22. Tra ospedali, rotture e inviti a cena

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In alcuni momenti mi sento in colpa. Ho vissuto la mia vita con il costante pensiero che uno dei problemi più grandi del mondo fosse non riuscire a chiudere un kickflip. Mi sono autoconvinta di poter essere l'unica ad aver sfiorato la depressione in seguito alla morte di una persona a me cara, come se pensassi che le persone che avevo intorno non avrebbero mai e poi mai potuto capire ciò che sentivo. Dopo aver conosciuto Marco però ho capito che la mia vita, in confronto alla sua, era quasi perfetta. Sua madre se ne era andata soffrendo per una malattia devastante, suo padre aveva deciso di seguirla all'improvviso lasciandosi indietro due figli e ora rischiava di perdere suo fratello per qualche centinaia di euro. Agli aggressori della volta precedente non era bastato pestare Marco riempiendolo di tagli e lividi, perché il loro problema era Luca: era lui che aveva giocato col fuoco e che quindi meritava di bruciarsi molto più di suo fratello.

Gli ospedali a me non sono mai piaciuti. Quel bianco sporco e pallido dei muri, quel freddo grigio dei soffitti, le luci forti e intense puntate in faccia fino a farti male agli occhi. Gli ospedali non sono come quello di Grey's anatomy, le persone non sorridono così tanto come in tv. Lo leggi nelle facce della gente per i corridoi che vorrebbero solo sparire, abbandonare tutte le sofferenze di quel luogo infernale. Da quando ci sono venuta per vedere i miei genitori dopo il loro tragico incidente, non ho voluto più metterci piede. Avvertivo ancora il terrore scorrermi lungo la spina dorsale se sentivo l'odore acre di un ospedale. Rivedevo mio padre steso in un letto, che dormiva inconsapevole del fatto che non avrebbe mai più potuto abbracciare sua moglie. Rivedevo i miei nonni seduti accanto a lui che gli tenevano la mano e che consolavano abuela, che non accettava di aver perso una figlia e di poter perdere anche colui che, ormai, un figlio lo era diventato.

Chissà Marco quante volte è stato in un posto come questo. Chissà quante volte ha dovuto chiedere di un suo familiare alla reception, quante volte ha portato dei fiori a sua madre sperando che un giorno sarebbe guarita. Chissà come si è sentito quando ha capito che però non sarebbe mai successo. È il vederlo seduto su questa sedia di plastica fuori dalla sala operatoria, con le mani sulla faccia e la gamba destra che trema, che mi spezza il cuore. Alza lo sguardo solo al suono della mia voce che lo chiama, con le lacrime agli occhi. Si mette in piedi ed io corro verso di lui, stringendolo più forte che posso, perché non voglio mai più lasciarlo solo davanti a nulla. Sento la sua presa farsi sempre più debole, fino a quando non si lascia cadere le braccia lungo i fianchi, quasi arrendendosi. Mi allontano di poco, per poterlo guardare negli occhi ormai spenti. Non vederlo sorridere, per me, è surreale. Io, che l'ho conosciuto sorridente e sempre con la battuta pronta, ora me lo ritrovo davanti così fragile. Gli afferro il volto fra le mani, mentre lui tiene lo sguardo puntato a terra, curandosi di non incrociare mai i miei occhi.

«Hey?» lo richiamo, cercando abilmente di nascondere le lacrime. «Marco, ti prego, guardami.»

Fa come gli dico, sospirando. Le lacrime incastrate nelle sue iridi gridano e scalpitano per scorrere lungo le sue guance, ma lui non accenna a dargliela vinta mentre punta quei meravigliosi occhi marroni nei miei.

«Come sta?» giunge la voce di Davide alle mie spalle, che mi ha accompagnato fino a qui. All'udire quella domanda, Marco perde quel briciolo di forza che teneva in equilibrio le lacrime e le lascia libere di cadere mentre sposta lo sguardo sul nostro amico.

«Non lo so, non lo so... l'hanno accoltellato, capito? Per qualche centinaia d'euro che non ha ridato indietro lo hanno accoltellato e l'hanno lasciato a morire per strada.»

«Sei sicuro che fossero solo una centinaia?» chiede Jessica, con le braccia incrociate sotto il petto. Marco la guarda in cagnesco, stringendo i pugni.

«Che differenza fa? La vita di mio fratello non vale di più?» chiede, tirando su col naso. Lo induco a piegare di nuovo il volto verso di me, per farlo calmare. Poggia la fronte sulla mia, cingendomi i fianchi con le sue mani. Per un attimo chiudo gli occhi, dimenticando di essere in un ospedale. Io me l'ero sempre sbrigata assieme a papà, da quando la mamma era morta. Avevo avuto lui con cui condividere la mia tristezza, avevo lui ogni anno per riguardare i video della mamma nel giorno della sua scomparsa. Marco non aveva mai avuto nessuno con cui aprirsi, ed era stato costretto a trascinarsi dietro tutto quel dolore per conto suo, senza condividerlo con altri.

«Andrà tutto bene» gli sussurro, aprendo gli occhi e accarezzandogli piano il volto. Marco trattiene le lacrime, stringendomi in un abbraccio e affondando la testa nell'incavo del mio collo.

«Tutte le persone a cui voglio bene si fanno male.» Lo dice sussurrando appena, come se la sua voce non sostenesse tutta quella sofferenza. Gli accarezzo i capelli piano, mentre sento Davide e Jessica alle mie spalle sospirare e sedersi. Apprezzo il fatto che siano venuti qui per me e Marco, perché so che nonostante siano di poche parole in realtà adorino il gruppo che abbiamo creato.

«Io sto bene» gli rispondo, sorridendo appena. All'udire quelle parole Marco sussulta e si allontana appena, prendendomi il volto fra le mani.

«Se facessero qualcosa anche a te solo perché stai con me? Se ti succedesse qualcosa non me lo perdonerei mai, io...» Premo le mie labbra su quelle di Marco, perché non credo esista un altro modo per farlo stare zitto ora. Mi allontano piano da lui, prendendogli le mani e stringendole forte nelle mie mentre tengo la fronte premuta contro la sua.

«Non mi succederà niente.»

«Come fai a...»

«Non succederà niente» lo blocco, per l'ennesima volta. Non mi sembra convinto, anche se annuisce e si siede dove era prima, con le gambe tremanti. Decido di mettermi accanto a lui, senza lasciargli la mano, poggiando la testa sulla sua spalla. Vorrei solo chiudere gli occhi e riaprirli scoprendo che si trattava semplicemente di un brutto sogno, svegliarmi nel letto di Marco e voltarmi vedendolo dormire vicino a me, senza lividi e graffi. Sarebbe tutto più semplice, no? Ma come mi ha insegnato Marco, la vita non è mai semplice. O almeno, non come un kickflip.

«Mi dispiace» sentiamo dire da Jessica, seduta nella fila di sedie dal lato opposto a quelle su cui siamo io e Marco. Entrambi alziamo la testa per guardarla ed io sento Marco stringere più forte la mia mano. «Non volevo dire che la vita di tuo fratello non vale nulla. Mi dispiace.»

Marco le sorride, mostrandole uno dei suoi sorrisi migliori prima di mettermi un braccio attorno alle spalle.

«Scusami se ho alzato la voce» le risponde lui, procurandole un sorriso. Noto solo ora che Davide stringe la mano di Jessica, cosa che mi fa sorridere. Da dopo quel piccolo scherzetto nel mio letto, non ho più sentito Davide lamentarsi del fatto che Chiara non sia etero.

Mi stringo a Marco, abbandonandomi ad un sospiro. Odio gli ospedali, ma devo essere forte. Per lui, per Luca. Per noi.

━ ✿ ━

«Sì, siamo tornati adesso. Non lo so, hanno detto che è fuori pericolo. Boh, qualche giorno.»

Marco alza gli occhi al cielo, lanciando le chiavi sul tavolinetto all'ingresso del suo appartamento. Mi dirigo verso la cucina per vedere se c'è qualcosa di commestibile nel frigo, anche se ne dubito, mentre Kento prima fa le feste a Marco per farsi accarezzare e poi mi zampetta dietro. Lancio un'occhiata al ragazzo, ancora al telefono con Chiara, che non essendo potuta venire all'ospedale con noi ha deciso di chiamare. Nemmeno conosce Luca, ma il suo animo altruista la induce a stare in pensiero come se fosse il suo migliore amico.

Dopo quattro ore di intervento i medici ci avevano detto che il coltello aveva sfiorato la milza, ma senza creare danni troppo gravi. In sostanza il peggio era passato, almeno fino a quando gli aggressori non si fossero rifatti vivi sempre più desiderosi di denaro.

Prendo dal frigo il salame, mostrandolo a Marco per cercare approvazione, che ottengo con un pollice alzato. Rido e mi metto a cercare anche il pane nella dispensa. Niente pasta zuccherata, per stasera.

«Sì, sì, sì. Non lo so che mangia stasera, Chiara. Sì, glielo posso dire che lo saluti, ma non ti conosce.» Scoppio a ridere appena sento quelle parole, trascinandomi dietro anche la risata di Marco. «No, scusa, c'è Elissa qui e sta facendo la cretina. No, non è una novità infatti...»

Sorvolo sul velato insulto, urlando uno "ciao Chiara!" e poi sento Marco attaccare. Trovato il pane mi dirigo verso il tavolo assieme a Kento, soddisfatta della cena che ho preparato, osservando Marco sedersi stanco su una sedia.

«Che ti ha chiesto mamma orsa?» chiedo, riferendomi a Chiara e aspettandomi una risata di Marco. La risata però non arriva e il ragazzo mi afferra una mano, unendo le mie dita alle sue. Alzo lo sguardo dal panino che sto preparando, incontrando le sue iridi spente. La gamba destra trema sotto il tavolo. Perché è così serio?

«Ascoltami, per favore» mi dice, impostato quanto un avvocato. Quasi tremo all'udire quel tono di voce, ma cerco di calmarmi. Che cosa potrebbe dirmi di tanto grave? Abbiamo superato tante sfide assieme, supereremo anche questa. Tiene la sua mano stretta nella mia, eppure sembra che non riesca a guardarmi in faccia.

«Che hai? Ti senti male?» riesco a chiedergli, sporgendomi leggermente verso di lui e stringendogli le dita con entrambe le mani. La gamba di Marco si muove ancora su e giù dal nervoso e solo dopo attimi di esitazione alza lo sguardo. I suoi occhi si perdono nei miei e li vedo cupi, scuri come non li avevo mai visti.

«Io non voglio che ti succeda niente» mi dice, senza smettere di muovere ora entrambe le gambe e facendosi venire gli occhi lucidi. Schiudo le labbra, dispiaciuta. Non può dover stare in pensiero anche per me, ora, visto quello che sta passando. «Prendiamoci una pausa. Lo dico per il tuo bene, Elissa.»

Quelle parole mi arrivano dritte in faccia, come uno schiaffo, uno di quelli che ricordi per tutta la vita. Ci si può prendere una pausa se si sta insieme da qualche giorno, mi chiedo? La risposta è sì, se siete Marco Testa ed Elissa De Santis-García.

«Una pausa?» ripeto, incredula, tirando indietro entrambe le mani. Marco stringe i pugni sospirando, premurandosi di non spostare lo sguardo su di me neanche una volta.

«Fino a quando non trovo i soldi per pagare il debito, almeno» specifica, come se questo potesse aiutarmi a prendere meglio la situazione. Si aspetta che mi alzi in piedi e urli "ottima idea! Ti lascio da solo contro dei criminali, perfetto."

Mi alzo di scatto, iniziando a camminare avanti e indietro per tutta la sala. Dovrà pur esserci una situazione che possiamo trovare insieme.

«Quanti soldi ti servono? Hai detto che non erano molti, no? Non ho ancora speso i soldi della vincita, ti do' quelli.»

Marco si alza e mi raggiunge, afferrandomi per le spalle per cercare di calmarmi. Incastro gli occhi nei suoi, cercandoci quantomeno la voglia di trovare una soluzione che non implichi il respingermi. Purtroppo non la trovo e la consapevolezza che abbia già deciso si fa strada nel mio cuore.

«No, Elissa. È una questione mia e di Luca, quei soldi servono a te.»

Senza nemmeno rendermene conto scoppio a piangere, così mi asciugo le lacrime con le mani velocemente, distogliendo ancora lo sguardo.

«Non puoi costringermi a starti lontana» mi lamento singhiozzando, provando a guardarlo in faccia attraverso la vista sfocata dalle lacrime. Sembro una bambina mentre lo dico, probabilmente anche agli occhi di Marco che mi asciuga le lacrime e mi lascia un delicato bacio sulla fronte.

«Io voglio proteggerti, Elissa. Sei la mia famiglia, adesso...»

Forse per la delusione o forse perché come al solito mi comporto da egoista, le mie lacrime si fermano. Come da copione la tristezza fa velocemente spazio alla rabbia, annebbiandomi ogni pensiero possibile.

«Ed è così che fai con la tua famiglia? La allontani? Beh, noi De Santis non facciamo così! Se c'è un problema lo affrontiamo insieme, ci diamo la mano e ci aiutiamo. Non ci spingiamo via!» L'ultima frase la urlo quasi, dando un colpo sul petto di Marco per allontanarlo davvero da me. Afferro il giubbotto che mi ha regalato Marco e mi dirigo verso l'uscita, sotto lo sguardo dispiaciuto persino di Kento. Mi fermo poco prima di afferrare la maniglia, voltandomi verso di lui che è fermo dove l'ho lasciato. A malapena alza lo sguardo, come se non sostenesse il peso di ciò che gli sto dicendo.

«Se solo tu per una volta ti facessi aiutare, Marco, sarebbe più semplice. Aiuti sempre tutti, ma se qualcuno vuole darti una mano ti rifiuti categoricamente!» stringo i pugni, guardandolo incapace di replicare. Sa che ho ragione, lo sa benissimo.

«Ho deciso così, ti prego di rispettare la mia scelta.»

Rialza il suo sguardo, che da cupo diventa anche più freddo di prima mentre pronuncia quelle semplici parole, che mi si conficcano nel petto come fossero coltelli affilati. Preferirei che urlasse, che mi allontanasse, che mi chiedesse lui stesso di uscire da questa casa. Invece se ne sta lì fermo, senza battere ciglio.

«Va bene, la rispetto. Richiamami quando avrai le palle di chiedere una mano alla tua famiglia» replico, calcando bene sull'ultima parola, uscendo una volta per tutte dall'appartamento di Marco che da giorni ormai mi fa da casa. Mi chiudo la porta alle spalle, poggiandoci la schiena mentre mi ci lascio scivolare contro. Fisso lo sguardo sul muro davanti a me, nella speranza che Marco apra il portone e venga ad abbracciarmi, chiedendomi scusa e accettando una mano. Non so dire con esattezza quanto tempo passi, ma so per certo che quella porta Marco non l'ha mai aperta.

━ ✿ ━

«Elissa, mi controlli se in magazzino c'è un trentotto di queste per favore?»

«Mh-mh.»

«Elissa, mi hai sentito?»

«Mh?»

«Elissa!»

Le mani possenti di Davide mi scuotono per le spalle, risvegliandomi dai miei pensieri. Lascio cadere sul ripiano della cassa la penna con cui stavo disegnando ghirigori sul blocco di post it che ho trovato, sbuffando.

«Sei fastidioso! Mi lasci stare?» mi lamento con un sospiro, tornando a tracciare linee sconnesse sul post it che ho a portata di mano. Sono abbastanza certa che queste linee stiano tracciando una M, perciò comincio a scarabocchiare tutto il foglio. Rialzo lo sguardo su Davide che stranamente non ha fiatato, ritrovandolo a guardarmi storto, stringendo i pugni per evitare probabilmente di picchiarmi.

«Ti lascerei stare se non fossimo al lavoro!» Le urla di Davide mi si infilano nelle orecchie fastidiosamente, come se qualcuno graffiasse una lavagna con le unghie. Lentamente. Da cima a fondo.

«Davide, fammi solo crogiolare nell'inutilità della mia esistenza» affermo, sbattendo la testa sul piano della cassa. Ammetto che non sarei dovuta venire oggi, ma ho avuto la brillante idea di coprire tutti i turni della settimana di Marco, oltre ai miei. Vai a fare del bene e vieni lasciata.

La mano di Davide picchietta sulla mia schiena e anche se inizialmente penso che lo faccia per consolarmi, capisco subito che lo fa solo perché vuole che io mi alzi. Probabilmente tra poco ricomincerà ad urlarmi contro perché siamo al lavoro e bla, bla, bla.

«Te l'hanno mai detto che non sai consolare?»

«Elissa De Santis!»

Sobbalzo, buttando un occhio all'entrata del negozio. Accenno un sorriso, sorpresa da tutta la voglia di vivere di questo mezzo matto che mi trovo davanti. Gli chiederei di vendermene un po', ma ho il dubbio che per stare così faccia uso di droghe e che fraintendendo me ne venda davvero un po'.

«Riccardo Santini» ricambio il saluto con la mano, mentre il ragazzo si avvicina alla cassa e poggia le mani sulle mie spalle. Mi sento leggermente privata del mio spazio vitale, così mi scambio un'occhiata con Davide che sembra essere a sua volta violato, come se lui fosse un prolungamento di me stessa.

«Non mi hai più risposto, EDS!» riprende Riccardo, scuotendomi leggermente. Aggrotto la fronte, capendo solo dopo che ha usato le mie iniziali per non ripetere costantemente nome, cognome e codice fiscale.

«A cosa?» chiedo, confusa. Con tutto quello che è successo, onestamente Riccardo Santini è stato il mio ultimo pensiero.

«Il mio invito a cena!»

Faccio scorrere gli occhi da Davide a Riccardo alla velocità della luce. Il mio amico alza gli occhi al cielo, quasi scocciato dalla sua sfacciataggine. Io, però, sono solo triste. Triste, arrabbiata e delusa. Oltretutto, ho letto da qualche parte che la gelosia risveglia l'amore.

«Venerdì. Venerdì va benissimo, per me.»

Davide mi guarda con gli occhi strabuzzati, come se stesse per avere un infarto, prima di abbandonarsi ad un urlo isterico persino peggiore di quello che ha rivolto a me prima.

«Venerdì voi che cosa?»

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