9. Tra una patente che non si ha e mai giudicare prima di conoscere
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«Però potevamo pure chiudere domani.»
«Da quando ti interessa della Festa della Repubblica?»
Guardo Davide storto a causa della sua rispostina simpatica, prendendo una forchettata di carbonara. Ormai suo padre l'ha praticamente reso il capo del negozio, quindi è lui che decide tutto. E ha pure il coraggio di offendersi, se gli do' del raccomandato. Non che io sia da meno, chiaro. Il mio amico, seduto alla mia sinistra, si porta un boccone alle labbra e fa una faccia schifata.
«Ma perché Ismael non ha ancora capito che deve usare il guanciale e non la pancetta?» si lamenta. Ridacchio a quell'affermazione, come fa anche Marco seduto davanti a noi. Siamo riusciti a salvarlo dalle grinfie del suo strano amico, dicendogli che doveva assolutamente venire a mangiare con noi perché altrimenti avremmo fatto troppo tardi per riaprire dopo pranzo. Inutile dire che non se lo era fatto ripetere due volte. Luca aveva semplicemente annuito, dando un colpetto sul braccio a Marco prima di andarsene.
«Mamma usava sempre la pancetta» esordisco io, beccandomi un'altra occhiataccia di Davide. Certe volte capisco che non c'è da stupirsi se siamo diventati migliori amici. Abbiamo entrambi questa tendenza alla voglia di non fare nulla e al guardare male più o meno chiunque.
«E Augusto non l'ha cacciata di casa?» mi chiede Davide, sconvolto. Papà è un romano DOC e sicuramente la mancanza del guanciale la sentiva eccome.
«La amava troppo» rispondo io sorridendo, riportando gli occhi sul piatto e continuando a mangiare. In realtà la pancetta non è così male, ma evito di dirlo perché Davide potrebbe stramazzare a terra colto da un improvviso arresto cardiaco, e non voglio questo. Volgo lo sguardo su Marco, che è stranamente silenzioso da quando siamo arrivati all'area ristoro. Tiene lo sguardo perso nel vuoto e, sempre molto stranamente, non mi ha lanciato ancora frecciatine di alcun tipo o fatto battutine. Ne avrebbe di materiale, viste le innumerevoli volte che sono arrossita tra ieri e oggi, ma soprattutto per averlo beccato un'altra volta mezzo nudo.
«Oh» lo chiama Davide, nemmeno mi avesse letto nel pensiero, schioccandogli le dita davanti la faccia, «Tutto bene?» gli chiede, provocando un sorriso debole del ragazzo, fatto quasi per rassicurarci. Mi ricorda i sorrisi che mi rivolge mio padre quando gli chiedo se sia stanco. "No, figurati" e sorriso.
«Sì, sì. Avrei preferito anche io che domani avessimo chiuso.»
Davide all'inizio è contento che il ragazzo stia parlando, ma alla fine alza gli occhi al cielo cascando in pieno nel tentativo di Marco di cambiare discorso, poggiando la forchetta nel piatto e iniziando a gesticolare come un forsennato.
«Mi sembrate cretini! Domani tutti quelli che non lavorano vengono a fare un giro al centro commerciale, di conseguenza chiudere sarebbe da imbecilli!»
Il ragionamento di Davide non fa una piega, ma io e Marco ci guardiamo scocciati perché un giorno di pausa in più non avrebbe fatto male a nessuno. Anzi, a giudicare dal suo evidente esaurimento nervoso, Davide ne avrebbe proprio bisogno.
«Ora fai così, ma ricordo bene quando andavamo al liceo e per te ogni scusa era buona per saltare le lezioni!» affermo io, con sguardo quasi sognante, ripensando ai tempi delle superiori assieme a Davide. È un anno più grande di me, come anche Jessica, ma essendo io anticipataria abbiamo frequentato le superiori assieme. Ero talmente scocciata dalla vita che anche se ero piccola i miei genitori avevano già capito che era il caso di accorciare di un anno il mio supplizio.
«Ti ricordi quando l'anno scorso per saltare il compito di matematica abbiamo fatto mezz'ora di macchina per andare a Ostia?» mi dice il mio amico, sorridendo nostalgico. Il mio volto si illumina al ricordo di quel giorno, da cui non è passato poi tanto tempo se non appena un anno. Le mani fuori dal finestrino, il calore del Sole di maggio sulla pelle, il vento che ci copriva la voce mentre cantavamo a squarciagola il ritornello di Completamente dei TheGiornalisti.
«Vorrei che la vita fosse ancora così semplice» affermo, mettendo in bocca l'ultima forchettata. Dopo il diploma la vita si era complicata, mi ero ritrovata a non sapere quale strada volessi prendere mentre tutte le persone che avevo intorno si dedicavano alle loro passioni. Io, a parte lo skate, che ho? Qualche attimo di silenzio aleggia sul tavolo, fino a quando Davide non parla.
«È ora di rimettersi al lavoro» dice alzandosi dalla sedia, rimettendola ordinatamente sotto il tavolo. Mi ricordo che il mio turno per oggi è terminato, ma mi ricordo anche che non posso andarmene a casa.
«Tu hai finito?» mi domanda Marco imitando Davide alzandosi dalla sedia, gesto che seguo anche io, più lentamente. Un po' per avere il tempo di inventarmi una scusa e un po' perché non riesco a pensare intensamente e contemporaneamente pure a muovermi.
«Sì, però rimango. C'è tanta ressa, no?» cerco di accampare scuse io, per non confessare il reale motivo per il quale non me ne vado via. Questa è una cosa per cui Marco potrebbe decisamente prendermi in giro.
«Sicura? Tuo padre non può venirti a prendere?» mi chiede Davide premuroso con me come sempre, mentre io scuoto la testa.
«È a lavoro alla Garbatella, farà tardi» impreco mentalmente, perché mio padre proprio oggi doveva trovarsi così lontano da Romanina. Potrei anche prendere i mezzi, ma credo che una parte di me voglia davvero rimanere ad aiutarli. Anche se tornassi a casa sarei sola e ad allenarmi con lo skate ci andrò stasera, perciò preferisco non sprecare energie prima.
«Ti do' le chiavi della Jeep se vuoi, poi stasera vieni a prendermi o mi faccio riportare da Davide.»
La proposta di Marco sarebbe allettante, se soltanto non ci fosse qualcosa che mi blocca. Qualcosa a livello legale. Qualcosa che non so fare.
«No, è che...»
Marco mi guarda interrogativo, mentre io faccio guizzare gli occhi da lui al mio migliore amico, che mi guarda ridacchiando come un imbecille, perché sa qual è il mio problema. Alla fine sospiro e punto gli occhi a terra, perché tanto so che Davide prima o poi vuoterà il sacco al posto mio con qualche battutina velata.
«Io non so guidare...» mi lascio sfuggire.
Davide scoppia a ridere, mentre Marco mi guarda sconvolto. Sospiro, alzando gli occhi al cielo. Mi sembra una reazione anche un po' esagerata, visto che ho diciannove anni e non quarantanove. Non che ci sia qualcosa di male, a prendere la patente a quarantanove anni. Forse è un problema soltanto per gli ottusi come loro.
«Oh, avanti, perché per voi è così strano?» sbotto infatti, esasperata. Quando dico che non so guidare tutti mi guardano come se avessi detto che non so andare in bicicletta. Ho provato a prendere la patente e ho anche passato l'esame di teoria, ma alla prima guida l'istruttrice mi ha fatto venire l'ansia, che unita al traffico di Roma non mi ha di certo aiutata a conseguire la tanto agognata patente. Tanto ho lo skate per i brevi tragitti, mentre per quelli lunghi i mezzi a Roma ci sono per un motivo preciso.
«Non è strano che tu non sappia guidare, è strano che tu sappia fare tutti quei trick complessi con lo skate e poi non sappia tenere un volante» mi risponde Davide, senza smettere di sorridere come un deficiente. Lo guardo in cagnesco senza parlare, per poi sfilare davanti ai due ragazzi per dirigermi verso il negozio. Facile parlare per Davide, cresciuto tra auto costose come Jaguar, BMW e Porsche. Quando hai a disposizione un Cayenne di sicuro hai più voglia di guidare, rispetto a quando tra le mani ti ritrovi soltanto una Fiat Panda.
Nonostante il mio passo sostenuto i due ragazzi mi recuperano, ridendo a causa della mia espressione arrabbiata. Le guance gonfie e la fronte corrugata mi fanno sembrare una bambina appena uscita dall'asilo a cui è stato negato di cenare con il gelato.
«Dai Elissa, non disperare. Posso insegnarti anche a guidare!» mi richiama Marco. Guardo il ragazzo che si trova alla mia destra, fermandomi nel bel mezzo del corridoio del centro commerciale. Il mio sguardo è davvero quello di una bambina, adesso. Una bambina a cui stanno chiedendo se ha voglia di cenare con il gelato.
«Marco, sono veramente una frana» lo avverto, visto che fin quando si tratta di aiutarmi con lo skate possiamo metterci alla base una mia elevata capacità, mentre qui purtroppo le capacità sono pari a zero.
«Sono un bravo maestro, giuro.»
Marco si porta una mano sul petto per simulare il giuramento, facendomi sorridere. Mi volto verso Davide, che apre la bocca in un sorriso e mi fa un cenno di assenso proprio come un padre che concede il permesso alla figlia di cenare con questo maledettissimo gelato. Riporto lo sguardo su Marco, per poi incrociare le braccia sotto il seno.
«Va bene, Marco Testa, aggiungiamolo alla lunga lista di favori che devo ricambiarti.»
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Lo skatepark è fermo, nel silenzio delle undici di sera. L'unico rumore è quello delle ruote del mio skate contro il suolo e la voce di Marco che mi incita a saltare. Lo faccio, ma sbaglio ad imprimere la rotazione con il piede e cado, finendo con il sedere a terra. Sarà la quindicesima volta oggi, e non riesco più a concentrarmi. Sbuffo, frustrata. Perché non ci riesco? È tutta la vita che mi definiscono un talento, la degna erede di Stella García. Allora perché non riesco a fare una cosa così semplice? Perché non riesco neanche ad atterrare nel modo giusto? Passo le mie giornate a vedere tutorial, so esattamente come si fa. Eppure non ne sono capace.
Perdo l'ultimo briciolo di pazienza che mi rimane, alzandomi da terra recuperando lo skate che apparteneva alla mia mamma, pronta ad andarmene senza dire niente, sotto lo sguardo interrogativo di Marco, Davide e Chiara.
«Kickflip, dove vai?» mi chiama Marco amorevolmente, afferrandomi per un braccio e costringendomi a voltarmi verso di lui. Lo fulmino con lo sguardo, scrollandomi la sua mano di dosso. Ho il suo giubbotto perché oggi fa più freddo del solito, ma mi sono arrabbiata talmente tanto da iniziare a sentire le vampate di calore. Si fa sempre più chiaro davanti ai miei occhi che morirò senza chiudere questo kickflip. Dovrei anche smetterla di andare in skate, visto che è chiaro che mi sono aggrappata ad un talento immaginario. Altro che Elissa Steamer, non ho neanche un'unghia delle sue capacità.
«Non chiamarmi così!» intimo a Marco, arrabbiata. «Non lo so fare, va bene? È inutile che ci proviamo, domani mi ritiro dalla gara!» urlo, riprendendo a camminare verso l'uscita. Marco mi blocca di nuovo, ma stavolta alzo solo gli occhi al cielo, senza scacciare la sua mano che mi stringe delicatamente il polso. Vorrei che il suo tocco mi calmasse anche questa volta, ma purtroppo non può. L'unica cosa che potrebbe calmarmi è mia madre, ma ormai non ha più la possibilità di farlo. Ormai è morta, così come la mia speranza di chiudere questo trick prima del quindici giugno.
«Elissa, non fare così. Ce la farai, bisogna soltanto...» le parole di Marco vengono bloccate da una mia risata isterica, che porta il ragazzo a guardarmi deluso e a staccare la mano dal mio braccio, come se gli stessi facendo paura.
«Dio santo, Marco, lo dici da una settimana. Non partecipo a quella gara, basta!»
La differenza di tono e di sguardo tra me e Marco è abissale: io sono letteralmente annebbiata dalla rabbia, mentre lui continua ad essere sempre così gentile. Non so neanche perché io me la stia prendendo con lui, visto che non è colpa sua se la persona più importante della mia vita è morta. Sto ancora cercando un colpevole?
«Perché fai così, Eli?» mi chiede, ormai rassegnato. Mi guarda negli occhi per un po', confuso, per poi scuotere la testa. «Non capisco perché non vuoi partecipare senza kickflip.» le parole del ragazzo non sono altro che la goccia che fa traboccare il vaso. Riduco gli occhi a due fessure, guardandolo in cagnesco.
«Non capisci? L'ho promesso a mia madre, Marco! Ma tu alla fine che ne sai, se non hai mai perso qualcuno.»
All'udire quelle parole lo sguardo di Marco cambia radicalmente. Da calmo e premuroso passa ad arrabbiato e carico di disprezzo. Vacillo nel vedere i suoi occhi guardarmi in quel modo, perché non è mai successo prima, ma cerco di non scompormi. Almeno fino a quando non inizia a parlare.
«Non lo so, mh? Non ti sei mai chiesta perché vivo da solo?»
Lo guardo confusa, scuotendo la testa. Non mi sono mai posta il problema. Ci sono infiniti motivi per cui un ragazzo di ventun'anni se ne va di casa. Marco riprende a parlare senza che io gli risponda, portandosi le mani sui fianchi.
«Bene, allora visto che non ti sei mai posta il problema di guardare oltre il tuo naso te lo dico io. Quando avevo quindici anni hanno diagnosticato la leucemia a mia madre. Era già troppo tardi, non c'era niente da fare. Ha resistito per un anno, ma poi è morta.»
Schiudo la bocca, sconvolta. Marco si ferma un attimo, punta lo sguardo a terra e ricomincia il suo discorso, sotto gli occhi increduli di me, Chiara e Davide poco lontani da noi due.
«Mio padre non si è mai ripreso. Non usciva più di casa, continuava a guardare le foto di mia madre piangendo ogni giorno. Ha smesso anche di andare al lavoro e io a sedici anni sono stato costretto a fare il cameriere ogni volta che potevo per guadagnare qualche soldo. Più passavano i mesi e più mio padre diventava un vegetale. Lo sai che ha fatto, alla fine?» si ferma, io scuoto la testa. «Si è impiccato. Sono tornato a casa da scuola e l'ho trovato appeso al lampadario con una cazzo di cravatta attorno al collo, mentre per terra c'era una foto di mia madre che probabilmente gli era scivolata dalle mani.»
Vorrei con tutto il cuore tornare ad un attimo fa e rimangiarmi tutte le cose che ho detto a Marco. Come ho fatto ad essere così cieca e superficiale? Mi sono fatta prendere dalla frustrazione e ho fatto l'egoista, come mio solito. Al pensiero di Marco che torna a casa a sedici anni e trova suo padre morto rabbrividisco, mentre le lacrime mi solleticano gli occhi.
«Luca non è soltanto mio amico,» continua Marco, prendendo un gran respiro, «ma è mio fratello. Aveva ventun'anni quando è morta la mamma, l'età che io ho adesso. Ha iniziato a lavorare anche lui appena ha smesso nostro padre, ma quando è morto anche lui ha iniziato a spendere soldi in alcol e droga perché non si è mai ripreso. Appena ho compiuto diciotto anni me ne sono andato di casa e sono venuto qui, per non doverlo guardare in faccia quando tornava ubriaco o fatto. Ogni volta che chiudo gli occhi mi sembra di ritrovarmi davanti mio padre con la faccia viola, appeso al lampadario. Lui è morto ed io e Luca non c'eravamo. Ci era rimasto solo lui, ma non c'eravamo.»
Lo guardo, realmente dispiaciuta. Ho perso la pazienza e ho parlato a sproposito, come sempre. Non riesco a dire una parola, paralizzata dal dolore. Pensavo che nessuno potesse capire come mi sentivo, credevo di essere l'unica al mondo a soffrire per la morte di un genitore. Nel dolore di Marco per non essere stato a casa quando suo padre è morto rivedo il mio stesso dolore per non aver abbracciato mamma più forte, prima che morisse all'improvviso.
Marco sospira e fa per andarsene via, ma questa volta sono io a richiamarlo. Non sono orgogliosa tanto da non chiedere scusa, soprattutto dopo che mi ha guardata in quel modo. Deluso? Ho deluso un ragazzo che con me è sempre stato premuroso. Ora sono io, che sento il bisogno di proteggerlo. Di proteggerlo da me stessa.
«Scusa» affermo, prendendo coraggio e facendolo voltare. Mi guarda, abbozzando un mezzo sorriso rassegnato, scuotendo la testa quasi come se volesse abbandonarsi al dolore per la prima volta. Spero che venga ad abbracciarmi subito per accettare le mie scuse come suo solito, accarezzandomi la schiena e dandomi una scompigliata ai capelli, ma si volta verso il cancello abbozzando ad alta voce qualche semplice parola che sento a malapena.
«La vita è molto più difficile di un kickflip, Elissa.»
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