Capitolo III
«Sei strano.» Randall alzò un sopracciglio, ancora gli occhi fissi sul suo panino con la frittata di cui, stranamente, non aveva ancora assaggiato nemmeno un pezzetto – lui, la cui fame e ferocia nell'addentare il cibo erano spesso paragonate a quelli di una bestia, da parte di Angela.
Era stata proprio lei a pronunciare quelle parole, seduta di fronte a lui, alla mensa della scuola.
Randall alzò gli occhi sui suoi e, ben sapendo che era pessimo a mentire, specie quando si rivolgeva a lei, tentò comunque di sorridere e negare tutto.
«Io sono sempre strano. Non dici sempre che sono stravagante, tutto matto e che ti piaccio proprio per questo?», la punzecchiò.
Angela sbuffò una risata e gli diede un pugno sul braccio. «Sei strano perché oggi non sei niente di tutto questo. Sei silenzioso e stranamente irrequieto.»
«Non è irrequieto. Prima, a lezione, ha fatto un sacco di domande su un muro e una maschera. Il professore l'ha dovuto cacciare dalla classe dicendogli che avrebbe dovuto correre via per la pausa pranzo piuttosto che restare lì a fare domande sciocche», intervenne Hershel che, invece, aveva già concluso il suo pasto e stava riponendo le sue cose nella borsa.
«Be', è lui che dovrebbe insegnare e dovrebbe essere felice che un suo alunno lo riempia di domande perché vuole conoscere. Non è forse questo il loro obiettivo?»
«Non penso sia questo il punto, Randall...», sospirò Angela.
«Il punto è che non sapeva come rispondere e dunque mi ha cacciato via, con la scusa del sei giovane, non dovresti interessarti a certe cose. Io me ne interesso eccome! Sto basando la mia vita sul sapere.»
«No, tu stai basando la tua vita sul sapere che interessa a te, non su quello assoluto. È ben diverso!», intervenne Hershel, ridendo e guadagnandosi una linguaccia da parte sua. «A parte gli scherzi, è vero quello che mi hai detto?»
Randall saltò sulla sedia e, allarmato, gli fece cenno di non proseguire con quella conversazione, perché non avrebbe voluto che Angela sapesse. Non in quel momento ma, ovviamente, lei aveva già sentito tutto e quasi riuscì a vedere due antenne alzarsi sulla sua testa, in attesa di captare qualche informazione in più su ciò che Hershel aveva appena detto.
«Di che parli, Hershel?», domandò infatti all'amico, e Randall avrebbe voluto sprofondare nel terreno pur di non rispondere a quella domanda.
«Layton, che problemi hai? Era una sorpresa!»
«Cosa? Mi hai detto di averlo già detto ad Angela!»
«Era solo per farti sentire meno privilegiato, non pensavo che te ne saresti uscito così qui a mensa, davanti a tutti!», si lamentò Randall, poi incrociò le braccia sul tavolo e vi sprofondò la testa all'interno; quando ne riemerse trovò Angela a fissarlo confusa, in attesa di una risposta. «Avrei voluto dirtelo di fronte ad un cielo stellato, ecco perché non te l'ho detto.»
«Randall, per piacere, lo sappiamo tutti e due che non sei tipo da certe smancerie e nemmeno io lo sono... dunque, posso sapere di cosa parlate o devo spillarvi le parole, una per una, a suon di minacce?» Fu abbastanza concisa da convincerlo. Randall sbuffò, riappropriandosi di una posizione dignitosa sulla sedia, poi le fece cenno di avvicinarsi e lei obbedì.
«Stanotte ho trovato la Maschera del Caos.»
«Cosa!? La Maschera del Ca-?», quasi urlò lei e lui si precipitò a tapparle la bocca con una mano, prima che potesse finire quella frase – come se qualcuno altro, a parte lui, fosse interessato a quel cimelio e dunque dovesse rimanere un segreto di stato. Oltretutto lo ritenevano quasi tutti un pazzo mitomane, e in pochi lo avevano preso davvero sul serio. La maggior parte della gente lo considerava un idiota montato e, forse, un po' lo era – se ne rendeva conto, ma non gli importava poi così tanto – dunque non vi era pericolo che potessero esserci orecchie indiscrete pronte a rubargli le informazioni migliori.
In più la maschera era ben sorvegliata a casa sua, da Erik e lui, del suo maggiordomo, si fidava ciecamente.
«Lo sapevo! Sapevo che lo avresti urlato ai quattro venti!»
«È assurdo, come può essere vero? Fino a ieri ti lamentavi del fatto che non riuscissi a trovare l'entrata delle rovine. Cosa è cambiato?»
«È cambiato che con Erik abbiamo trovato un indizio sulla mappa di Stansbury. Ma non vi racconterò niente di più. Stasera venite da me e vi mostrerò tutto quanto e poi, se non ci crederete ancora, vi porterò al muro di Norwell. Sarà un bel giro! Fino a quel momento vi chiedo di tenere la bocca chiusa a riguardo perché, lo so che a voi sembra poco, ma il sottoscritto ha appena fatto la scoperta del secolo!»
«Randall, è tutto molto bello ma, lo sai, a me l'archeologia non interessa», disse Hershel, timidamente, mentre recuperava le sue cose e Angela lo imitava, alzandosi per prima dal tavolo.
«Credimi, dopo stasera cambierai idea. Te lo garantisco, Hershel», lo rassicurò, facendogli l'occhiolino e, come al solito, sparì di corsa fuori dalla mensa per raggiungere casa.
ᚱ
Non aveva chiuso occhio dal giorno prima, eppure non sentiva il peso della stanchezza sulle spalle. Aveva addosso talmente tanta adrenalina, dopo aver rinvenuto la Maschera, che probabilmente non avrebbe più dormito per una settimana intera.
Era riuscito a risolvere l'enigma della porta del muro di Norwell, mettendoci meno di quanto avrebbe creduto. La pietra si era alzata, rivelando l'entrata per le rovine di Akubadain e, non appena aveva messo piede nel primo corridoio, alcune lanterne si erano accese, come per magia. Doveva trattarsi di uno dei sofisticati meccanismi che gli Aslant avevano creato; qualcosa che da loro si sarebbe aspettato ma che, vederlo con i suoi occhi, lo stupì.
Si era ritrovato di fronte a un vero e proprio spazio costruito nella montagna, fatto di stanze e trappole che aveva a volte superato con facilità e altre ci aveva quasi rimesso le penne. Si chiese se non fosse stato tutto per bravura o solo per mera fortuna. La sua solita, sfacciata fortuna, come gli soleva ricordare spesso Hershel, quando lo batteva a scherma.
Si era addentrato sempre più in fondo, fino all'arrivo in una stanza totalmente diversa dalle altre, con un ultimo, straordinario enigma da risolvere che, pazientemente, risolse. Un grosso cilindro si era alzato dal pavimento di pietra: sulla sua superficie vi era adagiata la Maschera del Caos e, impaurito all'idea di prenderla e ritrovarsi sotterrato dalle macerie per colpa di qualche altro trucchetto degli Aslant, rimase più di un'ora a fissarla, a chiedersi se fosse davvero il caso di rischiare.
«Al diavolo! L'ho cercata per così tanto!», si era detto, ad alta voce e l'aveva presa tra le mani. Era rimasto qualche secondo fermo a fissarla, in attesa che qualcosa – qualunque cosa – succedesse dopo quel fatto ma no, tutto restò immutato e, quasi come se qualcuno gli avesse strappato via un peso enorme dal cuore, Randall si era accasciato a terra stringendo la Maschera al petto e aveva pianto.
Era una vita che non gli succedeva di farlo, e dopo tanto tempo lo aveva fatto per pura e mera felicità.
Non aveva mai raggiunto un traguardo così importante; non era mai uscito nemmeno da Stansbury; aveva degli ottimi amici, una ragazza che gli voleva bene, era vero, ma aveva anche una vita piatta a cui avrebbe voluto da sempre dare un senso. Gli era sembrato di averglielo appena dato, e era rimasto così fino all'alba, prima di tornare indietro, risalire le rovine, tornare al muro di Norwell e attraversare di nuovo quel cancello, dove qualche ora prima era passato un Randall diverso da quello che si sentiva di essere ora.
ᚱ
Ci volle ben più che mostrare la Maschera del Caos e il muro di Norwell per convincere Hershel e Angela che era riuscito davvero in quell'impresa e, sebbene Layton sembrasse aver accettato la cosa e lo avesse fatto sentire abbastanza soddisfatto di quel risultato, Angela non era parsa dello stesso avviso.
Erano di fronte all'entrata delle rovine di Akubadain, ormai di nuovo chiuse dopo che Randall era tornato dal suo viaggio e c'era ancora una cosa che gli frullava per la testa, perché quel muro che avevano di fronte, di enigmi ne nascondeva ben due.
«Che vuol dire che non è ancora finita? Hai detto che la Maschera era l'obiettivo. L'hai trovata, e ora cosa ci facciamo qui davanti?», domandò Angela, e non servì a nulla il suo tentativo di nascondere il tremolio nella voce.
«C'è ancora qualcosa che non ho ben chiaro, ma ho idea che insieme potremmo capirci qualcosa. Mi serve il vostro aiuto, perché sei occhi sono meglio di due, no?»
«Randall, avevi promesso che...»
«Lo so, so cosa ho promesso, ma ti giuro... te lo giuro, Angela, non c'è niente di pericoloso in quello che voglio fare! La parte più difficile è stata recuperare la maschera; ora che ce l'ho, è come se avessi la chiave che mi può aprire le porte all'ultimo tesoro degli Aslant! Voglio conoscere tutti i segreti di quella civiltà, lo sai meglio di chiunque altro, dunque...»
«Dunque cosa? Dovrei lasciarti andare? O dovrei aspettarmi un'altra promessa e poi tu sgattaiolerai comunque via quando io non potrò vedere?»
«No, certo che no! Non farei mai una cosa simile, lo sai?», mentì.
«Stanotte lo hai fatto! Non hai detto nulla nemmeno a Hershel! Potevi rimanere ferito, o peggio, potevi morire! Perché non pensi mai agli altri, quando si tratta di questo?»
Randall ringraziò la sua pazienza, quella che non andava mai d'accordo con la sua impulsività, perché se avesse lasciato andare via le parole dalla bocca in quel momento, l'avrebbe accusata di essere lei, l'egoista, ma per fortuna rimase solo zitto a guardarla.
No, non pensava che lei lo fosse, e sapeva bene perché Angela non voleva che si avventurasse ancora alla ricerca di tesori, dopo quello che era successo a suo fratello. Le voleva bene, ed era convinto che stesse iniziando a provare qualcosa di molto più forte per lei, ma niente e proprio niente, era in grado di schiacciare l'amore che provava per l'avventura e le sue incredibili scoperte. Era stufo di vivere lì, di lasciare che le lancette della sua vita venissero scandite dalla noia totale e ora che aveva tra le mani la Maschera, non aveva alcuna intenzione di fermarsi.
Aveva appena fatto notare loro che, sul muro di Norwell, pareva esserci una mappa che conduceva da qualche parte, proprio fuori da Stansbury, appena dopo il deserto. Qualcosa di cui non era certo, ma che lo elettrizzava enormemente. Persino Hershel gli era parso interessato, in quel preciso istante, alle sue chiacchiere. Finalmente si sentiva di star parlando con un interlocutore che lo stava ascoltando, e Randall, a parte Erik, non aveva mai avuto quella sensazione con nessun altro.
Solo Angela era il suo... no, non poteva pensare a quella parola, non era quella la parola; non poteva dire che Angela era un ostacolo, ma era esattamente la prima definizione che gli era venuta in mente.
Lei gli rubò la maschera dalle mani e scappò via, e lui la rincorse, affiancato da Hershel, senza pensarci nemmeno un momento, trovandola poi seduta sotto un albero a piangere, con la maschera stretta al petto.
Quell'oggetto, che a lui aveva causato lacrime di gioia, per lei erano invece di puro dolore. Eppure quella fuga non gli era nemmeno parsa un modo per fermarlo, ma quasi una completa perdita delle speranze.
Angela sapeva com'era fatto, lo aveva accettato, ma era dura riuscire a fingere che la cosa non le facesse male; Randall lo sapeva e sapeva anche che, quel suo bisogno di mettersi sempre a rischio, li avrebbe sempre divisi.
Si sedette accanto a lei, in silenzio, mentre Hershel restava in piedi dietro di loro e non diceva niente per rispetto.
Poi fu lei a rompere quella quiete, asciugandosi le lacrime e poggiando la testa sulla sua spalla.
«Non sono nessuno per infrangere il tuo sogno, però tu cerca di non rovinare quello che abbiamo e torna. Per favore, Randall», lo supplicò, e lui le baciò la testa.
«Te lo prometto», mentì, un'altra volta.
ᚱ
«Mi fa sempre male quando non riesco a essere sul suo stesso binario», sospirò, più tardi, quando lui e Hershel la accompagnarono a casa e tornarono indietro insieme, mentre i grilli di quella serata estiva cantavano le loro canzoni.
«È impossibile essere sul tuo stesso binario, Randall. E anche lo fosse tu vai sempre così a mille che rimarremmo comunque tutti indietro.» Hershel rise, quando lui si voltò a guardarlo senza ben sapere se quella fosse una critica o un complimento. «Questo per dire che semplicemente sei sopra a tutti noi e nulla ti può fermare. Ho grande stima di te e invidio molto il tuo modo diretto di affrontare le cose, senza paura e senza rimpianti. Sono orgoglioso di essere tuo amico, ma a volte ho paura di non essere abbastanza per te.»
Quell'ammissione lo spiazzò, e a Randall quasi parve di aver visto la sua intera vita passargli davanti vista in terza persona, rendendosi conto che lui era sempre, costantemente, davanti agli altri e non si soffermava mai a stare accanto a nessuno. Tutti correvano per stare al suo passo e lui lo allungava per afferrare qualcosa che sembrava sempre più vicino, eppure allo stesso tempo un'utopia come l'orizzonte che non si avvicina mai davvero.
«Hershel, che significa? Ovvio che sei abbastanza! Sei il mio migliore amico, siamo pari, io ti sento come un pari!»
«Non è esattamente ciò che intendevo, Randall. È più un fattore intellettuale. Forse addirittura di energie. Tu sembri averne all'infinito, io dopo un po' fatico a starti dietro, per quello forse non sono la persona giusta che può accompagnarti a cercare il tesoro degli Aslant.»
«No, no! No! Hershel, sul serio, tu sei la persona giusta! Tu sei sempre stato la persona giusta! Non lo sai ancora, ma tu sei fatto per questo, hai solo bisogno di capirlo sul campo! Ti chiedo di venire con me, desidero che tu lo faccia con tutto me stesso. So che sarai un valido aiuto, che non sarai un peso e sono certo che Angela sarà più tranquilla se sarai al mio fianco.»
«Forse è solo per questo che mi vuoi con te. Perché non vuoi che Angela stia male», rise Hershel e, sebbene stesse scherzando, sembrò quasi che vi fosse un briciolo di verità, in quelle parole. «Starà male comunque, Randall.»
«Lo so, ma io voglio comunque che tu venga con me. E non solo per quello. Per favore, Hershel. Ti prometto che non te lo chiederò mai più, ma ho davvero bisogno della tua testa per tutto questo. Ho bisogno di tutto ciò che mi manca e compensare.»
«Ovvero un po' di amor proprio?»
«Anche, ma soprattutto la tua razionalità, la tua calma e la tua intelligenza. Insieme siamo una squadra imbattibile!»
Hershel si fermò quando arrivarono all'incrocio in cui poi si sarebbero separati per raggiungere ognuno la propria abitazione. Uno spicchio di luna si affacciò da una nuvola e, un leggero venticello, si alzò. Caldo e piacevole.
Randall sorrise speranzoso e Hershel, infine, sospirò.
«D'accordo, verrò con te. Dopotutto hai vinto tu l'ultima sfida a scherma!»
«Sapevo che avresti accettato, vecchio mio! Allora ci vediamo domani pomeriggio, dopo la scuola, per organizzare il viaggio. Non vedo l'ora e, te lo prometto, faremo la storia, quando torneremo!»
Hershel rispose al sorriso, e si diedero la mano, come a sancire quella promessa in quella notte d'estate.
Una promessa che Randall avrebbe infranto, non tornando più indietro.
Fine Capitolo III
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