1. Giorno centoquarantasette

Mi sveglio di soprassalto sicura che nemmeno stamattina sia stato l'allarme a interrompere il mio sonno.
Mi tolgo ogni dubbio quando leggo 2:47 sulla sveglia. Nicole deve smetterla di urlare nel bel mezzo della notte ogni dannatissima notte. La riempiono di farmaci dalla mattina alla sera affinché riesca a sbarazzarsi degli incubi e delle ansie ma sono mesi che ormai non fanno più effetto. Come d'altronde tutto in questo posto. Pensano di poterci aiutare, di essere in grado di migliorarci ma la verità è che questa società ha paura del diverso e si rasserena con la sicurezza che sia chiuso dietro le sbarre, dove non può far male a nessuno se non a sé stesso.
Ma il sistema non sa che i pazzi sono tutti fuori dai manicomi.
Io nemmeno dovrei starci qui dentro, ed ogni giorno, pensando ai miei genitori, mi pento della scelta che ho fatto, considerando l'idea di poter dire la verità e lasciare che sia la vera colpevole a pagare; ma poi penso a mia sorella, a cui volevo bene più di tutti. E penso che tra quattromiladuecentotrentatré giorni quest'incubo sarà finito e potrò tornare... da qualche parte. Non ho più idea di quale sia la mia casa ora che i miei genitori sono morti.
A loro penso spesso. La cosa positiva nello star chiusa in quello che gli altri chiamano educatamente "Ospedale Psichiatrico Giudiziario" (per gli amici OPG) è che hai molto tempo per pensare. Sono centoquarantasette giorni che non faccio altro. E il fatto che la ragazza della cella a sinistra della mia svegli me, che già ho problemi di insonnia, puntualmente sei o sette ore prima del dovuto di certo non mi toglie tempo.
Mi rigiro più e più volte nel letto sperando di riuscire a riprendere sonno, ma fallisco miseramente. Mi avvicino alle sbarre della mia cella e con uno "psss" cerco qualcuno che sia sveglio come me. Ennesimo inutile tentativo: in questa sezione sono tutti dei ghiri e nemmeno le urla di Nicole riescono a disturbarli minimamente. Sospiro. A volte mi chiedo se sono io quella strana. Ed è sicuramente sensato porsi questa domanda all'interno di un manicomio.
Prendo un foglio dal tiretto della scrivania e inizio e scarabocchiarci su qualcosa. Mi è sempre piaciuto disegnare: mio nonno era un pittore e molto probabilmente sono stati i suoi dipinti a far nascere in me questa passione. La matita sa sempre come rendere reale e tangibile quello che, anche solo per un istante, mi passa per la testa, a volte senza che io neanche me ne accorga. La mano si muove da sola rapida sul foglio, ed io non faccio che calcare di meno o maggiormente a seconda di ciò che sto disegnando. L'arte non ha filtri, è vera. Per questo motivo l'ho sempre preferita alle persone.

Dopo mezz'ora curva sul foglio do un'occhiata a quello che sta prendendo forma e vedo i profili dei miei genitori incastrati nel grigio steso dalla mina. Mi mancano. Chissà come si sta lassù? Chissà se papà riesce anche lì a collezionare tappi da sughero, come ha sempre fatto, o se la mamma ha già fatto nuove amicizie? Lei è sempre stata brava con la gente, non ha mai trovato alcuna difficoltà nell'interagire con persone nuove ed era amata da tutti.
Non mi hanno dato la possibilità di essere presente al loro funerale, ma sono sicura che ci fossero tantissime persone.
Mi sarebbe piaciuto avere almeno la metà del loro carattere, della loro forza. Sono sempre stati uniti nonostante tutto e sapevano sempre dire o fare la cosa giusta nel giusto momento.
Mi asciugo una lacrima prima che cada dal mio viso e bagni il foglio. Spengo l'abat jour e torno nel letto per l'ennesima notte in bianco.

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