29. Tra damigelle, quelli potremmo essere noi e non so ballare
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«Davide, smettila di ridere!»
«Elissa, te lo giuro, non ce la faccio!»
Alzo gli occhi al cielo, voltandomi di nuovo verso lo specchio della mia camera per continuare ad allisciarmi le pieghe della gonna. Marco, Jessica e Chiara si affacciano nella stanza, probabilmente incuriositi dalle risate incontrollate del mio migliore amico che si sta piegando in due sul mio letto.
«Che ti fa ridere tanto?» gli chiede Jessica scocciata, come suo solito, portandosi poi una mano sulla bocca per coprire una risata dopo avermi vista e incamminandosi verso la cucina. Crede forse che non l'abbia vista ridermi in faccia? Inizio ad avere paura di essere ridicola per davvero quando anche Chiara mi rivolge uno sguardo apprensivo. Mi fissa un po' come si guardano i disegni orrendi dei bambini, cioè facendo finta che siano bellissimi per non creargli un trauma infantile.
Mi lascio andare ad un urlo di lamento misto ad un pianto, mentre mi faccio cadere di schiena sul letto dietro di me. Vorrei sprofondarci dentro come il personaggio di Johnny Depp in Nightmare. Riapro gli occhi giusto per trovarmi davanti il sorriso rassicurante di Marco Testa. Lui sì, che è vestito bene: camicia bianca, papillon nero, giacca nera, jeans nero e ai piedi le sue immancabili Old Skool. I capelli sono, come al solito, ordinatamente raccolti sulla nuca, richiedendo questa volta un tale ordine da necessitare l'utilizzo di gel. Il suo orecchino a cerchio nero ha, per la prima volta, lasciato il posto ad un brillantino, ma gli anelli non accenna a toglierseli. È proprio la sua mano tutta inanellata che mi da' un colpo sulla coscia, quasi a rassicurarmi.
«Quello che vogliamo dire è che non siamo abituati a vederti vestita così. Ma sei bellissima, sul serio.» Le parole di Marco più che tranquillizzarmi, onestamente, peggiorano la situazione. Scoppio in un altro lamento isterico, questa volta dando calci all'aria come una bambina a cui è stato vietato di comprare un lecca lecca. Sì, oggi sembro decisamente una bambina agli occhi di tutti.
«Esattamente» riprende Davide, ricomponendosi all'improvviso mentre si aggiusta il papillon. A lui tocca il compito di testimone dello sposo. Devo ancora abituarmi all'idea che Davide debba fare da testimone di nozze a mio padre e che io debba fare da damigella alla mia maestra delle elementari. Che sposa mio padre. Potrei scriverci un libro: "Ma quanto è piccolo il mondo?" di Elissa De Santis-García.
«Questo vestito rosa sicuramente è un grande aiuto per Jessica, mentre Chiara vestita elegante l'avrò vista almeno mille volte» riprende Davide.
Sì: io, Jessica e Chiara siamo vestite da damigelle. Stesso vestito, tre ragazze completamente diverse, ed io sono sicuramente la meno adatta ad un abito del genere. Mi rimetto in piedi, continuando a guardarmi allo specchio e allisciando pieghe immaginare sulla gonna di tulle. È lungo, color rosa cipria, con le spalline cadenti e uno spacco sulla gamba destra. È davvero bello, se lo si guarda addosso a Jessica o Chiara: altezza tra i centosessantacinque e centosettanta centimetri, visi da ventenni ed eleganza innata. Quanto a me? Centosessanta (circa) centimetri di maschiaccio con l'eleganza di un elefante in una cristalleria. Come se non bastasse, ai piedi indosso dei tacchi. Tacchi. Credevo che fosse difficile tenere l'equilibrio sulla tavola, ma questi oggetti sono decisamente l'Inferno in Terra.
«Sicura che non ti sloghi una caviglia?» chiede Jessica indicandomi i piedi, facendo ridere tutti meno che me. No, non ne sono affatto sicura.
«Che vuoi che sia! Come andare in skate: equilibrio, baricentro. Un gioco da ragazzi!» Poco prima che possa concludere la frase, inciampo nel vano tentativo di muovere un passo. Per fortuna Marco è vicino a me e mi impedisce di fare un capitombolo sul suolo, afferrandomi per i fianchi. Altro urlo di frustrazione.
«Sai cosa? Non mi servono!» comincio a blaterare, sfilandomi i tacchi a spillo altezza dodici centimetri dai piedi, per poi gettarli alla rinfusa sul pavimento della mia stanza. Mi alzo il vestito quel tanto che basta perché non tocchi terra mentre raggiungo l'armadio, estraendo soddisfatta le Vans che mi ha regalato Marco ed esibendole a tutti con orgoglio. Marco e Davide mi sorridono, Chiara e Jessica non sembrano tanto entusiaste della mia scelta stilistica. Differenza sostanziale: la prima cerca di sorridermi rassicurante, la seconda mi guarda solo inorridita per poi agitare le mani dicendo "non voglio vedere questo scempio!", mentre si allontana ancora verso la sala. Mi infilo comunque le scarpe che ho in mano, provando finalmente sollievo nel camminare. Dio benedica Paul e James Van Doren.
«Possiamo andare, adesso? Il testimone non può farsi attendere» chiede finalmente Davide, alzandosi dal mio letto mentre gioca con le chiavi della sua Jaguar, facendole roteare attorno all'indice grazie al cerchio del portachiavi. Per inciso, un giaguaro regalato da me. Jaguar, giaguaro. Faceva ridere di più due anni fa.
«Sì, certo, comportiamoci tutti come se Elissa non avesse messo delle sneakers sotto un abito da cerimonia!»
«Sta zitta, Jessica» la ammutolisco, prima di uscire dalla mia stanza richiudendomi la porta alle spalle.
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«Si è scordato le parole! Doveva dire: sì, lo voglio e si è scordato le parole! Eppure è la seconda volta che si sposa.» Inizio a rendermi conto dal mio sbiascicare che forse, forse, ho bevuto troppo vino bianco. Guardo il liquido ondeggiare nel bicchiere sul tavolo ad ogni mio minimo movimento, mentre il suono del basso che sta suonando Riccardo Santini mi fa da sottofondo. Non siamo tanti in questo ristorante, ma allo stesso tempo ci siamo proprio tutti: io, Marco, Davide, Jessica, Chiara, Luca, Maria e Giorgino siamo tutti allo stesso tavolo. Ci sono anche i genitori di Davide, poco distanti da noi, assieme ai miei nonni, cioè i gentiori di mio padre, e alla mia abuela. Non si voleva perdere, cito testualmente, el día mejor por suo figlio despues el matrimonio con Stella!
Per la madre di mia madre, papà è rimasto come un figlio. Ci tiene talmente tanto a lui che ha iniziato pure a mettere qualche parola italiana nei discorsi da quando mamma non c'è più, per farsi capire ora che non avevano "il traduttore". Ho sempre pensato fosse una bugia e che fosse solo un modo di abuela per dimostrargli affetto, visto che io lo spagnolo lo capisco benissimo e avrei potuto fare da mediatore, ma va bene così. Certe cose è meglio idealizzarle, fare finta di non saperle nonostante le si sappiano benissimo. Se si scopre tutto, la vita smette di essere un'eterna sorpresa. Abuela ha anche conosciuto Marco, cominciando a dirgli: «Si mi nena sufrirá por colpa tuya, te la verás con migo! Te voy a matar, no estory escherzando!»
Lui non ha capito bene parola per parola, ma credo che abbia afferrato il senso generale. Sembrava un po' spaventato, ma abuela faceva così anche con mio padre all'inizio. Ah, las mujeres andaluzas!
Sento il bicchiere sfuggirmi dalle mani prima che possa accorgermene, sorprendendo Marco a bersi tutto il vino che mi restava con un sorso. Dopo un attimo di confusione gli rifilo un colpetto sul braccio, che purtroppo lo fa solo ridere. Ride sempre, quando lo faccio. Ma che si ride?
«Sei davvero odioso, lo sai?» gli faccio notare, provando a riacchiappare il bicchiere. Ovviamente lo sposta prima che io possa afferrarlo, ma la testa mi gira troppo perché io possa anche solo minimamente pensare di vincere questa battaglia all'ultimo bicchiere. Sbatto la testa sul tavolo, tenendo il braccio destro a penzoloni proteso verso di lui. Di colpo lo lascio cadere sulla sua faccia, accarezzandone piano i contorni. Opzione A: fumo troppo e ho i neuroni bruciati; Opzione B: ho bevuto troppo e ho i neuroni bruciati; Opzione C: Marco è meraviglioso. La A la escludo, visto che non fumo da molto, mentre la B e la C le do' entrambe per buone.
Mi rimetto dritta di colpo, lasciandogli un bacio a stampo sulle labbra e procurandomi addosso uno sguardo sorpreso. Approfitto del momento di confusione per riprendermi il bicchiere e, inaspettatamente, il mio piano funziona. Questa volta ci verso solo un po' d'acqua.
«Guarda come scende» dico estasiata, riferendomi all'acqua che sto versando. Marco scoppia a ridere, dandomi una leggera scompigliata ai capelli che versano già in condizioni pietose. Sono sfuggiti praticamente tutti allo chignon che mi ha fatto Jessica stamattina, tanto che inizio a pensare che abbiano vita propria.
«Vorrei poter dire che sei ubriaca, ma credo che tu sia solo un po' strana.»
«Dio mio, Santini, non puoi suonare qualcosa di più movimentato?» Il suono del basso nella stanza si interrompe di colpo grazie alle parole di Jessica. L'unica risposta al perché Riccardo Santini stia suonando il basso al matrimonio di mio padre è: non avevamo abbastanza soldi anche per pagare qualcuno che mettesse la musica, Riccardo ormai si era auto invitato e abbiamo scoperto che suonava il basso. Visto che sarebbe venuto comunque, abbiamo tratto il meglio dal peggio. Ha ovviamente accettato di suonare gratis, ma ha detto che se lo faceva non avrebbe partecipato alla lista di nozze. Avevamo accettato.
«È difficile, con una platea poco movimentata!» si giustifica il ragazzo, allargando le braccia in segno di resa. Riccardo che si arrende e si lamenta, questa mi è nuova.
«Davide suona la chitarra» mugugno, affondando la faccia nel mio gomito. Che sonno. Non lo vedo, ma potrei giurare che il mio amico stia facendo una faccia sconvolta.
«Davvero?» gli chiede Chiara, seduta accanto a lui. Negazione fra tre, due, uno...
«No!»
«Invece sì, ed è anche bravo. Ti prego, vai a suonare qualcosa di Franchino o Gazzelle o chi ti pare, non ce la faccio più con queste lagne.» Riporto la testa in superficie, incrociando lo sguardo di Davide e pregandolo con gli occhi. Dopo un primo momento di ripensamento, si siede accanto a Riccardo e afferra la chitarra che il ragazzo si era portato dietro assieme al basso nella speranza che qualche invitato sapesse suonarla e lo accompagnasse.
«Poteva anche suonare Marco» si lamenta Davide, facendo ridere il mio ragazzo.
«Sono sicuro che tu sei molto più bravo di me.»
Finalmente riconosco le note di una canzone che mi piace appena Davide inizia a suonare e comincio a canticchiare la melodia di Stanza singola mentre ondeggio sulla sedia. Non devo essere un bello spettacolo, ma sento gli occhi di Marco addosso. Sento anche il suo dito picchiettarmi sul braccio, cosa che mi costringe a puntare gli occhi su di lui.
«Tutto okay?» chiede, amorevole. Io sospiro appena.
«Mi piacciono i matrimoni» rispondo, senza però centrare la sua domanda. No, non è perché sono ubriaca. «Però quello dei miei genitori non lo vedrò mai.»
Che cosa buffa, penso. O frustrante, da un certo punto di vista. In qualsiasi modo la si metta, non vedrò mai il matrimonio delle uniche persone a cui si ispira la mia visione di amore da quando sono bambina.
«Quelli potremmo essere noi.»
Cerco di capire dove indirizza lo sguardo Marco, ma mi rendo conto che non parlava di nessuno in particolare nella stanza. Quelli chi? Noi, io e lui? Non mi da' tempo di chiedergli spiegazioni che mi afferra per un polso e mi trascina in mezzo alla pista per ballare. Ridacchio, un po' perché la stanza gira e un po' perché non so assolutamente ballare. Vorrei confessargli che sono una frana in qualsiasi cosa che richieda un minimo di eleganza e di classe, ma prima che possa farlo mi stringe a sé.
«Comunque ventidue» dice. Corrugo la fronte, alzando lo sguardo per cercare di capire cosa stia dicendo. Oggi dice cose sconnesse, vai a vedere che è più ubriaco lui di me. Come se mi avesse letto la frase nel pensiero lo vedo ridere sotto i baffi. «Non sono ubriaco, oggi è il mio compleanno. Ventidue anni.»
Strabuzzo gli occhi, stringendo forte il tessuto della sua camicia bianca tra le mie mani. Il suo compleanno. Il suo compleanno è oggi e io non lo sapevo?
«Perché non me l'hai detto?»
«Te lo sto dicendo adesso.» Sorride, io sorrido con lui. Due sconnessi. «E poi neanche tu mi hai detto quando è il tuo compleanno.»
Mi fa fare una giravolta, come se il mondo non mi girasse già abbastanza, ma rido comunque. Non ho mai ballato con nessuno (N.B.: Davide non conta).
«Il quindici febbraio.»
Marco si ferma di colpo, guardandomi dritta negli occhi. Ora che c'è? Non capisco davvero cosa stia cercando di dirmi, in questo momento. La sua bocca si apre in un sorriso, poi si protende verso di me per stringermi più forte di prima, affondandomi la testa nell'incavo del collo. Una parte di me vuole sapere che gli prende, l'altra non vuole forzarlo a parlare di cose di cui non vuole parlare. Ho imparato anche grazie a lui che bisogna rispettare i tempi e le volontà delle altre persone: non puoi pretendere che qualcuno ti parli di sé, ma puoi fare in modo che quella persona prima o poi si senta nella condizione di farlo. Senza fretta. E così, senza fretta, anche lui fa uscire dalla bocca poche semplici parole.
«È il giorno in cui è morta mia madre.»
Spalanco gli occhi, continuando a stringergli la camicia tra le mani.
Quattordici luglio: nasce Marco, mio padre si risposa.
Quindici febbraio: nasco io, muore sua madre.
Chissà se in me rivede lei, ogni tanto. Chissà se anche io indosso il profumo di sua madre, come lui indossa quel Sauvage che tanto mi ricorda Augusto De Santis. Chissà se ai suoi genitori sarei piaciuta, perché lui a mia madre sarebbe piaciuto parecchio. Me la vedevo, Stella, a dargli dei colpetti dietro la nuca mentre lo vedeva andare in skate. Sarebbe stato bellissimo, ma non succederà. Non succederà, e va bene così. Pensare a come sarebbero andate le cose non le fa comunque succedere, perciò è inutile rinchiudersi nel ricordo di una cosa che neppure è accaduta.
Marco si stacca piano da me, afferrandomi il volto dentro le sue mani calde, lasciandomi un bacio lento sulle labbra. Un bacio che sa di "Mi sento a casa", "Ti ho trovato", "Non lasciamoci andare più".
Io, al per sempre, non ci credo da un pezzo. Non è cinismo, sia chiaro, ma limpida realtà: mia madre non c'è più, i genitori di Marco nemmeno. Non so dire se io e Marco raggiungeremo la soglia del per sempre, non so dire se ci sposeremo e avremo una vita lunga e felice come quella dei personaggi dei cartoni animati, ma una sola cosa la so: il futuro e il passato ti fottono. Il passato è andato, esisterà per sempre ma sarà solo un ricordo. Il futuro arriverà, ma pensare al momento esatto in cui ce lo ritroveremo davanti non fa che allontanarlo, un po' come il paradosso di Achille e la tartaruga. Più pensi di avvicinarti, più ti scopri ad essere sempre ugualmente lontano. Il presente, però. Il presente è tutto ciò che abbiamo. Questo conta, no? Perché quelli potremmo essere noi. Un giorno.
La musica della chitarra si ferma di colpo, mentre quella del basso ci mette un po'. Ci voltiamo tutti verso Davide, che afferra il microfono tra le mani sotto lo sguardo confuso degli invitati.
«Jessica, ti amo» dice, dopo aver preso un bel respiro. Non mi ero accorta che anche lui fosse così ubriaco. Cerco lo sguardo di Jessica, che tiene i suoi fanali azzurri puntati sul palestrato in piedi sul piccolo palco a poca distanza da noi.
«Ti amo talmente tanto che amo anche quando mi insulti o mi guardi storto. Amo quando ti vergogni davanti alle persone, ma rispondi scocciata a tutti per mascherarlo. Amo come arricci il naso quando una cosa non ti piace, cosa che a dirla tutta accade molto spesso.» Una risata si leva nella sala. «Amo come mi fai il cappuccino all'Hip Pub la mattina, ed Elissa sa benissimo che odio da morire il cappuccino.»
«Odia da morire il cappuccino» sottolineo, sollevando un'altra risata.
«Amo anche il tuo armadio completamente rosa, anche se a volte sembri una Barbie, come dice Chiara.»
Sono certa che Davide continuerebbe all'infinito, se Jessica non si alzasse dalla sedia per andare da lui. Mi aspetto che gli tiri un sonoro ceffone per averle dato della Barbie, invece lo afferra per il colletto della camicia, attirandolo a sé per baciarlo. Un applauso riempie la sala, mentre io penso solo che non ho mai visto Davide baciare qualcuno. Forse con Cristina Esposito nel duemila e diciotto? O forse con Marika Svevi nel duemila e sedici? Sinceramente me ne importa poco, perché i miei due migliori amici si stanno baciando. Sono davvero contenta per loro e se solo non fossi così ubriaca, quest'immagine mi riporterebbe a quando li ho visti nudi nel mio letto.
Aspetta, sono ubriaca. La stanza gira più del dovuto, adesso. Al passato non dovrei pensarci ma dannazione, potevo evitare di bere tutto quel vino. E ora chi mangerà la mia fetta di torta se svengo? E le foto? E l'amaro? Troppo tardi, il danno è fatto.
«Sto svenendo.»
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