14. Tra cadute, pugni in faccia e Titanic

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«Falla girare, Jess!»

«Ahia!» la bionda cade con il sedere a terra, facendomi ridacchiare. Forse un po' ci godo a vederla atterrare con il suo culo da ricca sulla pista dello skatepark dove altre comuni anime povere sono cadute. Le tendo comunque una mano, per aiutarla a rialzarsi. La accetta volentieri e quando si rimette in piedi si spolvera i pantaloncini neri, aggiustandosi il top rosa pastello facendomi alzare gli occhi al cielo a causa di quel colore orrendo. Lei se ne accorge, ma ride comunque sotto i baffi mentre recupera il suo skate.

«Era da un sacco che non mi chiamavi Jess» dice la mia ex migliore amica sorridendomi come una deficiente. La guardo male, perché è evidente che io l'abbia fatto senza volerlo. Figurati se ho voglia di darle nomignoli affettuosi.

«Da quando mi hai abbandonata per la vita chic ai Parioli, mi pare.»

Jessica alza gli occhi al cielo come me poco fa, seguendomi mentre mi incammino verso l'uscita dello skate park. Sto morendo di sete e l'unica cosa che vorrei è un tè freddo al limone, adesso. Ma quando non ne ho bisogno, in fondo?

«Quando la finirai con questa storia?» sento chiedere dalla voce di Jessica alle mie spalle. Mi blocco di colpo, piantandomi in mezzo al marciapiede e voltandomi verso di lei per guardarla dritta negli occhi.

«Mai, Jessica, perché se non ti fossero finiti i soldi non ti avrei rivista nemmeno in cartolina! Sei sempre stata attaccata ai beni materiali, lo sei talmente tanto che nonostante tu e la tua famiglia siate ad un euro dallo sfratto non riesci a vendere una Porsche. Potevi continuare a uscire con me anche se vivevo alle popolari e non in una villa, lo sai? O magari pensavi che non avessi i soldi per comprare un telefono e parlassi con due lattine attaccate a uno spago?» le sputo addosso, con una rabbia cieca nello sguardo, tanto che Jessica sembra realmente dispiaciuta, mentre mi guarda quasi spaventata.

Mi ricompongo e riprendo il mio cammino, mentre la bionda biascica un "mi dispiace" che fingo di non sentire. Vorrei perdonarla, ma qualcosa mi frena. Chi mi assicura che dopo la gara, nel caso in cui la vincesse lei, sarebbe comunque mia amica? Se n'è andata una volta, potrebbe benissimo farlo ancora. La differenza sostanziale tra lei e mia madre era che lei aveva scelto di andarsene e abbandonarmi, mentre la mamma no, ma la mia paura di perdere qualcuno che amo resta sempre la stessa. Vorrei ancora che Jessica fosse di nuovo la mia migliore amica, vorrei non dover forzarmi di non ridere alle sue orribili battute solo perché devo ostentare un'antipatia che non riesco a provare davvero. Come fai ad odiare qualcuno che hai amato con tutta te stessa?

Arriviamo in silenzio all'Hip Pub, dove un Davide pensieroso ci aspetta seduto al bancone. Jessica saluta Fiore, per poi prendere il suo posto per iniziare il turno. Mi siedo sullo sgabello accanto a quello dove si erge Davide in tutta la sua muscolosità, anche se il ragazzo sembra non accorgersi né di me né di Jessica. Io e lei ci guardiamo, confuse da quel comportamento così insolito. Corrugo la fronte passandogli una mano davanti la faccia più volte, ma lui continua a sorseggiare dal suo bicchiere senza curarsi di me. Solo quando gli urlo il suo nome in un orecchio si sveglia, guardandosi attorno come risvegliato da un incantesimo e poi fissando i suoi occhi scuri nei miei. Sorride tristemente, tornando a bere la sua birra senza dire una parola.

«Si può sapere che ti prende?» mi anticipa Jessica, che si sta affrettando a riempire un bicchiere di vetro di tè al limone, senza che io le dica nulla. Forse un tempo è stata davvero mia amica. Mi passa il bicchiere e sorride, sorriso che mi trattengo di ricambiare, afferrando il bicchiere e portandomelo alla bocca.

«Chiara mi ha detto che si sta scrivendo... con una.»

Rido rischiando di sputargli addosso la mia bevanda, come già successo giorni fa quando mi aveva confessato di avere una cotta per Chiara, ma poi poggio semplicemente il bicchiere sul bancone dopo essere stata incenerita dal suo sguardo.

«Vedila così: non è che non le piaci tu, semplicemente non le piace il tuo organo riproduttivo. Pensa se avesse scelto un altro ragazzo invece che te. Almeno così è meno doloroso, no?» lo faccio ragionare, picchiettandogli la spalla con la mano. Lui continua comunque a guardarmi storto, facendomi capire perché siamo migliori amici. Jessica ridacchia e si abbassa per dare un bacio sulla guancia a Davide. Lui la osserva confuso, mentre io la fulmino con lo sguardo, ma lei non se ne cura affatto e alza le spalle.

«Non sono mora e non mi farò mai la frangetta come lei, però se vuoi...» non conclude nemmeno la frase, lasciando intendere che se Davide avesse voluto riprendersi e distrarsi da quella faccenda lei ci sarebbe stata.

Gli fa un occhiolino che però, stranamente, non ha nulla di malizioso. Sembra davvero solo lo sguardo di una persona che vorrebbe vederne un'altra felice. Così è la Jessica che conosco io.

Mi volto verso il mio amico, notando che ha curvato la bocca in un sorriso. Vedendo Davide sorridere finalmente sorrido anche io, ma poi la magia finisce quando si accascia sul ripiano del bancone, triste. Di nuovo.

«Io che pensavo di attirarla verso di me con i miei muscoli e lei che invece non vuole il mio ca...»

«Caro sostegno!» concludo io, visto che sta urlando e tutti i presenti ci stanno fissando. Jessica mi guarda, facendomi segno di portarlo via e nonostante odi darle ragione, mi rendo conto che Davide ha bevuto davvero troppo.

«No, no, il problema è proprio il mio ca...»

«Carissimo sostegno!» continuo ancora la sua frase, facendolo alzare dallo sgabello con forza e prendendolo sottobraccio, mentre dall'altro lato reggo la tavola. Sarà difficile metterlo su un autobus per tornare a casa, visto quanto pesa.

«Perché le più belle sono lesbiche?» riesce a chiedere piagnucolante, mentre usciamo dal locale.

«Mica vero, io sono etero.»

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Emetto un verso orribile e quasi disumano mentre tento di prendere otto scatole di scarpe impilate l'una sull'altra, per spostarle dall'ingresso al magazzino. Delle risate fanno da sottofondo, facendomi sbuffare indignata.

«Que te jodan, capullo! Vieni a darmi una mano invece di ridere come un perfetto imbecille!» riprendo Marco, piegando le gambe dallo sforzo. Lui inarca le sopracciglia muovendosi velocemente verso di me, per poi afferrare cinque delle otto scatole.

«Che significa quello che hai detto?» mi chiede, mentre gli sorrido sotto i baffi.

«Non lo vuoi sapere davvero» gli dico io, per poi superarlo ed entrare in magazzino. Poggio le scatole a terra, sventolandomi con la mano. «Sto morendo di caldo» affermo, voltandomi. Di scatto, però, Marco si lascia cadere le scatole dalle mani e mi spinge contro uno scaffale. All'inizio mi spavento, ma poi mi tranquillizzo quando sento la sua guancia premere contro la mia. Nessuno dei due ha il coraggio di parlare, così gli porto le braccia dietro il collo e lo stringo a me, rimanendo a sentire il suo profumo e ad ascoltare i suoi respiri. Incastra la testa nell'incavo del mio collo, lasciandovi un bacio lento che mi fa divampare. Non mi abituerò mai a stargli vicino, non in questo modo. Ha una dolcezza che mi fa sentire perfettamente a posto, quando sono con lui. Mi mordo il labbro inferiore spingendolo via all'improvviso, facendolo ridacchiare.

«Dio mio, non vedo l'ora che tu riesca a chiudere quel kickflip» si lascia sfuggire, sistemandosi un ciuffo di capelli che è scappato dalla mezza coda in cui li ha legati.

Rido di gusto, alzandogli il dito medio.

«Non mettermi fretta, capullo» gli intimo sorridendo, sfilandogli accanto per ritornare in negozio. È quasi ora di chiudere, ma un ragazzo è fermo davanti la cassa.

È Luca.

Mi sorride, probabilmente riconoscendomi, per poi afferrarmi per una mano e farmi fare una sorta di piroetta scomposta. Deduco che sia ubriaco, come prova l'odore di alcol del suo alito che mi fa storcere il naso.

«Elisa, la fidanzata di Marco!» dice mentre mi lascia andare ed io cerco di allontanarmi per non rischiare di essere intrappolata di nuovo dalle sue braccia possenti. Ho sempre avuto paura di quelli come lui, non sai mai che aspettarti da gente così imprevedibile.

«Elissa» lo correggo, cercando di non suonare spocchiosa per non farlo arrabbiare. Lui spalanca la bocca, come se avesse avuto un'illuminazione.

«Mbè, vero! Elisa ma co' due esse.»

Gli sorrido forzatamente e per fortuna Marco esce dal magazzino. Guarda prima il fratello e poi me, notando che sono leggermente spaventata, così mi si avvicina cingendomi i fianchi con il braccio.

«Che ti serve?» gli chiede Marco, cercando di mantenere la calma. Luca si porta una mano per grattarsi dietro la nuca, cercando di evitare lo sguardo del fratello.

«'Na cinquantina d'euro.»

Marco sbuffa una risata alle parole del fratello.

«No, trovati un lavoro come ho fatto io ed evita di spenderli tutti in alcol e droga.»

All'udire l'ultima parola Luca scatta, avvicinandosi di qualche passo facendomi sussultare e puntando un dito al petto di Marco, che si posiziona davanti a me come a farmi da scudo.

«Nun te permette, ho smesso 'co quella roba. M'hai capito?»

Luca ha cambiato totalmente tono, facendomi quasi raggelare. L'aria è pesante e Marco mi stringe sempre più forte come se avesse paura che io possa sfuggirgli da un momento all'altro.

«Allora che devi farci?» gli chiede  scontroso il fratello minore. Luca alza gli occhi al cielo e inizia a muoversi per la stanza, evasivo. Mi tranquillizzo quando noto che si è spostato da noi.

«Ma che te frega, dammeli e basta.»

Marco si infuria talmente tanto al suono di quella frase che lascia andare il mio corpo e avanza verso il fratello.

«Io me li sudo quei soldi, capito? Ogni centesimo di quelli che ti do' è un centesimo che detraggo dal mio stipendio povero già di suo. Ogni euro che do' a te è un euro sottratto alle mie fatiche in questo buco di negozio a sentire lamentele di clienti rompicoglioni» si ferma, respira e porta le braccia al petto, «quindi no, non "te li do' e basta".»

Luca stringe i pugni, non dice niente. L'aria è sempre più tesa, quasi come una corda di violino. Il respiro si blocca e sento di poter avere un altro attacco di panico dopo quello di ieri, ma per fortuna (o meglio sfortuna) Luca assesta un pugno inaspettato in faccia a Marco e poi esce di fretta dal negozio, insolitamente senza dire nulla di stupido. Mi precipito da Marco, che si lamenta del dolore tenendosi l'occhio con la mano.

«Hijo de puta!» grido dietro a Luca, per poi riportare lo sguardo su Marco che, ancora dolorante, si poggia al ripiano della cassa.

«Questo l'ho capito e ti ricordo che è mio fratello» si lamenta, inducendomi a scusarmi. Mi guardo attorno, cercando qualcosa da poter mettere sull'occhio di Marco per evitare che si gonfi più del dovuto, ma non trovo niente di vagamente utile.

«Se vuoi a casa dovrei avere del ghiaccio, oppure...» Marco mi mette una mano sulla bocca per farmi stare zitta e la ritrae quando vede che ha funzionato e che lo sto fissando con gli stessi occhi apprensivi che aveva lui, mentre svenivo sul tappeto di casa.

«Non fa niente. Non è la prima volta» afferma, riducendo il tutto ad un sussurro triste. La luce del Sole che inizia a tramontare penetra dalle vetrate del soffitto del corridoio, facendo luccicare il sangue che Marco perde dal taglio sulla fronte. Allungo una mano sul pacco di fazzoletti dietro la cassa, iniziando a tamponare dopo averlo imbevuto con un po' d'acqua presa da una bottiglietta, cercando di non fargli male.

«Perché fa così?» riesco a chiedere, triste. Se io avessi un fratello di sicuro non lo tratterei in questo modo, soprattutto se all'infuori di lui non avessi nessuno.

Sento Marco sospirare e lo guardo, smettendo di tamponargli la ferita.

«Non l'ha mai presa bene. Io ho reagito più lucidamente, lui non ci è mai riuscito. Ricordo quando gli ho telefonato quel giorno, quando ho trovato mio padre. È tornato a casa, ha visto la scena ed è uscito. Non l'ho sentito per una giornata intera, non so ancora cosa abbia fatto.» Sospira ancora, poggiando la testa sulla mia spalla. Sorrido istintivamente, per poi stringerlo a me accarezzandogli la schiena.

«Non dovrebbe trattarti in questo modo. Soprattutto perché non avete nessun altro.»

Marco alza lo sguardo, sorridendomi appena e accarezzandomi la guancia col suo solito fare dolce.

«Io ho te, ora.»

Gli sorrido anche io, pensando che finalmente ho qualcuno al mio fianco capace di rendermi felice. Ho passato gli ultimi anni da sola con Davide, senza avere altri amici all'infuori di lui. Mi è sempre stato accanto, anche nei momenti in cui avrebbe solo voluto sbattere la testa contro il muro da solo. Invece stava con me, mi sosteneva, mi tingeva i capelli di colori improponibili, mi aiutava a tagliare i pantaloni vecchi per farne degli shorts, riincollavamo le suole scucite delle mie Vans assieme. Mi rendo conto solo ora che forse sono io a non aver mai fatto nulla per lui.

«Comunque prima ti ho detto "fottiti, coglione" in spagnolo.»

━ ✿ ━

«Birretta?» dico, spalancando la porta di casa di Davide, di cui ho ovviamente una copia delle chiavi proprio come lui della mia. Nel suo caso, il padre non era molto felice che io ce le avessi, dato che gli ho raccontato più volte di tutte le cose che ho perso nella vita. Portafogli, cuffie, telefoni...

Richiudo la porta con il piede, mentre esibisco al ragazzo seduto sul divano dell'imponente sala la confezione di birra. Il mio migliore amico la guarda, quasi confuso.

«È al limone?» chiede, deluso. Guardo la cassa e poi guardo lui, storcendo la bocca in una posa quasi innaturale e delusa.

«È più buona» mi lamento io, per poi sedermi accanto a lui, lasciando lo zaino che mi porto dietro all'ingresso. Premo un tasto facendo spuntare da sotto il divano il poggiapiedi. Adoro venire a casa di Davide. Anche perché c'è lui, ovvio.

«Con quella non mi ubriaco nemmeno entro domani» si lamenta lui in risposta, stringendosi nelle spalle e tornando con lo sguardo sulla tv. Poso gli occhi sullo schermo, incredula. Sta seriamente guardando Titanic?

«Davide, si può sapere che hai? Okay, Chiara è lesbica, ma fa niente!»

Il ragazzo mi fulmina con lo sguardo, facendomi sentire quasi in colpa per aver osato proferire parola con una tale energia.

«Fa niente? Io la amo!»

Mi do' uno schiaffo sulla fronte, sperando di potermi finalmente svegliare da questo incubo che oso chiamare ancora vita.

«Sai almeno qual è il suo colore preferito?» gli chiedo, portando le braccia al petto e voltandomi leggermente verso di lui. Davide mi osserva con la coda dell'occhio, alzando le spalle.

«Boh, giallo. Ma che ne so!» risponde svogliato. Scuoto la testa.

«Quasi, è arancione» lo correggo, beccandomi l'ennesima occhiataccia di cui, questa volta, non mi curo. «Ha fratelli o sorelle?»

«No?» afferma Davide con gli occhi marroni ancorati ai miei, intonandola più come una domanda. Alzo gli occhi al cielo, sbuffando.

«Sì, ha una sorella più piccola che ha sedici anni!» Davide sbuffa più forte di me, quasi scocciato da quella mia pioggia di domande per cui non ha risposta.

«Che vuoi dimostrare con questo? Che se non so qual è il suo colore preferito e non so da quanti membri è composta la sua famiglia, allora non posso amarla?»

Mi avvicino a lui, poggiando la testa sulla sua spalla ed accarezzandogli il bicipite pompato dai mille esercizi fisici che fa.

«Voglio dimostrarti che le persone vanno conosciute a fondo, Davide. Io e Marco ci eravamo accorti che Chiara fosse lesbica, ma tu no, sai perché?» Segue un attimo di silenzio, che mi induce a continuare. «Perché ti sei ingenuamente fermato al suo indubbiamente bell'aspetto, alla sua gentilezza e alla sua cordialità pensando di essertene innamorato, senza guardare altro. Se l'avessi ascoltata ti saresti reso conto che durante il giorno faceva troppi apprezzamenti a Kristen Stewart.» Sento Davide alzare le spalle, facendo muovere la mia testa.

«Ma che ne so, anche tu fai apprezzamenti su Scarlett Johansson.»

Sbuffo una risata.

«Sì, ma io non dico mai mentre guardo una sua foto, è uno dei motivi per cui sono diventata lesbica

Davide si volta di scatto verso di me, che sono costretta a sollevare la testa per ricambiare il suo sguardo perplesso.

«L'ha detto davvero?» domanda, sconvolto. Non riesco a trattenere una risata divertita, questa volta facendo sorridere anche lui.

«Vedila così: se Rose fosse stata lesbica, Jack non le avrebbe lasciato il posto sulla tavola e sarebbe ancora vivo» lo faccio ragionare io, portandomi in grembo la confezione di birra per prenderne due e passarne una al mio amico. Lui afferra la bottiglia e fissa lo schermo per un po', per poi spalancare gli occhi come colto da un'illuminazione improvvisa.

«L'eterosessualità di Rose ha ucciso Jack.»

«L'amore per la patata l'avrebbe salvato.»

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