6. Tra racconti amorosi e lezioni di skate
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«Elissa?» la voce di mio padre che mi chiama a gran voce mi costringe a voltarmi, mentre cammino con Marco verso il suo appartamento. Papà è fermo davanti la porta che ho appena chiuso, da solo. Il fatto che non ci sia Pia mi solleva, nonostante mi confonda anche un po'. Prima mi lascia i bigliettini e poi torna con la coda fra le gambe? Avrà litigato con la sua fidanzatina?
«Papà?» affermo fissando i miei occhi all'interno dei suoi, così uguali ai miei, mentre lui mi supplica con lo sguardo di rientrare a casa assieme. Probabilmente si starà anche chiedendo chi sia il ragazzo con cui me ne sto andando, visto che non lo conosce neanche di vista. Mi volto un attimo verso il ragazzo in questione, che mi sorride invitandomi a rientrare in casa mia per parlare con mio padre. Accarezzo leggermente il braccio di Marco, per poi ringraziarlo sottovoce e con il sorriso dipinto sul volto, seguendo successivamente mio padre dentro casa nostra. Rientrando mi richiudo la porta alle spalle, mentre le gambe mi tremano al pensiero di quello che potrebbe dirmi mio padre. Non amo più Stella, l'ho dimenticata, Pia è la tua nuova mamma!
Scuoto la testa per scacciare via quei pensieri, ripetendomi che nulla sono se non mie inutili paranoie, portando le braccia al petto con un sospiro. Noto che lui non sembra intenzionato ad avviare questa imbarazzantissima conversazione. Non c'è da stupirsi, visto che solitamente è la figlia che viene beccata con il fidanzato sul divano di casa, non il contrario.
«Perché non me l'hai detto?» mi lascio sfuggire dalle labbra. Mio padre è in piedi davanti al tavolo, dove poggia con poca cura le chiavi di casa. Non mi guarda in faccia, tiene gli occhi marroni puntati sul pavimento. La tuta da lavoro con cui lo vedo praticamente sempre ha lasciato il posto ad una vecchia polo sgualcita bianca e dei jeans di un blu scuro, comunque sbiadito.
«Perché avevo paura della tua reazione, Elissa» si giustifica timidamente mio padre, ora guardandomi dritto negli occhi. Mi sembra quasi di guardarmi allo specchio. «Credi che per me sia stato facile superare la morte di tua madre? Non vederla più girare per casa con il suo solito sorriso contagioso, dover badare a te da solo...» si siede sulla prima sedia a portata di mano, come se il peso di quei ricordi felici lo affaticasse e gli rendesse impossibile il solo reggersi in piedi.
«Mi sento come se la stessi rimpiazzando, papà» gli confesso, trattenendo le lacrime. L'uomo davanti a me si mette a ridere sconsolato, guardando davanti a sé per un attimo, per poi riportare gli occhi sul mio volto.
«Stella è insostituibile, tesoro. Rimarrà il mio più grande amore, accada quel che accada» spiega mio padre, con le lacrime agli occhi, «ma dopo quell'incidente anche la mia vita in un certo senso è finita. Continuavo a domandarmi perché non fossi morto io, perché fosse toccato proprio a mia moglie ed ogni volta che io e te dovevamo andare da qualche parte avevo paura di farti salire in auto con me, come se mi sentissi responsabile di ciò che le era successo.»
Mia madre è morta così: in un incidente d'auto. Mio padre era al volante, un pazzo gli ha tagliato la strada e l'auto dei miei ha superato il guardrail. Lui è stato in ospedale per un po', ma ne è uscito quasi illeso, mentre mia madre non ce l'ha fatta. Non sono mai riuscita a spiegarmi come fosse possibile che una persona l'attimo prima ci sia, mentre quello dopo sia destinata ad essere sepolta sottoterra.
«Pia mi ha aiutato molto» riprende a parlare mio padre, attirando ancora la mia attenzione, mentre io lo guardo con la bocca schiusa e la gelosia monta in me. «Quando hai finito le elementari io e lei ci siamo ovviamente persi di vista, ma un mese fa sono andato a fare dei lavori nella tua vecchia scuola e ci siamo rincontrati. Non è come tua madre, Elissa, però mi fa stare molto bene. A quest'età non posso permettermi di non agire d'istinto, non pensi? Ho imparato a spese di tua madre che non sai mai cosa ti riservi la vita.» Per un attimo la gelosia lascia il posto al senso di colpa. Ho esagerato, come ogni volta, pensando che il mondo di mio padre dovesse girare solo ed unicamente attorno a me, pensando che lui non avesse sofferto neanche la metà di quanto avevo sofferto io. Ero troppo egoista per pensare che sì, io avevo perso una madre, ma lui aveva perso l'amore della sua esistenza intera. Aveva perso la donna per cui aveva imparato a parlare spagnolo, per cui aveva messo da parte la paura dell'aereo soltanto per seguirla nelle sue gare in giro per l'Europa. È difficile accettare che il proprio padre abbia messo per un po' da parte la propria madre, rifacendosi una vita, mentre tu sei ancora ferma a dieci anni prima. Il problema è che molte volte anche se sai che una cosa è giusta, proprio non riesci ad accettarla pienamente. So che mio padre deve andare avanti, ma non voglio che lo faccia senza di me. Mi farebbe sentire più sola che mai.
«Io non voglio che mi lasci anche tu» le parole escono dalla mia bocca in un sussurro spezzato dalle lacrime mentre mio padre, accortosi del mio pianto, si è alzato dalla sedia e si è posizionato davanti a me. Mi prende il viso fra le sue mani grandi e consumate dal lavoro che fa, asciugandomi le lacrime che scorrono ormai copiose sul mio volto.
«Elissa, io non ti lascerò mai. Nessuno potrà mai dividerci, capito?» Le sue parole mi rassicurano, nonostante io sappia bene che qualcosa potrebbe dividerci: la morte. Con mamma l'aveva fatto, mi era stata strappata via da un momento all'altro, senza la possibilità di dirle addio.
«Torniamo dopo cena, mija. Fai quello che ti dice abuela!» ascolto mia madre disinteressata, troppo concentrata sulle figure colorate che si muovono sulla televisione. Mia nonna, seduta accanto a me, mi da' una leggera pacca sulla spalla per richiamarmi. Mi volto verso di lei, che mi fa cenno con la testa di guardare la mamma dall'altro lato del divano.
«Capito, Eli?» chiede papà, dietro di lei. Annuisco spazientita, tornando con gli occhi sullo schermo.
«Okay» sussurro, sperando che basti a farli andare via così che io possa proseguire con la visione del cartone senza intoppi. Mamma mi stringe in un abbraccio, che io ricambio controvoglia continuando a buttare un occhio dietro la sua spalla. Penso solo che spero si stacchi presto, perché questo episodio è così interessante. I miei genitori mi salutano ed io neanche mi volto, salutandoli distrattamente con la mano.
Mio padre mi stringe in un abbraccio fortissimo, talmente forte da ricordarmi quelli che mi dava quando da piccola cadevo dallo skate e mi sbucciavo le ginocchia. Ricordo benissimo la prima volta che successe, a otto anni, perché piansi e non accennai a voler riprendere mai più quella tavola. Fu solo un anno dopo che ne sentii il richiamo e, nonostante le cadute, non mollai mai, neanche una volta. Non piansi più, troppo curiosa di vedere cosa mi aspettava se non fossi caduta. La mamma mi guardava sfrecciare sul mio skate, fiera di me, come se sulla tavola rivedesse un po' se stessa. Il mio primo trick, un ollie, l'ho fatto davanti a lei a nove anni e mezzo, poco prima dell'incidente. Quando mi vide mia madre urlò dal fondo della pista: "Tienes un grande futuro, Elissa!". Arrivammo a pensare che quel nome fosse una specie di portafortuna e mi sentivo come se avessi il destino già segnato dalla nascita.
Dopo aver eseguito un ollie mamma provò subito ad insegnarmi il suo adorato kickflip, il primo che lei era stata capace di chiudere. Inutile dire che fu da subito un disastro. Fu proprio per quello, poiché era stato il suo primo trick, che decisi davanti a lei che non avrei mai disputato una gara prima di averlo imparato a dovere. Lei mi guardò con un sorriso dipinto sul volto e mi strinse forte. Peccato che quel giorno sembrasse non arrivare mai.
Con la mente arrivo fino a Marco e alla sua promessa, preparandomi mentalmente a domani. Ce la farò, in sole tre settimane, ad imparare finalmente quel maledetto kickflip? Riuscirci in tre settimane grazie a Marco farebbe davvero ridere, visto che in dieci anni da sola non ce l'ho mai fatta. Al pensiero di quel ragazzo che conosco da così poco tempo, divento rossa. Fidarmi di lui potrebbe essere un errore, perché dopotutto è uno sconosciuto per me e potrebbe farmi stare male da un momento all'altro. In cuor mio, però, sento di star facendo la cosa giusta. Forse, per una volta, posso accantonare le mie paure del futuro. Forse, per una volta, posso vivere nel presente.
Sento mio padre schiarirsi la voce come se volesse parlare ma non trovasse il coraggio, così mi allontano lentamente da lui e lo guardo con la fronte corrugata.
«Vuoi dirmi qualcosa?»
Sorrido perché so a cosa sta pensando, mentre lui è diventato paonazzo e quasi sembra mancargli l'aria.
«Insomma, adesso sei un'adulta. Non sono affari miei, ecco...»
Scoppio a ridere, dandogli una pacca sul braccio e iniziando a togliermi le scarpe per dirigermi finalmente in camera mia.
«Non è il mio fidanzato!»
«E perché stavi andando a casa sua?» domanda quasi sconcertato, non concependo l'idea di me assieme ad un qualsiasi essere di sesso maschile che non sia Davide. Mi fermo poggiata al telaio della porta di camera mia, adagiandoci la testa e guardando mio padre con un sorrisetto dipinto sul volto.
«La prossima volta preferisci che te lo faccia trovare nudo sul divano?»
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«Oddio, adesso ci arrestano tutti!»
«Io devo fare la pipì.»
«Ma pure il bambino ti dovevi portare, Da'?»
Alzo gli occhi al cielo, mentre osservo Marco estrarre la chiave del cancello dello skatepark dai jeans. A quanto pare ci lavora quando non ha turni al negozio e mi domando come io abbia fatto a non vederlo mai prima. Forse, quando si tratta di skate, mi concentro troppo sulla mia tavola e non presto attenzione nemmeno ad eventuali bronzi di Riace che mi passano accanto. Dato che non mi ero accorta nemmeno che abitasse nel mio stesso palazzo, inizio a pensare che in realtà Marco sia un angelo inviato sulla Terra per alleviare le mie pene e per aiutarmi finalmente a chiudere un kickflip. E se invece fosse un latitante in fuga e si stesse creando una sorta di alibi con me? Se si stesse accaparrando la mia fiducia per poi uccidermi? Un po' come Ted Bundy...
Sta di fatto che, latitanza e probabili omicidi a parte, la mia lezione di kickflip si è trasformata in un ritrovo di pazzi appena evasi dal manicomio: Chiara, convinta che ci arresteranno tutti da un momento all'altro, e Davide che si è portato dietro anche Giorgino (che, senti senti, deve fare la pipì).
Marco mi guarda, mentre la voce bianca di Giorgino continua a dire a Davide che la sua vescica sta scoppiando. Il ragazzo dai capelli lunghi cerca quasi conforto in me, che a parte lui sembro essere l'unica che non rompe le palle per un eventuale arresto. Come se a qualcuno, poi, importasse davvero di chi entra in questo skatepark.
Il cancello si apre davanti a noi e Marco ci fa entrare per poi richiuderlo, per non destare sospetti e anche perché Chiara, testuali parole, si sarebbe sentita più al sicuro da eventuali forze dell'ordine. Lascio cadere il mio skate a terra, prendendo qualche rampa per arrivare in una zona piatta, per allenarmi meglio col kickflip. Il mio cuore palpita di gioia, mentre aspetto Marco che sta indicando a Davide i bagni così da poter accompagnare Giorgino. Il mio migliore amico mi cerca con lo sguardo, per poi farmi un cenno con la mano per richiamare la mia attenzione.
«Non azzardarti a riuscirci mentre non ci sono!» mi minaccia, mentre si avvia verso il bagno strattonato per un braccio dal nipotino. Io ridacchio, per poi scuotere la testa sconsolata.
«Non ci sono riuscita in dieci anni, non penso di riuscirci stanotte» lo conforto, vedendo arrivare poi Marco e Chiara nella mia direzione. La ragazza, sempre sorridente nonostante abbia paura di un raid della polizia a breve, va a sedersi a terra, poco lontano da dove mi trovo io. Marco si ferma in piedi davanti a me, con il suo skate sottobraccio.
«Allora, Kickflip, sei pronta?» mi chiede, accennando un sorrisetto strafottente a cui rispondo nella stessa maniera.
«Sono nata pronta, Pop shove it.»
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