Capitolo 7 - Il fungo
Nel momento in cui si ritrovò a varcare i cancelli del parco pubblico, dieci minuti più tardi, Alessandro doveva ancora metabolizzare del tutto lo shock causatogli dal brusco allontanamento di poco prima. Non gli piaceva uscire col brutto tempo, e in quel giorno in particolare l'ultima cosa che avrebbe voluto era ritrovarsi a passeggiare senza meta nei dintorni del suo quartiere.
Anche con tutta la buona volontà definire interessante Villanuova sul Lambro risultava difficile.
Nei fatti si trattava di un piccolo paesino ad una decina di chilometri da Monza, provvisto di un cinema, qualche negozio, la biblioteca e il parco pubblico. Escludendo una chiesetta del duecento e il cimitero non restavano molti altri luoghi di svago. Ammesso che qualcuno con meno di settantacinque anni li potesse definire così.
Sarebbe sempre potuto andare a trovare suo padre all'ortofrutta che gestiva in centro, ma dato che prendere la biciletta nelle sue condizioni avrebbe rappresentato un suicidio, alla fine preferì ripiegare su qualcosa di fisicamente meno stressante.
Tutto ciò che voleva era trovare un posticino tranquillo in cui sedersi ad aspettare senza essere disturbato. Prima di pranzo mancavano ancora quasi quattro ore, e nonostante avesse dormito fino a tardi non si sentiva affatto riposato, manco fosse reduce da una nottata in bianco.
Magari avrebbe potuto schiacciare un pisolino. Sempre che non iniziasse a piovere. Da questo punto di vista il cielo plumbeo sopra di lui non prometteva niente di buono.
Tuttavia, almeno stando a sentire le previsioni su internet, prima di quella sera sul tardi non sarebbe dovuta cadere nemmeno una goccia. Per questo non aveva preso l'ombrello.
I tre sentieri di ghiaia che serpeggiavano attraverso il tappeto erboso si incontravano tutti nei pressi di un grosso platano situato al centro del parco pubblico, per poi procedere in direzione dei rispettivi ingressi, collocati alle opposte estremità di quella vasta zona verde.
Nonostante fosse sabato, Alessandro non vide altri visitatori nei paraggi.
Persino il parco giochi risultava deserto sebbene le sue attrazioni, consistenti in una giostra divorata dai tarli, alcuni cavallucci a molla arrugginiti e un'altalena con entrambi i sellini sfondati, non potessero certo dirsi particolarmente accattivanti.
In ogni caso, non potendo escludere a priori che qualche visitatore decidesse di entrare per una passeggiata mattutina, Alessandro preferì non andare a sedersi sulle panchine poste in prossimità dell'entrata.
Invece abbandonò il sentiero, e camminando sull'erba ancora coperta dalla brina formatasi nella notte, raggiunse una zona più riparata, a cavallo tra un piccolo boschetto di bambù e diversi arbusti di oleandro e sambuco.
La panchina che cercava si trovava all'ombra di un pino solitario, i cui aghi avevano ricoperto completamente l'area attorno alla sua base, formando una sorta di spesso tappeto marroncino.
Circondato com'era dai cespugli da un lato e dal bambuseto dall'altro, era impossibile che qualche passante ignaro della sua ubicazione vi si recasse appositamente. Lì nessuno l'avrebbe disturbato.
Spazzolato le assi di legno del sedile per rimuovere gli aghi di pino bagnati, Alessandro prese dunque posto sulla panchina. Come aveva temuto era gelida, ma forse non si trattava di un male.
Dopotutto, il freddo aiutava con le contusioni, no?
Dato che la cosa non gli era di grande consolazione, provò a concentrarsi su altro. In primis ciò che lo attendeva lunedì. Per allora si sarebbe ripreso, o avrebbe finito per varcare la soglia della sua classe dando l'impressione di essere un ottuagenario con l'artrite?
Già così i pronostici apparivano terribili, eppure non era quello il problema principale. Il solo pensiero di rivedere Matteo e quei suoi due ignobili fiancheggiatori gli faceva venire la nausea, ma che altro poteva fare?
Denunciarli?
No, quello mai.
Vendicarsi allora.
Aspettare di tornare in sesto, cogliere quel disgraziato in un momento di vulnerabilità, e poi pestarlo così forte che l'avrebbero dovuto portare via in barella.
Divertente, bello da immaginare...
E anche terribilmente stupido.
Quella era la vita vera, mica una saga islandese.
Non poteva reagire ad un pestaggio con un altro pestaggio o non sarebbe finita più.
Fermo restando che massacrare di botte Matteo l'avrebbe sicuramente fatto espellere, se non peggio.
A meno che...
Non è detto che debba finire per forza così
La vocina maliziosa nella sua testa parlava in un tono straordinariamente seducente, tuttavia, Alessandro non le diede ascolto. D'altronde, non era certo la prima volta che questa gli dava pessimi consigli.
Il cinguettio di qualche uccello nascosto tra i rami del pino sopra di lui lo spinse ad alzare lo sguardo verso l'alto, ma il suo movimento si rivelò troppo brusco.
Stringendo i denti in una smorfia Alessandro tornò ad abbassare la testa, per poi emettere un lungo sospiro di rassegnazione.
Forse gli conveniva dormire e basta. Tuttavia, nel momento stesso in cui ebbe abbassato le palpebre fu subito chiaro che si trattasse di un'impresa disperata.
La panchina era rigida come un blocco di granito e i suoi ematomi sembravano pulsare a contatto con quelle assi di legno deformate dagli agenti atmosferici.
Inoltre, faceva più freddo rispetto ai giorni precedenti. Qualcosa da cui il suo giaccone non sembrava in grado di isolarlo adeguatamente.
Era stato stupido a non portarsi almeno un paio di guanti. Aveva le mani tutte intirizzite.
Nel tentativo di massimizzare il calore del suo corpo tirò le cordicelle del cappuccio, e quando lo sentì aderire per bene alla testa fece combaciare tra di loro le maniche della felpa.
La situazione migliorò un pochino. Se non altro adesso le mani non rischiavano più di congelarglisi.
Sulla schiena e sulle cosce invece continuava a sentire freddo. Un freddo che però stava diventando stranamente piacevole. Persino gli ematomi sembravano fargli meno male.
Le sue palpebre si fecero pesanti.
Era a scuola, seduto al proprio banco, ma quando si guardò attorno scoprì con sgomento di essere l'unico alunno in tutta la classe. Gli altri banchi erano vuoti.
Davanti alla lavagna una maestra dai capelli neri stava finendo di scrivere quello che pareva un lungo elenco di formule matematiche, contornate da altrettanto complessi grafici e calcoli. Insomma, tutto ciò verso cui provava una naturale ed invincibile avversione.
Si stava ancora chiedendo come fosse arrivato lì, quando l'insegnante terminò di scrivere le ultime cifre sulla lavagna, e dopo aver messo giù il gessetto si voltò di scatto.
Alessandro sentì il cuore schizzargli direttamente in gola. La professoressa era sua madre.
''Bene, e con questo direi che possiamo anche passare all'interrogazione'' annunciò con nonchalance.
Interrogazione? E su cosa?
A dispetto dell'espressione terrorizzata del figlio, Elisa proseguì come niente fosse.
''Cominciamo con qualcosa di semplice''. Indicò la lavagna alle proprie spalle. ''Qual è il risultato di questa disequazione goniometrica di secondo grado?''
Alessandro voltò istintivamente la testa verso destra, ma Marco non poteva suggerirgli la risposta.
Il suo banco era vuoto.
''Ok, proviamo con qualcosa di più semplice allora'' sorvolò Elisa appoggiando le mani sui fianchi. ''Parlami del primo e del secondo teorema sui triangoli rettangoli''
''Ehm...'' bofonchiò Alessandro.
Gli occhi di Elisa si ridussero a due fessure. Era chiaro che stava cominciando a spazientirsi.
''Qual è la definizione di apotema?''
Alessandro tenne le labbra sigillate. Il panico gli aveva paralizzato le corde vocali.
''Quanto fa per 5x2?'' chiese Elisa stizzita.
Un barlume di speranza si accese negli occhi di Alessandro, che un attimo dopo fornì la propria risposta.
''Dodici'' disse di getto.
No, non era quello che voleva dire! Perché aveva risposto dodici?!
''Oh, basta!'' sbottò Elisa, pestando un piede per terra. ''Ci rinuncio!''.
Gli puntò contro un indice accusatore.
''Sei proprio un...''
Un boato spaventoso sventrò il sogno.
Svegliandosi di soprassalto Alessandro sfilò le mani dalle maniche e agitando le braccia a mezz'aria scattò in piedi.
O meglio, provò a farlo.
Raggiunto da una scarica di dolore nel bel mezzo dell'azione, spalancò la bocca in un grido muto, per poi crollare in ginocchio sul prato.
L'erba coperta di brina sotto di lui era fredda e umida, ed il terreno duro come roccia. L'impatto col suolo gli strappò un gemito soffocato, a quel punto iniziò ad ansimare. Ci volle qualche secondo prima che riuscisse a riprendersi dallo shock appena subito, ma alla fine riacquistò sufficiente padronanza di sé da rialzare la testa.
Fumo. Questa fu la cosa che attirò fin da subito la sua attenzione.
Prima ancora del grosso ramo spezzato che giaceva a meno di un metro di distanza da lui, delle fronde ridotte a minuscoli frammenti, o del terriccio sparpagliato tutt'attorno.
Dal cratere che era improvvisamente apparso di fronte ad una delle piante di oleandro, si levava un sottile filo di fumo. Per quanto assurdo, sembrava proprio che si fosse appena schiantato un meteorite.
Quasi non credendo a quello che vedeva, Alessandro sbatté le palpebre un paio di volte, ma la scena che gli si parava di fronte rimase immutata.
Compiendo uno sforzo che gli causò diverse fitte di dolore, tornò in piedi, e avanzando un passetto alla volta, camminò fino al bordo del cratere.
Non si trattava di una voragine particolarmente estesa. In termini di diametro aveva dimensioni paragonabili a quelle di un copertone per mezzi pesanti.
Era quanto si trovava adagiato sul fondo l'elemento davvero impressionante. Al contrario di ciò che aveva pensato infatti, il presunto meteorite si rivelò essere una sfera color cenere dalla superficie perfettamente levigata, poco più piccola di un pallone da calcio. Il fumo partiva da lì.
Mantenendosi a distanza di sicurezza, Alessandro osservò stupefatto lo strano oggetto.
Che cos'era?
Prevedendo l'inevitabile fitta strinse i denti e volse lo sguardo verso l'alto.
Dal pino sopra di lui mancavano all'appello diversi rami di modeste dimensioni, ed uno particolarmente massiccio sembrava essere stato tranciato di netto, reciso da quella bizzarra sfera grigia mentre terminava di percorrere l'ultima parte del suo tragitto.
Tragitto, ma verso dove?
E chi...
Un click inaspettato lo costrinse a distogliere la mente da quei pensieri. Era appena tornato ad abbassare lo sguardo sul cratere, quando accadde l'inspiegabile.
Muovendosi con lentezza quasi solenne, una lunga appendice di metallo cominciò a levarsi dalla sommità della sfera, finché non si trovò pressappoco alla stessa altezza del viso di Alessandro.
A quel punto, l'estremità si piegò verso di lui, e fendendo l'aria con la grazia di un serpente, gli andò incontro.
Alessandro non indietreggiò e non lo fece nemmeno quando la parte terminale di quello stranissimo cavo si fu trovata a meno di una spanna dalla sua faccia.
La paura gli aveva completamente paralizzato i muscoli in una morsa e le sue gambe non rispondevano ai comandi. L'unica cosa che riuscì a fare fu di tenere gli occhi fissi sul piccolo ovale nero posto all'estremità dell'appendice metallica.
Non poteva ovviamente sapere se fosse davvero così, ma Alessandro aveva la sensazione che lo stesse scrutando.
Trascorsi diversi secondi carichi di tensione l'appendice metallica interruppe quella sorta di contatto visivo, e compiendo uno scatto repentino che lo fece sobbalzare, calò in picchiata verso il terreno di fronte ai suoi piedi.
Penetrando nell'erba umida di qualche centimetro, l'estremità vi rimase incastrata giusto il tempo di un respiro, per poi uscirne e ripercorrere a ritroso tutto il tragitto fino al cratere, dove scomparve all'interno della sfera.
Un sonoro click, identico a quello che ne aveva preannunciato la venuta, gli fece comprendere che fosse tutto finito. Il misterioso manufatto era nuovamente sigillato.
Le domande che fino a quel momento avevano esitato a manifestarsi nella sua mente a causa della paura, gli rovinarono addosso tutte insieme con la forza dirompente di una slavina.
Che cos'era quella cosa?
Chi l'aveva mandata?
Ma soprattutto, perché?
Che senso poteva mai avere...
Una strana macchia con lo stesso colore di un cielo notturno stava spuntando ai suoi piedi.
Nel punto esatto in cui l'estremità del cavo metallico era penetrato nel terreno, adesso stava crescendo una pianta. Anzi no, non si trattava di una pianta.
Era un fungo! Un bizzarro fungo dalla corolla blu notte.
Con una rapidità che non trovava eguali in alcuna specie terrestre, il fungo continuò ad aumentare le proprie dimensioni, passando dalla totale invisibilità ai dieci centimetri nell'arco di pochissimi secondi, finché non ebbe raggiunto la grandezza di un broccolo.
A quel punto si fermò.
Scioccato dallo spettacolo a cui aveva appena assistito, Alessandro se ne restò immobile al suo posto, fissando la recente apparizione senza riuscire a trovare il coraggio di agire, o persino pensare.
Il colore del fungo era qualcosa di affascinante. Quasi ipnotico.
Se fosse stato costretto ad azzardare un paragone, a lui ricordava il colore che assumeva l'oceano nei suoi strati più profondi, dove il blu scuro delle acque ancora raggiunte dalla luce del sole si confondeva con le tenebre degli abissi sottostanti.
Si trattava di qualcosa di meraviglioso e terrificante al tempo stesso. Come un micidiale predatore osservato da dietro le sbarre d'acciaio di una gabbia.
Con gli occhi sempre puntati sul fungo Alessandro piegò le ginocchia, in modo da poterlo osservare più da vicino, ma non aveva nemmeno fatto in tempo a chinarsi completamente, quando il suo naso ne avvertì l'odore.
In verità, odore non era un termine che gli rendeva giustizia. Neppure lontanamente. Più che odore, si trattava di un aroma. Un aroma indescrivibile. Qualcosa che non aveva mai provato prima. Era come se tutte le migliori essenze del mondo fossero state condensate insieme in un unico profumo.
Ciascuno dei suoi cibi preferiti era presente. Nessuno mancava all'appello. Pollo arrosto, pane appena sfornato, gorgonzola, pasta al pesto, salmone alla griglia, cioccolato, frutti di bosco, crema alla vaniglia, confettura di albicocca.
Così diversi, eppure così sapientemente amalgamati. Fusi in un sublime e assolutamente irraggiungibile mix di perfezione. E l'origine di tutto questo era proprio di fronte a lui.
Scattando con una prontezza che non credeva di possedere, Alessandro strappò il fungo dal terreno con un violento strattone, per poi tornare in piedi.
Il dolore causato dalle contusioni subite venne interpretato e trasmesso dal suo cervello, ma lui lo ignorò come se non avesse sentito nulla. La voglia di mettere le mani sopra a ciò che ormai rappresentava l'incarnazione stessa di ogni sua aspirazione aveva letteralmente oscurato qualsiasi altra cosa.
Il mondo attorno a lui era diventato un luogo muto e privo di luce, come se nell'universo intero fossero rimasti solo lui e quel piccolo fungo blu notte.
Nell'istante stesso in cui si apprestava ad affondare i denti nella carne spugnosa, Alessandro era perfettamente consapevole che quanto stava per fare fosse pura follia. Mangiare qualcosa fattogli recapitare da oscuri e misteriosi mandanti di cui non conosceva nulla, men che meno le motivazioni che li spingevano, non si poteva definire in modo diverso.
Per quanto potesse apparire invitante infatti, quello che stringeva tra le mani restava pur sempre un alimento alieno. Di sicuro sarebbe stato indigesto, quasi certamente velenoso, e con ottime probabilità mortale.
Il problema però era che non riusciva ad opporsi. Quell'odore divino aveva risvegliato in lui istinti primordiali, facendogli accantonare completamente ogni parvenza di logica o raziocinio. Come la dose di eroina per un tossicodipendente, si trattava di qualcosa di necessario e indispensabile, anche se letale.
La luce in fondo al tunnel. La più alta delle ambizioni. La sola ragione di vita.
In quel preciso momento Alessandro non voleva semplicemente mangiare il fungo.
Era il suo corpo che glielo imponeva!
La scarica di piacere che lo percorse non appena si fu cacciato in bocca l'oggetto del suo desiderio non poté essere descritta a parole.
Fu come andare in paradiso, e bearsi per qualche secondo delle delizie che vi abbondavano.
Un'esperienza che nessun godimento terreno sarebbe mai stato in grado di eguagliare.
Ormai completamente ottenebrato dall'estasi, Alessandro roteò gli occhi all'indietro, e con la bocca contratta in una smorfia figlia dell'orgasmo che stava vivendo, scivolò sull'erba umida, ricadendo disteso sul prato.
Il paradiso con le sue gioie si dissolse.
***
Qualcosa di freddo e bagnato gli stava colpendo la faccia. Non gli ci volle molto per rendersi conto che si trattava di pioggia.
Una volta che Alessandro ebbe riaperto gli occhi infatti, il cielo plumbeo che incombeva su di lui sembrava essersi fatto ancora più scuro e minaccioso di quanto non fosse prima che perdesse conoscenza.
Grossi goccioloni trasparenti avevano cominciato a precipitare dai banchi di nubi sovrastanti.
Era confuso, faceva freddo e si sentiva bagnato.
Cercò di rialzarsi, ma una tremenda scarica di dolore lo costrinse a tornare subito nella posizione di partenza. Si era dimenticato delle contusioni. Stringendo i denti rotolò dunque sul fianco, e seppur con esasperante lentezza, tornò in piedi.
I ricordi di quanto avvenuto nel periodo precedente allo svenimento faticavano a venire alla luce. L'ultima cosa che rammentava era uno strano sogno in cui compariva anche sua madre, dopo c'era stato un boato e poi...
La sfera!
Senza perdere un solo istante Alessandro si voltò in direzione del cratere.
L'oggetto misterioso si trovava ancora al suo posto al centro della voragine, immobile e inerme. Quanto al fungo, che aveva visto crescere sotto i suoi stessi occhi con quella velocità assurdamente innaturale, di esso non rimaneva niente, ad eccezione di un piccolo cerchietto di terra spoglia nel punto dove era emerso il gambo.
Ma era proprio sicuro che fosse veramente così? Insomma, l'aveva fatto per davvero, oppure si era sognato tutto?
Magari dopo lo schianto della sfera aveva perso conoscenza e...
A proposito, quanto tempo era passato da allora?
Si infilò la mano in tasca e controllò l'ora sullo Smartphone.
Le 12:35. Come accidenti era possibile che fossero già trascorse tutte quelle ore?!
Doveva sbrigarsi a tornare subito a casa o mamma l'avrebbe ucciso! Però non poteva nemmeno lasciare la sfera lì! Non dopo quello che era successo.
Cercando di coniugare il desiderio di fare in fretta con quello di limitare al minimo il dolore, Alessandro riempì la buca con il terriccio sparpagliato nei paraggi, e una volta compattato il terreno alla bell'e meglio, ricoprì tutto quanto sotto un tappeto di aghi di pino fradici.
Probabilmente non si trattava della soluzione ideale, ma dato che l'alternativa consisteva nel presentarsi sulla soglia di casa stringendo tra le mani un manufatto alieno grosso come un melone, la scelta fu quasi obbligata.
Mentre procedeva lungo il sentiero di ghiaia al massimo della velocità consentitagli dalla sua andatura barcollante, Alessandro aveva il cuore a mille e la mente affollata di domande.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top