9.
Il dottor George porta sempre quella stessa giacca. Nera, di un cotone che pare flanella, liscia ma piena di granuli. La prima volta che Keigo l’ha vista ha pensato che fosse un medico senza granché di etica. Uno che va in giro vestito di stracci non fa una buona impressione, ma col passare dei mesi ha dovuto ricredersi. L’abito non fa il monaco.
George scribacchia sul block notes, con la penna che scrive a tratti. Keigo è disturbato da quel continuo ricalcare le stesse parole, dal gesto tranquillo che fa il suo terapista. Quando glielo dice, lui abbozza un sorriso.
«Ti dà davvero fastidio, Keigo? O è solo il tuo cervello che prova a distrarsi?»
«Non ne ho idea. Ma le sarei grato se smettesse di farlo.»
Mi dai i nervi, vorrebbe aggiungere, ma chiude la bocca e si infila le unghie nei palmi. Non deve essere maleducato. George almeno, è l’unico che lo ascolta. Dietro compenso, ma lo ascolta sempre. E a volte gli dà anche dei consigli. Consigli brevi e non sempre funzionanti, ma pur sempre consigli.
Non pare farci caso però, perché continua a scribacchiare come se nulla fosse. Quando finisce un rigo, solleva lo sguardo e glielo punta addosso. Il quadro dietro di lui pare sformarsi.
«Quindi hai litigato con il tuo ragazzo?»
«Enji non era il mio ragazzo.»
George annuisce, ha un mezzo sorriso sulle labbra. Non lo sopporta proprio quando fa così. Ha anche provato a cambiare terapista, ma non è mica così semplice. Ci sono passaggi e burocrazia sotto, strati e strati di pianificazioni e consensi con liberatorie per i dati. I suoi dati personali e quelli in quanto personaggi pubblico. Hero. Keigo non credeva che diventare qualcuno che salva le persone fosse così complicato.
Da bambino sognava solo di avere un lavoro, un tetto sulla testa e una stufa. Una fottuta stufa che lo scaldasse durante le notti d’Inverno, perché a casa sua non ce l’aveva mai avuta. Sua madre piangeva tutto il tempo dicendo che aveva freddo. Il padre la scaldava con gli schiaffi. In pieno viso, come ventagli giganti sulle guance.
Quando lo dice a George, lui annuisce.
«Quindi ti sei innamorato di Enji perché ti ricordava tutto quello che hai sempre - inconsciamente - desiderato di avere?»
«Cosa? Cosa sta dicendo?»
Vorrebbe davvero non aver capito.
Ma ogni parola di George lo trapassa come un proiettile e lo fa sanguinare sulla moquette marrone cereali. Gli sporcherà tutto il pavimento, pensa. Sporcherà tutto e dovrà scusarsi, riparare i danni. Come fa da una vita. Gli fa anche male la pancia. Ultimamente gli fa sempre male la pancia, lo stomaco, le ossa. George glielo ha già detto che non può farlo ricoverare per forza, ma che può tranquillamente avvertire le autorità e farlo portare in ospedale.
Keigo non ci vuole andare. Non vuole metterci neppure la punta del piede.
«Sto dicendo che ti sei innamorato di Enji perché ti ricorda la stabilità, la forza, la protezione che da bambino sognavi di avere una volta adulto.»
«Dottore, senza offesa, ma lei che cazzo ne sa?»
«Io nulla, Keigo. Ipotizzo in base alle cose che mi racconti. È il mio lavoro.»
È impressionante il modo in cui non si scomponga neppure di un millimetro. Pare fatto di cemento. Batte le palpebre, si aggiusta gli occhiali sul naso.
«Tu senti mai la mancanza della coda, Keigo?»
Coda? Gli chiede confuso. Non ho mai avuto una coda, gli dice. E pensa alle sue ali. Alle ali che gli hanno strappato via, quelle che non gli riscrescono più. Inconsciamente una mano scivola sulle spalle, si sfiora le scapole nude, il cotone morbido della felpa. Ricalca il sentiero delle ossa con i polpastrelli. È rachidico ora. George non glielo fa notare, ma gli chiede sempre se mangia. A Keigo basta annuire per farlo stare buono.
«Noi umani avevamo la coda prima.» spiega, ritto sulla sedia. Il quadro sulla sua testa è largo e rettangolare come un pezzo di carta. Ha spennellate su migliaia di colori, ma il rosso risalta su quello sfondo come un pugno.
Keigo lo fissa fino a sentire male agli occhi.
«Avevamo una coda che abbiamo poi perso. Alcuni se la sentono ancora.»
E quindi? Gli domanda Keigo. Gli sembra una perdita di tempo questa conversazione. Scruta fuori dalla finestra, George torna a parlare.
«La sindrome della coda fantasma. Ecco, vedi Keigo, tu hai come la sindrome della coda fantasma, ma in riferimento al tuo cuore. Senti la mancanza di quello che volevi. Ora che ce l'hai, ti sembra di non aver più un senso. Hai perso la coda e la rivuoi. Anche se ti era d'intralcio.»
«Rivoglio una coda?»
George annuisce. Spinge gli occhiali sul ponte del naso, lo guarda con curiosità.
«Rivuoi la tua coda.» ripete. «Rivuoi la coda e vuoi smettere di avere paura. Vuoi aggrapparti a qualcuno e ai suoi obiettivi.»
E che devo fare? Che cazzo devo fare per smetterla di farmi del male? Strilla. Tutto lo studio traballa, lo sente inclinarsi a mezz'aria, spostare l’asse centrale ai lati, il soffitto si rovescia, il pavimento va su. Chiude gli occhi. Respira. La voce di George è un respiro lento e doloroso. Lo lascia entrare nelle orecchie. Quando riapre gli occhi il magone che gli pesa sullo stomaco è come un nodo.
Mentre esce dallo studio, ripensa alle parole che gli ha detto George. Scende le scale, si aggrappa alla ringhiera. Gli fa male il petto, gli fa male la testa.
Ha fame.
Per la prima volta dopo mesi, ha fame.
Scende in strada, il caos della auto, della gente, gli fa rizzare i peli. Sgambetta fino a raggiungere un negozietto di yakisoba. Conosce il proprietario, gli sorride. Il vecchio si sofferma sulle sue occhiaie, tira le labbra in una riga di pietà.
«Cosa ti porto?»
Keigo ingoia la nausea, risponde con un sorrisetto.
«La specialità della casa.»
Il vecchio annuisce, gli indica il bancone, i tavoli. Siediti dove vuoi, torno subito. Keigo lo guarda scomparire, scruta le persone attorno a sé. Si siede all'angolo, le mani sulla tavola, lo stomaco aggrovigliato.
Una mano gli bussa sulla spalla, si volta, riprende quel sorriso che aveva perso prima.
«Sei già tornato-»
Davanti a sé però, non c’è il signor Moi, di lui non c’è niente. Al posto suo ci sono due occhi giganti, pennellate di rosa, ciocche ramate. Sorride come se non avesse alcun pensiero al mondo, con lo zaino sulla spalla e una mano a reggere la bretella.
«Mi scusi, quel posto è libero?»
Keigo vorrebbe scuotere la testa, dirgli che sì, certo che è occupato, che vuole stare da solo e basta, ma le parole gli muoiono in gola. Scrolla la testa, leva la borsa che si porta dietro.
Le parole di George gli risuonano in testa come una girandola.
"L’unico modo che hai di recuperare la tua coda è solo innamorandoti di nuovo."
«No, è libero.»
FINE
🪽
Spazio autrice:
Vorrei dire giusto qualche parolina prima di salutarvi. Per cominciare, buon anno nuovo a tutti. Quest'anno s'è concluso con questo progetto inaspettato. Avevo promesso a me stessa di non scrivere più di Keigo, almeno per un bel periodo, perché lo sentivo troppo simile a me, troppo attaccato. I suoi dolori erano i miei, le gioie non m'appartenevano. Questa è nata come una os, non doveva contare più di 6000 parole, ma ho sentito la necessità di dividerlo. Era troppo perfino per me. Così è nato Keigo Takami, il ragazzo - l'uomo - distrutto tra queste pagine. Vorrei poter dire che questa ship mi è inusuale, ma non sarebbe la verità. Questa ship è stata una delle prime che ho amato. Non smetterò mai - mio malgrado - di pensare che Keigo amerà sempre Enji.
Detto questo, mi sono dilungata anche troppo. Come avete notato questo stile è abbastanza diverso dal mio solito, ma visto il brutto blocco mi sono buttata. È uscita così, l'ho lasciata crescere ed eccoci qui, alla fine.
Mi farebbe davvero piacere sapere cosa ne pensate voi, se vi va lasciate qualche commentino!
Ci saranno ancora altri progetti, alcuni perfino più "bizzarri" di questo, - non posso promettere riguardo il dolore - uno di questi riguarderà proprio la mamma di Izuku, Inko. Sarà un bel salto nel passato riguardo come l'ho immaginato io. Spero mi seguirete anche in questo viaggio, intanto grazie davvero per essere arrivati fin qui, vi dono un bel 🧁
Alla prossima,
-Lilla
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top