2. Giorno uno

Quando la macchina si ferma do un'occhiata fuori dal finestrino oscurato a quella che tra poco sarà la mia nuova "casa". È un ospedale psichiatrico da qualche parte in Inghilterra, poco distante da Manchester e, dall'aspetto, sono quasi sicura che non sia neanche a norma. Ma il fatto che sia l'unico di questa zona non ne fa una tragedia.
Deglutisco scendendo dalla macchina. Il carabiniere che è venuto a prendermi a casa stamattina mi strattona per un braccio conducendomi verso i cancelli d'ingresso.
-Non sto opponendo resistenza, puoi anche essere più delicato- gli faccio notare.
Lui ride amaramente.
-Pensi che me ne importi qualcosa? Sto solo facendo il mio lavoro, una volta là dentro non sarai più un mio problema –
-E questo hai il coraggio di chiamarlo lavoro? – inizio.
-Prendile lo zaino, è sul sedile posteriore dell'auto – ordina lui al suo collega, ignorandomi completamente.
-Pensate di star facendo la cosa giusta solo perché la legge ve lo impone, – continuo – vi limitate ad obbedire allo Stato perché vi dà una casa e i soldi per pagarla ma non vi rendete conto che siete soltanto schiavi, destinati a diventare le marionette di un sistema del cazzo che un giorno vi annienterà tutti – urlo prima che il poliziotto molli la presa per passarmi alla guardia all'interno dell'edificio senza concedermi la soddisfazione di una risposta.
Le porte si richiudono alle mie spalle e le mie parole riecheggiano nel silenzio dell'ospedale.
Mi asciugo rapidamente una lacrima.
Probabilmente sto diventando davvero matta. Beh, non mi dispiacerebbe: almeno avrei un motivo valido per stare qui.
-Co-me-ti-chi-a-mi? – pronuncia sillabando un signore di mezza età al bancone d'ingresso. Deve credere che sia stupida. O sorda. O entrambe le cose.
Stringo gli occhi per leggere il suo nome sul cartellino: Marco.
Penso che questo Marco potrà essermi utile.
-Cate – rispondo fingendo un mezzo sorriso.
-Il tuo vero nome – mi riprende la sua collega (una tipa sulla trentina con addosso una camicetta troppo scollata e una gonna troppo corta) masticando rumorosamente una cicca mentre controlla il contenuto del mio zaino.
Estrae da esso il mio cellulare e, dopo essersi assicurata che sia spento, lo butta in un cassetto della sua scrivania.
Alzo gli occhi al cielo. Non mi importa. Ormai non funzionava nemmeno più e non l'ho mai utilizzato granché.
-Che c'è? Cate ti sembra un username per Instagram? – sbuffo.
-Senti, prima impari a fare quello che ti diciamo e prima passeranno questi dodici anni – mi consiglia la guardia come se il mio tempo di permanenza qui sia roba da qualche minuto.
-Cateline Russel – mi arrendo.
-Caterina Rossi – ripete lentamente Marco digitando altrettanto lentamente le lettere al computer.
-Nono, Ca-te-li-ne Rus-sel – ripeto.
Lui mi guarda sorridendo.
-Sì, Caterina Rossi, ti ho appena registrata – afferma convinto.
-Ma che problemi ha questo con i nomi inglesi? –
-Ha origini italiane – mi spiega la guardia.
Intanto vedo la tipa continuare a rovistare nel mio zaino e buttare nel secchio della spazzatura il mio pacchetto di caramelle alla mela.
Questa vuole morire.
-Ehi, no, ne ho bisogno. Non sopravvivo un'ora senza quelle caramelle – cerco di farle capire nel modo più educato possibile.
-Qui mangerai solo quello che ti daremo noi. Senza capricci – mi ammonisce lei. Non iniziamo affatto bene.
-Questi che cosa sono? – mi chiede prendendo dallo zaino il mio album da disegno con i pastelli.
-A te che sembrano? Cartine? – ironizzo.
-Quindi ti piace disegnare? Bene, potrai tenerli, potrebbero aiutarti a superare le crisi – dal tono della sua voce sembra passare quasi un filo di compassione.
Sì, le crisi di mia sorella, penso.
Odio il fatto che mi credano realmente malata.
Ma non ho alternative.
Devo stare qui.
Per dodici fottutissimi anni.
-Io mi chiamo Anne, per qualsiasi problema puoi rivolgerti a Matt che controlla la tua sezione e lui lo dirà a me – spiega facendo un cenno con la testa alla guardia che continua a stringermi il braccio.
-Ti è permessa un'uscita al giorno, di dieci minuti, nel cortile antistante l'ospedale e sotto la supervisione di un responsabile. La mattina verrai svegliata dall'allarme dell'edificio alle 9 per prendere le tue medicine e la sera devi aver spento le luci alle 10 – Nemmeno un bambino di sette anni ha questi orari – Porta rispetto al personale altrimenti pagherai i tuoi comportamenti rinunciando alla cena o all'uscita giornaliera. Ci sono domande?–
-Preferisce che la chiami Anne o Signora maestra? – sorrido.
-Stai attenta. Non ammettiamo quest'insolenza all'interno del nostro istituto. Anzi, faresti meglio a parlare solo se strettamente necessario. Portala alla sua cella e informa l'infermiera del suo arrivo, penserà lei a somministrarle le pasticche – ordina poi a Matt.
Lui obbedisce.
Mi conduce al secondo piano e attraverso uno stretto corridoio arriviamo alla mia sezione. Visto da fuori questo edificio sembrava molto più piccolo.
Matt apre la mia cella e mi fa cenno di entrare.
Poi mi lascia lo zaino e chiude nuovamente il cancello prima di andare via.
Di poche parole questo Matt.
Ormai sola, mi guardo attorno: è una piccola stanza con un letto appoggiato alla parete destra e la scrivania e l'armadio a quella sinistra. È illuminata solo da una piccola finestra sotto la quale c'è il calorifero, probabilmente spento perché, nonostante siamo a settembre, qui dentro fa freddissimo. Uno stretto bagno di servizio è sul lato del letto.
Le pareti bianche sono interrotte da diverse crepe e il soffitto è sporco di muffa. Tuttavia, è sicuramente più grande di quanto lo fosse la mia stanza nella casa di Manchester.
Eppure mi piaceva così tanto quella piccola villa.
Ogni oggetto di quella casa era impregnato di ricordi, ogni profumo, ogni rumore. Probabilmente adesso che non c'è più papà con la radio accesa o mamma in cucina a provare qualche nuova ricetta, mi sembrerebbe soltanto estremamente vuota e triste. Forse è meglio trovarmi qui, lontana da tutti, lontana da mia sorella.
Ho bisogno di stare da sola, di poter soffrire per la morte dei miei genitori senza far pena a nessuno, senza che nessuno debba preoccuparsi di consolarmi.
Chiamalo orgoglio, o amor proprio, ma sono stanca di essere compatita. Voglio essere capita. Voglio che, almeno per una volta, non sia io a chiedere aiuto, a cercare conforto, ma che siano gli altri ad offrirmelo.
Non voglio che le persone mi stiano vicine, voglio qualcuno che mi stia accanto. E non me lo faccia pesare.

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