopo quei racconti, sentisse del rancore che pian piano si stava amplificando dentro la cassa toracica, e gli faceva un male cane. Persino la testa gli doleva a tal punto che dovette premersi due dita sulla fronte.

«No? E cosa vuoi fare? Restare qui, a fare il contadino, mentre là fuori quelli che chiamavi amici ti hanno rubato tutto, persino la vita? Non voglio il tuo tesoro, non voglio quella dannata città, voglio solo la Maschera dell'Ordine e risolvere l'enigma che mi darà accesso al Sotterraneo Infinito di Akubadain. Tu avrai indietro ciò che volevi, io avrò ciò che voglio. Tutto qui», concluse Descole e parve aver cambiato tono di voce. Pareva impaziente e non più ironico e fintamente gioviale come era parso fino a quel momento. «Ho perso una famiglia intera, per colpa degli Aslant. Sto cercando di vendicarmi di ciò che mi hanno portato via, esattamente come tu vorresti riappropriarti di ciò che è tuo.»

«Cosa vuoi che faccia, Descole? Cosa vuoi farmi fare perché tutto questo sia possibile?»

Descole parve rizzarsi più dritto con la schiena di quanto già non fosse e, tornando a sorridere, si posò un dito sul mento, in una posa pensierosa.

«Infilerai la Maschera e compirai qualche, come dire, miracolo. Dopotutto Montedore è la città dei miracolo, o almeno è conosciuta così. Vestirai i panni del Gentiluomo Mascherato e, con qualche trucchetto di mia invenzione, cercherai di portare un po' di scompiglio in città, in modo che io, nel frattempo, possa cercare indisturbato la Maschera dell'Ordine. Cercherai di mettere zizzania tra Erik e Dalston – ah, non te l'ho detto, lui è diventato il suo rivale in affari aprendo qualche Hotel di lusso a Montedore. Non era forse il suo sogno, quando era bambino? Bizzarro che solo tu sia rimasto con un pugno di mosche tra le mani, in questi diciotto anni!»

«Dalston? Mio dio... anche lui è implicato in questo... schifo?», non seppe perché ma, sentire il nome di Al gli fece salire il sangue al cervello. Quel... fallito. Quel traditore. Nemmeno lui aveva fatto niente per cercarlo e aveva pensato ad arricchirsi sul suo tesoro.

«Ahah, esatto! Tenterai di fare in modo che si accusino a vicenda di essere loro il Gentiluomo Mascherato mentre noi, indisturbati, agiremo. Ti assicuro che, alla fine di tutto, verrà il tuo turno di mostrarti a loro e smascherarli.»

«Ho... ho capito. Temo di non avere scelta. Non so se riuscirei a vivere la mia vita di ora normalmente, al pensiero che in verità avrei potuto essere tutt'altra cosa. Avrei potuto essere e avere tutto ciò che desideravo, se solo non avessero deciso di dimenticarsi di me!», esclamò, duro e prese tra le mani la Maschera, conscio di provare sentimenti ben diversi da quelli che aveva sentito quando l'aveva trovata diciotto anni prima.

Descole rise forte, poi gli posò una mano sulla spalla.

«Non ti è rimasto nient'altro che un nome e un volto, il resto è andato perso nel buio infinito di quel burrone. Ti hanno tradito, rubato tutto e voltato le spalle, ed è arrivato il momento di reclamare ciò che ti è stato tolto e di riappropriartene. Non è così, Randall?»

Randall fissò la maschera per qualche secondo, accigliato, poi il passato gli passò davanti così velocemente che quasi gli venne un capogiro.

Annuì. «Sì, è così.»

Sopra al cornicione di quel palazzo, Randall osservava le persone, piccole come formiche, divertirsi e scherzare, ridere, rilassarsi su tutto ciò che gli apparteneva. Si sentì come un Re solitario, abbandonato nel suo palazzo con addosso solo la sua corona e nient'altro. Nel suo caso la Maschera del Caos. La indossò e, come se fosse magica per davvero, si sentì cambiare. Sentì la rabbia tramutarsi in calma, il dolore diventare follia.

Vestito completamente di bianco, con solo un fazzoletto viola infilato nel colletto a spezzare quel candore che non si addiceva al suo cuore, prese un lungo respiro. Non era teso, era eccitato. Era impaziente.

Montedore, sotto di sé, ardeva di cuori caldi e lui, lo giurò a se stesso, li avrebbe spenti tutti quanti. Tutti, nessuno escluso.

Nemmeno quello di Angela.

«La ridurrò in polvere, questa maledetta città», mormorò ridendo, poi guardò il cielo. «È ora di entrare in scena. Sei pronta, Montedore?»

Fine

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