4. Tra bambini incontinenti e maestre delle elementari
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Il silenzio attorno a questo tavolo non fa che rendermi sempre più imbarazzata. Odio mangiare davanti alle persone e soprattutto odio mangiare spaghetti all'amatriciana davanti alle persone, perché finisco sempre per macchiarmi di sugo in qualche modo. Lancio un'occhiata a Davide, seduto davanti a me, fulminandolo con lo sguardo più rancoroso che gli abbia mai riservato. Io, pranzo dopo il lavoro, l'avevo inteso come io e te a pranzo dopo il lavoro. Di certo non mi aspettavo di ritrovarmi a mangiare il mio pranzo nel ristorante del Centro Commerciale seduta tra Davide e Marco. Sbuffo, portandomi la forchetta alla bocca, mentre Marco parla al mio amico di qualcosa che proprio non capisco. Ammonizione? Assist? Rigore? Distolgo l'attenzione da quei termini così complessi, iniziando a vagare con la mente. Quando mi perdo a pensare, inevitabilmente finisco con la mente al kickflip e a tutti i modi che potrei tentare per farmelo riuscire. Quando e se finalmente riuscirò a chiuderlo non so come continuerà la mia vita, visto che esisto in funzione di questo trick ormai.
«Elissa, sei tra noi?» Mi chiede Marco, schioccandomi le dita davanti la faccia velocemente. Mi spaventa, facendomi sobbalzare, tanto che quasi rischio di strozzarmi con un maledetto spaghetto.
«Callate tío, stavi per uccidermi!»
Quell'espressione spagnola viene fuori da sola, come alcune volte mi succede. Mia madre, essendo originaria di Granada, in Spagna, tendeva ad utilizzare intercalari di quella lingua facendo credere al mio cervello da bambina che quella fosse la maniera corretta di parlare italiano. Non mi succede spesso ormai, perché crescendo ho capito che si trattava di un modo di mia madre per non abbandonare del tutto la sua lingua, ma quando non ci rifletto abbastanza vengono fuori da sole. Marco ridacchia a quella mia affermazione inaspettata, per poi iniziare a guardarmi il mento e senza accennare a distogliere lo sguardo.
«Si può sapere che diavolo guardi?» Gli chiedo scontrosa, facendolo ridere ancora di più. Davide, seduto di fronte a me, si lascia andare ad una risatina. Capisco a questo punto di essere sporca, come da programma, cominciando a strofinarmi con foga una mano sulla bocca per pulirmi.
«Sei ancora sporca, Kickflip» mi informa Marco. Alzo gli occhi al cielo, implorando i due ragazzi di dirmi dov'è che sono macchiata di preciso. Ma possibile che mi succeda ogni dannatissima volta? Tra una risata e l'altra Marco avvicina la mano alla mia faccia, inducendomi a ritirarmi indietro e facendogli alzare gli occhi al cielo per la prima volta da quando lo conosco. Mi tiene la testa ferma con la mano destra, mentre con la sinistra mi passa il pollice all'angolo della bocca. La schiudo, osservandolo mentre con calma mi pulisce dal sugo come se fossi una bambina. Nonostante io e lui abbiamo iniziato un gioco di frecciatine e punzecchiamenti vari, non ho mai smesso di trovarlo un ragazzo stupendo. Quel fascino da skater che mi ha sempre attratta, lui ce l'ha tutto. La cosa peggiore di considerare qualcuno il tuo tipo ideale è il non sapere se tu sei il suo.
Mi guarda un secondo negli occhi, notando che lo sto fissando, così distolgo subito lo sguardo dopo essere diventata più rossa del sugo che Marco stava cercando di pulire. Il silenzio inizia ad attanagliare questo tavolo, mentre il rumore di sottofondo di posate che tentennano riempie l'ambiente circostante.
«Io ho un problema» afferma Davide, spezzando questa situazione di imbarazzo palpabile che si è creata fra me e il ragazzo dai capelli lunghi.
«Fosse solo uno» scherza quest'ultimo, facendomi ridacchiare. Davide ci guarda crucciato, per poi riprendere a parlare come se nulla fosse, ignorando le nostre prese in giro.
«Sono innamorato di Chiara ma non so come dirglielo.»
Sputo tutta l'acqua che ho in bocca addosso a Davide, per poi ridere seguita da Marco. Chiara è palesemente lesbica, ma questo probabilmente il mio amico non l'ha notato. Io e il ragazzo seduto alla mia destra ci guardiamo complici, dicendoci fra le righe che sosterremo Davide nella sua conquista comunque. Dopotutto, mi dico, Chiara non ha mai dichiarato niente in maniera ufficiale. Magari ci sbagliamo.
«Che avete da ridere tanto?» Sbotta Davide indignato, battendo un pugno sul tavolo.
«Niente, niente» mi ricompongo io, tornando seria, «e quindi?» Gli chiedo, cercando di capire dove voglia andare a parare con il suo discorso sulla nostra collega.
«E quindi le voglio chiedere di uscire. Dite che faccio bene?»
Io e Marco annuiamo energicamente e, anche se sotto sotto mi sento in colpa perché sono abbastanza certa che Chiara abbia altre preferenze, sono felice di poter sostenere comunque il mio amico.
«Devi farlo il prima possibile: via il dente, via il dolore» lo incoraggia Marco, dandogli una pacca sulla spalla. Davide mi guarda come un cane bastonato ed io gli faccio un sorriso di approvazione in risposta, ma prima che possa parlare per rassicurarlo c'è una voce che lo chiama e che mi blocca. La voce in questione è quella di un bambino che sta correndo verso il mio amico, per poi saltargli al collo appena arrivato sotto la sua sedia. Ci metto un po' a riconoscerlo perché nonostante abbia nove anni è cresciuto parecchio negli ultimi mesi in cui non l'ho visto, ma appena si accorge della mia presenza il bambino mi saluta raggiante, senza lasciar andare il collo di suo zio.
«Ciao, Giorgino» lo saluto, facendogli l'occhiolino. Lui mi sorride timido, nascondendo la faccia dietro la testa del suo palestrato zio.
«Dov'è la mamma?» Gli chiede Davide, alla ricerca di sua sorella maggiore dispersa per questo Centro Commerciale. Almeno sette negozi sono di proprietà di loro padre, quindi hanno passato gran parte della loro vita qui dentro. Davide si è messo a lavorare, perché non sapeva che altro fare e perché tra tutti quei negozi quello della Vans era sempre stato il suo preferito, mentre Maria aveva deciso di mettersi a studiare Scienze della Formazione solo da un paio d'anni.
«Dentro quel negozio di scarpe, io però devo fare la pipì» si lascia sfuggire il bambino, dondolando i piedi fasciati dalle sue Converse mentre è seduto sulle ginocchia dello zio. Davide mi guarda a bocca aperta, facendomi ridere. Giorgino va al bagno più o meno ogni mezz'ora, come un orologio svizzero.
«Lo accompagno, ci rivediamo al negozio» dice infine, alzandosi dalla sedia per accompagnare suo nipote al bagno più vicino.
«Sicuri che non sia cistite?» Chiede Marco serio, vedendo Davide allontanarsi col bambino. Io ridacchio, guardando nella stessa direzione.
«No, è sano come un pesce. Per lui fare pipì è un piacere.»
«Effettivamente è liberatorio.»
«Non se la fai ogni venti minuti.»
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Il rumore di un tuono squarcia bruscamente i pensieri miei e dei miei colleghi, che stiamo per chiudere il negozio. Sbuffo, perché la pioggia d'estate proprio non la sopporto: l'attimo prima trentadue gradi, l'attimo dopo temporale. Davide si avvicina a me e Marco, che stiamo sistemando la cassa prima di andare via, mentre Chiara rimette a posto le ultime cose nel magazzino.
«Pss!» Ci fa il mio amico, distraendoci dal nostro lavoro di chiusura. Lo guardiamo interrogativi, non capendo perché parli così a bassa voce. «Le chiedo di uscire?»
Io e Marco ci guardiamo, gettando poi un'occhiata a Chiara. Oggi più la guardo e più mi convinco che sì, è decisamente lesbica. Ci metterei la mano sul fuoco.
«Sì» affermo comunque, seguita a ruota da un sorriso incoraggiante di Marco. Davide non se lo fa ripetere due volte e, rosso in volto, si avvicina a Chiara che sta impilando delle scatole per riporle in magazzino. Le picchietta la spalla con l'indice, facendola voltare verso di lui con il suo solito sorriso gentile sul volto. Io e Marco ci appoggiamo al ripiano della cassa osservando i due, curiosi. Davide sta per fare una figuraccia clamorosa ed io non posso perdermela.
«Hey, Chiara, mi stavo chiedendo una cosa...» inizia il mio amico, senza guardarla negli occhi, timido come mai l'ho visto prima d'ora. Che si sia innamorato per davvero? La mora lo incita delicatamente a parlare, sistemandosi velocemente la frangia con la mano, per togliersela da davanti gli occhi.
«Ecco... ti andrebbe di uscire con me, qualche volta?»
Il cuore martella nel mio petto, mentre con i piedi mi sollevo da terra e resto poggiata al ripiano della cassa solo con le braccia per poter vedere meglio la scena. Se io sto per avere un attacco di cuore, non oso immaginare Davide. Segue qualche secondo di silenzio, in cui tutti rimaniamo tesi ad aspettare la risposta di Chiara. Quest'ultima però ride e poi porta una mano sulla spalla di Davide, dandogli qualche pacca di consolazione.
«Sei davvero un bel ragazzo Davide, ed io accetto anche. Ma se hai altre intenzioni, sto più sull'altra sponda.»
Torno a poggiare i piedi sul pavimento, scoppiando a ridere assieme a Marco senza ritegno, beccandoci un'occhiataccia di Davide che ci costringe a chiudere la bocca. Mentre asciugo una lacrima causata dalle troppe risate afferro il cellulare tra le mani, ascoltando nel frattempo con disinteresse Davide mandarci a 'fanculo. Scorro velocemente la rubrica cercando il nome di mio padre, per poi fargli un colpo di telefono per chiedergli di venirmi a prendere. La chiamata, però, rimane appesa e gli squilli continuano a risuonare a vuoto. Attacco sbuffando, perché dovrò probabilmente tornare a piedi. Il mio palazzo non è molto distante da qui, ma la pioggia al momento è davvero forte.
«Chiara, non è che puoi darmi un passaggio alle popolari?» Le chiedo, sperando in una risposta positiva. Marco, però, la blocca prima ancora che possa iniziare.
«Ti accompagno io, tanto devo passarci.»
Per un attimo divento rossa al pensiero di rimanere sola in macchina con lui, poi mi ricordo che si tratta pur sempre di Pop Shove It e alzo un pollice in segno di consenso.
«Ma se ci provi con me in auto ti denuncio.»
«Non ti prometto niente.»
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La macchina di Marco è una Jeep Wrangler del 2007, rigorosamente rossa, che si addice proprio al suo stile. Odio macchine come le Jeep perché sono troppo alte ed io troppo bassa, ma quando riesco a salire con una spintarella mi accascio finalmente sul sedile, stanca. Non sono abituata a lavorare, sono una scansafatiche cronica, proprio come lo era mia madre. Quando si è trasferita in Italia (per cambiare vita, diceva lei) aveva iniziato ad arrangiarsi con lavori saltuari come la cameriera o la babysitter, proprio come me. Ha conosciuto mio padre lavorando all'Hip Pub, che ancora non si chiamava così nel '96. Mi diceva sempre che lei non aveva in programma di innamorarsi, né tantomeno di fare figli, ma quando mio padre le ha offerto una Estrella perché aveva capito che era spagnola e che si chiamava Stella, lei non ha potuto fare a meno di prendersi una sbandata per Augusto De Santis. Restava comunque una vera e propria scansafatiche, perché non si è mai impegnata a cercare un lavoro vero e proprio. Dato il mio amore per gli aromi al limone già da bambina, diceva sempre che se la vida ti da' limoni, tienes que hacer una limonata! Forse non ha mai compreso il vero significato di quel detto ed è per questo che siamo rimasti senza soldi. Vaglielo a spiegare, che i limoni non piovono dal cielo ma che devi andarteli a cercare.
«Senti...» inizia Marco mettendo in moto e strappandomi ai miei pensieri. Ho quasi paura di quello che potrebbe dirmi, così mi volto verso di lui aspettando pazientemente che proferisca parola. Se mi chiede di nuovo di iscrivermi a quella maledetta gara di skate, salto giù dall'auto. Ormai è diventata una fissazione.
«Sempre che non sia lesbica anche tu, che ne dici di andarci a bere qualcosa stasera?»
Lo guardo accennando un sorriso. Per la prima volta nelle sue parole non c'è niente di ironico, nessuna traccia di presa in giro o di malizia.
«Ci vengo volentieri, ma un'altra sera, sto veramente morendo di sonno» mi giustifico, passandomi le mani sulla faccia strofinandomi gli occhi stanchi. Lui si lascia sfuggire un "okay" felice, perché fondamentalmente non l'ho rifiutato dicendogli che sto sull'altra sponda e dopo qualche indicazione su dove si trovasse casa mia che gli do' spontaneamente senza che lui mi chieda niente, arriviamo davanti al mio palazzo. Penso che mi lasci qui e vada via, invece scende anche lui dall'auto subito dopo aver parcheggiato. Quando arriviamo davanti al portone principale lo guardo confusa e anche un po' scocciata.
«Mica devi accompagnarmi fin dentro casa, non ho dieci anni!» Mi lamento, suscitando una sua risata. Si può sapere che ha da ridere tanto? Tira fuori dalla tasca dei jeans un mazzo di chiavi, per poi indicarmi un nome sull'infinita sfilza di citofoni. Leggo velocemente quello che mi sta indicando lui, rimanendo a bocca aperta.
Marco Testa.
Spalanco gli occhi incredula, chiedendomi come abbia fatto a non vederlo prima. Beh, diciamo che leggere i nomi sul citofono del mio palazzo non è mai stato il mio hobby preferito.
«Ecco perché sapevi che ero la figlia di Stella García, hai letto il nome sul citofono» ragiono, mentre entriamo nell'edificio. Lui mi guarda divertito, ridacchiando come suo solito, fin quando non arriviamo finalmente davanti al mio appartamento.
«A domani, allora» lo saluto, frugandomi nelle tasche dei pantaloni alla ricerca delle chiavi. Lui sorride ancora, per poi avvicinarsi alla mia guancia e lasciarvi sopra un tenero bacio che non rifiuto, finendo per diventare talmente rossa da dovermi voltare verso la porta per non farglielo notare.
«A domani» mi risponde, mentre sento i suoi occhi addosso che mi guardano entrare in casa. Appena apro la porta mi pento in meno di un secondo di non aver accettato l'invito di Marco, perché almeno mi sarei risparmiata questa scena disgustosa. Aveva ragione la mamma: se la vita ti da' limoni, devi farci una limonata.
Ma l'unica limonata che vedo ora è quella di mio padre, nudo sul divano e avvinghiato ad un'altra donna che mi sembra di conoscere ma che mi rifiuto di continuare a guardare, coprendomi gli occhi con le mani.
Emetto un gridolino stridulo, abbandonandomi a qualche intercalare spagnolo poco carino e portandomi le mani davanti la faccia con disgusto. Mio padre e la signora che non conosco si spaventano, affrettandosi a mettersi velocemente una coperta addosso per permettermi di guardarli. Finalmente posso abbassare le braccia e la figura femminile mi si rende chiara e nitida davanti agli occhi.
«Maestra Pia?» urlo, sconvolta. La mia maestra delle elementari se la fa con mio padre? I due mi sorridono debolmente, imbarazzati, mentre io esco scocciata da casa mia, con la voce di mio padre che mi urla dietro di aspettare e di parlarne. Vorrei chiedergli di cosa vuole parlare nello specifico, se del fatto che ha completamente cestinato la mamma o del fatto che si stava dando da fare con la mia maestra delle elementari sul divano dove io di solito mangio. Mi richiudo il portone alle spalle con forza e attiro l'attenzione di Marco, giunto ormai alla fine del corridoio, che si volta a guardarmi interrogativo appena sente il rumore sordo dei cardini.
«È ancora valido quell'invito?»
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