Capitolo 37 - La guerra è finita

''Fila, per favore, per favore mantenete la fila!'' disse ad alta voce Alessandro, mentre cercava di impedire alla calca di azzuffarsi nel tentativo di sottrarsi il posto a vicenda. ''Guardi, è sufficiente che...esatto, e il ragazzo dopo lì dietro''. Stese il braccio verso una donna dal sari consunto, facendole cenno di avanzare. ''Sì, signora, lei passi pure avanti''

Ci volle ancora un minuto per riuscire a sbrogliare la matassa, ma alla fine tutti i presenti furono ordinatamente disposti in fila indiana davanti ad Alessandro. Gli occhi dell'intero gruppo convergevano verso il container arancione arenato sulla sabbia alle sue spalle.

''Ecco, perfetto, ora va benissimo'' annunciò compiaciuto Alessandro, appoggiando le mani sui fianchi. ''Allora, a chi serve della farina?''

Tutti quanti gli astanti alzarono il braccio all'unisono.

''Ok, forse la domanda era stupida'' ammise Alessandro imbarazzato. ''Sentite, facciamo così, voi mi dite quello che vi serve in base alle persone che avete in casa e io ve lo do, d'accordo?''

La prima donna delle fila, una ragazza dai tratti orientali con l'hijab color turchese, fece un passo avanti.

''In famiglia siamo in sei e abbiamo bisogno di venti chili di farina'' spiegò tenendo gli occhi bassi.

''Venti chili?!'' sbottò indignato un uomo cinque posti più indietro. ''Ha detto quello che vi serve, non devi riempirci la dispensa!''

''In casa non abbiamo niente!'' ribatté la ragazza in preda alla vergogna.

''Quando dicevi, quello che vi serve, cosa intendevi di preciso?'' chiese il signore anziano dalla pelle scura, che stava subito dietro la ragazza con l'hijab. ''Per un giorno o una settimana?''

Alessandro si alzò sui tacchi per osservare fin dove arrivasse la fila. Questa partiva dalle porte spalancate del container e attraversava una buona porzione della spiaggia, fermandosi proprio a ridosso del sentiero in pietra, che conduceva fino all'interno del resort abbandonato. Ad occhio e croce ci saranno state oltre una cinquantina di persone.

Almeno in teoria, col cibo contenuto nel container sarebbe stato possibile sfamare anche più gente, ma se si fosse limitato a dare la scorta di un giorno solo ad ognuno dei presenti, per poi attendere che arrivassero altre persone (una certezza indubitabile, vista la velocità con cui si sarebbe diffusa la notizia dello sbarco di un carico di cibo), presto si sarebbe ritrovato a dover gestire una fila non di cinquanta, bensì di cinquemila civili bisognosi.

Era ovvio che si trattasse di un'impresa al di là delle sue capacità. E se invece fosse stato tanto pazzo da dirgli semplicemente di servirsi da soli, poco ma sicuro ciò avrebbe fatto scoppiare una gigantesca rissa, in cui a spuntarla sarebbero stati soltanto i più forti e meglio armati.

Di fronte a simili alternative, meglio dare abbastanza a pochi piuttosto che praticamente nulla a molti. Tanto, non appena l'assedio alla città fosse finito, i convogli di aiuti umanitari si sarebbero occupati della faccenda in maniera decisamente più professionale.

''Circa una settimana'' rispose Alessandro, azzardando una stima approssimativa.

''Allora mi servono venti chili'' gli confermò la ragazza con l'hijab.

''Nessun problema''

E dopo aver girato sui tacchi scomparì all'interno del container. Fatta eccezione per l'eco dei suoi passi sul pavimento in metallo, gli unici rumori che si sentivano in quel momento erano limitati ai bisbigli delle persone in fila, lo sciabordio delle onde sul bagnasciuga e allo stridio dei gabbiani.

Quando riemerse dal container, il sole, sorto da circa una ventina di minuti, stava cominciando a sovrastare le cime delle palme rinsecchite che delimitavano la spiaggia, e la gradevole sfumatura rosata che diffondeva per il cielo era giunta a lambire persino ciò che restava del Burj al-ʿArab, le cui imponenti rovine svettavano sopra un isolotto artificiale a trecento metri dalla terraferma.

''Venti chili a lei'' annunciò Alessandro, appoggiando davanti alla ragazza un grosso sacco di stoffa bianca e verde. Sotto a diverse diciture in arabo, la scritta al centro recitava: "FARINA DI GRANO – TUTTI GLI USI".

''Grazie mille'' disse la giovane chinando il capo in segno di riconoscenza.

Sollevato il pacco non senza qualche difficoltà, si avviò dunque più veloce che poté verso la strada al di là della spiaggia.

Il signore anziano dalla pelle scura che seguì squadrò Alessandro con interesse.

Per l'occasione aveva assunto l'aspetto di un quarantenne vestito con una pesante tuta da lavoro blu elettrico, abbinata ad un berretto da baseball verde muschio, sotto cui si celava un volto gioviale provvisto di un paio di vispi occhietti scuri e una folta barba nera. Non appena ebbe incrociato lo sguardo con l'anziano, un largo sorriso gli increspò le labbra.

''Quanto le serve?'' chiese affabile.

''Trenta chili'' rispose l'uomo. ''Siamo sette in famiglia''

''Subito'' disse Alessandro tutto pimpante.

Ritornato all'interno del container vi indugiò per quasi un minuto, prima che la sua testa tornasse a fare capolino attraverso le porte socchiuse.

''Non c'è da trenta'' spiegò in tono mortificato. ''Venti più dieci va bene uguale?''

''Purché il totale sia trenta non importa'' lo informò il signore anziano.

Rincuorato dalla risposta Alessandro tornò subito dentro, per poi uscirne pochi istanti dopo reggendo tra le mani due sacchi di stoffa, uno grande il doppio dell'altro.

''Ecco qua'' disse mentre li appoggiava entrambi sulla sabbia ai piedi dell'uomo in attesa.

''Grazie'' gli fece eco il signore anziano. E anche lui se andò portandosi dietro i due sacchi.

''Il prossimo'' annunciò Alessandro, rivolgendo un cenno d'incoraggiamento alla terza persona in fila.

L'uomo in questione vestiva una lunga dishdasha marrone, in aggiunta ad una kefiah rossa e bianca. A giudicare dalla pelle olivastra e dall'accento nella sua voce, avrebbe potuto essere un locale.

''C'è dell'altro lì dentro a parte la farina?'' domandò in tono spiccio, indicando col braccio le porte del container. ''Riso, fagioli, o roba del genere?''

Alessandro scosse la testa con aria contrita.

''Mi dispiace, ho già controllato'' confessò mestamente. ''Purtroppo c'è solo farina''

Anche se sembrava chiaramente deluso, l'uomo decise di non insistere.

''Cinquanta chili'' disse in tono deciso.

Diversi sguardi torvi si concentrarono sulla schiena del tizio, come se stessero cercando di fulminarlo con la semplice forza del pensiero, ma Alessandro finse di non accorgersene. Nemmeno un minuto dopo fu di ritorno reggendo sulle spalle un enorme sacco di farina, che poggiò davanti al richiedente con aria soddisfatta.

''Cinquanta chili'' affermò compiaciuto, toccandosi la falda del berretto.

''Di quale associazione ha detto di far parte lei?'' chiese l'uomo con la kefiah, mentre cercava a fatica di sollevare l'ingombrante fardello.

In realtà non l'aveva mai detto, ma dato che farglielo notare l'avrebbe insospettito ancora di più decise di inventare sul momento.

''Della...Fondazione dei giovani umanitari itineranti'' rispose annuendo con convinzione.

''Mai sentita'' commentò l'uomo asciutto.

''Siamo nuovi del settore'' tagliò corto Alessandro. ''Avanti il prossimo''

Il tipo lo scrutò con diffidenza, ma quando il rombo di un aereo risuonò per il cielo finì di caricarsi il sacco in spalla in tutta fretta, per poi avviarsi a balzelli sulla sabbia in direzione della strada.

Nel frattempo, le altre persone in fila avevano alzato gli occhi verso l'alto, come se temessero di veder sbucare all'improvviso da dietro una nuvola la sagoma di qualche jet militare.

''Tranquilli, non succederà niente'' li rassicurò Alessandro, scoccando un ampio sorriso alla gente in coda.

''L'ultimo che mi aveva detto una cosa del genere è morto schiacciato sotto una colonna da dieci tonnellate'' gli rivelò la ragazza indiana davanti a lui, continuando a tener d'occhio il cielo.

''Fortuna che siamo all'aperto quindi'' commentò Alessandro in tono leggero. ''Coraggio, mi dica pure''

Seppur con una certa dose di riluttanza, la ragazza smise di guardare in alto e si concentrò su di lui.

''Venti chili'' disse sbrigativa.

Intuendo i suoi timori Alessandro decise di venirle incontro.

''Cerchiamo di velocizzare le cose''. Si sporse di lato e indicò i due sikh con la barba e il turbante che stavano in coda dietro di lei. ''A voi due là dietro, quanto vi serve?''

''Trenta'' rispose il primo.

''Anche per me trenta'' gli fece eco il secondo.

Alessandro alzò l'indice in aria come per chiedere un po' di pazienza.

''Solo un momento''

''Hai bisogno d'aiuto?'' gli domandò uno dei due sikh in attesa, non appena lo vide uscire dal container reggendo tre sacchi da venti sulle spalle e due da dieci tra le mani.

''No, grazie, ce la faccio'' rispose lui tranquillo. E percorsi gli ultimi passi che lo separavano dalla fila, rovesciò sulla sabbia l'ingombrante fardello. ''Allora, a chi andava cosa?''

''A me venti e gli altri trenta'' rispose la ragazza indiana.

''Ok''

''Come avete fatto a portare qui questo container?'' chiese incuriosito uno dei due uomini, non appena ebbe consegnato alla giovane il sacco da lei richiesto. ''Tra la flotta e l'aviazione pensavo fosse impossibile''

''Abbiamo i nostri metodi'' rispose Alessandro vago.

''Davvero non dobbiamo pagare?'' domandò cauto l'altro sikh.

Il suo compagno gli scoccò un'occhiataccia, ma Alessandro sorrise.

''Se chiedessimo soldi per questo saremmo un'associazione di beneficienza molto strana, non le pare?''

Un secondo rombo riecheggiò per il cielo, e anche se nemmeno questa volta si vide alcun aereo in vista, tutti quanti gli sguardi dei presenti conversero all'istante verso l'alto.

''Vi ho detto di stare tranquilli'' ripeté Alessandro in tono scanzonato, intanto che i due sikh si allontanavano coi propri sacchi. ''Oggi non bombarderanno. Anzi, la guerra finirà molto presto''

''E come fai a saperlo?'' chiese scettica una signora anziana avvolta in una lunga abaya nera.

''Abbia pazienza ancora un po' e vedrà che ho ragione'' insistette Alessandro sereno.

La donna alzò le braccia in un gesto eloquente.

''Possa Allah darti ascolto''

Alessandro sorrise e appoggiò le mani sui fianchi.

''I prossimi tre''

***

Desiderando godersi fino all'ultimo la vista del sole che sorgeva sul deserto, Alessandro continuò a tenere lo sguardo rivolto alla propria destra, anche se quando sentì che la spinta ascensionale andava via via riducendosi, si decise finalmente a puntare gli occhi verso il basso. Ormai stava per toccare terra.

Nel momento in cui atterrò, sul ponte d'osservazione del Burj Khalifa spirava un vento molto forte. L'enorme breccia, apertasi nella barriera di vetro e acciaio quando la parte superiore del grattacielo era crollata, permetteva alle correnti provenienti dal deserto di imperversare senza più alcun ostacolo a trattenerle. Il pavimento in parquet, divenuto quasi completamente nero a causa dell'incendio scoppiato mesi prima, si presentava ricoperto da un sottile strato di sabbia.

Data una breve occhiata in giro, giusto il tempo di ammirare l'ambiente circostante, Alessandro appoggiò per terra il grosso sacco che reggeva sulle spalle e ne controllò il contenuto. Dentro c'erano due sacchi di farina da venti chili ciascuno, più uno da dieci, molti cartoni di latte a lunga conservazione, altrettanti pacchetti di zucchero, oltre a diverse scatole di biscotti, caramelle e cioccolatini.

A prima vista sembrava tutto in ordine. Se non altro, le confezioni di dolci non si erano ammaccate troppo, anche se sarebbe stato da illusi sperare che nessuno dei biscotti fosse già diventato polvere.

Purtroppo però, non poteva fare diversamente. Tenuto conto del fatto che attraversare la città a piedi gli avrebbe richiesto una vita, a meno che non fosse così sconsiderato da mettersi a sfrecciare a trecento all'ora lungo le strade, e volare in forma di drago reggendo il sacco tra le zampe sarebbe stato semplicemente fuori di testa, l'unica strada percorribile rimaneva quella lì.

Ovviamente, nemmeno balzare di grattacielo in grattacielo poteva considerarsi un'opzione totalmente priva di rischi, ma riuscire a vedere qualcosa di così piccolo mentre sfrecciava silenzioso per il cielo era comunque difficile, senza poi contare che anche nella remota eventualità in cui qualche passante fosse riuscito ad immortalarlo, difficilmente qualcuno gli avrebbe creduto. Quasi sicuramente si sarebbe pensato ad un fotomontaggio.

Rimessosi il sacco in spalla Alessandro si avvicinò al varco aperto nella vetrata panoramica attorno al ponte d'osservazione, e guardò il paesaggio che si estendeva sotto di lui. Gli edifici e i grattacieli della città, baciati dalla luce del mattino, si estendevano per svariati chilometri in tutte le direzioni.

La clinica del dottor Latif non doveva distare più di una ventina di miglia, e se continuava a procedere come aveva fatto fino a quel momento, ancora una mezza dozzina di salti sarebbero stati sufficienti a raggiungerla.

Individuare il prossimo obiettivo non richiese che una manciata di istanti. D'altronde, ad eccezione di quello su cui stava, si trattava del palazzo più alto nel raggio di parecchi isolati.

Presa una breve rincorsa, scattò dunque in direzione della breccia per poi spiccare un balzo in avanti. Il salto si rivelò abbastanza preciso, sebbene finì per atterrare molto vicino al bordo. Consapevole che meno restava fermo e minori erano le probabilità di essere scoperto, non si trattenne sul tetto se non per il tempo strettamente necessario a individuare il bersaglio successivo, rappresentato da un elegante grattacielo provvisto di pista d'atterraggio per elicotteri.

Nel momento in cui l'ebbe raggiunta, ripartì pressoché all'istante, diretto verso un hotel con la facciata sventrata da un missile. La lussuosa struttura sorgeva a ridosso di un braccio di mare che penetrava nell'entroterra per alcuni chilometri, ed era circondata da diversi edifici altrettanto sfarzosi, anche se un paio erano crollati completamente lasciando dietro di sé nient'altro che macerie.

Uno di quelli ancora in piedi aveva il tetto piatto ed era stato dipinto di un bianco così acceso, che rifletteva la luce del sole con la stessa efficienza di uno specchio.

Non aveva ancora iniziato a scendere quando Alessandro si rese conto di aver sbagliato traiettoria. Di quel passo sarebbe atterrato sul palazzo dal tetto sfavillante e non sull'hotel. Inizialmente fu quasi tentato di provare a cambiare direzione, ma quando capì che ritrovarsi in un posto simile lo avrebbe celato alla vista meglio di un mantello dell'invisibilità decise di lasciar perdere, e approfittò dei pochi secondi che ancora gli restavano per riflettere su quel che avrebbe fatto una volta giunto alla clinica.

Se si considerava il furto alla nave cargo saudita e il conseguente trasporto sottomarino fino alla costa, da parte sua credeva di essersi esposto a sufficienza per quel giorno, senza doverci pure aggiungere una predizione totalmente irrealistica quanto azzeccata sull'imminente fine della guerra.

Tuttavia, non c'era proprio nulla di avventato nel rilassarsi almeno un po' prima di partire per la Somalia. Inoltre, gli piaceva l'idea di dare per l'ultima volta una seppur piccola mano a Latif o ai suoi pazienti, e specialmente alla famiglia di Chandra. Con gli ingredienti che aveva recuperato, Abhay avrebbe potuto bere tutto il tè al latte che voleva. Per non parlare poi del resto. Già si immaginava la faccia che avrebbe fatto il ragazzino una volta che gli avesse mostrato le scatole di dolci contenute dentro al sacco.

Giusto, il sacco. Non poteva presentarsi con quello. E se per caso gli avessero detto di lasciarlo, come diavolo avrebbe fatto a spiegargli che non poteva? Era ovvio che dovesse trovare alla svelta una soluzione al problema.

Forse avrebbe dovuto lasciare tutto poco fuori la clinica, recuperare un contenitore vero e poi tornare a prendere il cibo. Anzi, no. Prima sarebbe entrato nella clinica col sacco in spalla e poi lo avrebbe sostituito con qualcos'altro.

Ok, ma dove di preciso poteva effettuare lo scambio? In bagno? No, non andava. Sarebbe stato sufficiente incrociare Abhay prima del tempo per mandare all'aria tutto il piano.

Idea! Bastava consegnare i sacchi di farina alle cucine, andare nella stanza di Chandra, lasciare che tirassero fuori tutto, e poi far scomparire il sacco fingendo di infilarselo nella tasca dei pantaloni. Geniale. Ora non gli restava che...

Il panico si impadronì di lui non appena ebbe rivolto lo sguardo verso il suolo. Il tetto dell'edificio verso cui stava per atterrare, e che fino a pochi istanti prima risultava praticamente invisibile a causa del riverbero del sole, adesso si riusciva a vedere abbastanza bene da rivelare le file di pannelli fotovoltaici ordinatamente disposti sopra di esso.

La già risicatissima distanza che lo separava da quella sorta di barriera di specchi blu si riduceva di secondo in secondo. Che fare?! Cambiare forma?! E che ne sarebbe stato del sacco?! Magari, se fosse riuscito a...

Troppo tardi.

Alessandro impattò contro il muro di pannelli con la potenza di un meteorite, per poi passarvi attraverso con la stessa facilità con cui un coltello penetrava nel burro. Una volta dall'altra parte però, non trovò una superficie solida ad attenderlo, bensì un lungo spazio vuoto che procedeva verso terra per almeno trenta metri abbondanti.

Cazzo!

Alessandro provò a trasformarsi, ma non ebbe neppure il tempo di pensare a qualcosa che la sua testa impattò contro un parapetto in cemento. Penetrando con la fronte nel calcestruzzo di diversi centimetri rimbalzò quindi indietro, compì una giravolta a mezz'aria, sbatté la schiena addosso ad una ringhiera d'acciaio, e precipitò a testa in giù per parecchi metri, prima di sfondare una parete in vetromattone disposta parallela al terreno.

A quel punto, toccò finalmente il suolo.

Non appena riaprì gli occhi la prima cosa che vide fu il pavimento cosparso di frammenti di vetro e il sacco nero ancora incollato alla sua mano destra. Dato che non poteva lasciarlo andare, per rimettersi in piedi fu perciò costretto a puntellarsi sulla sinistra. Nonostante il terribile capitombolo non sentiva dolore, né gli pareva di essere ferito, anche se non poteva certo dire lo stesso per il proprio orgoglio.

Sopra di lui il lucernario appena sfondato si apriva su un'enorme tromba delle scale, di quello che era chiaramente un parcheggio coperto per auto. Circa trenta metri più in alto, oltre il buco che aveva creato schiantandosi contro i pannelli fotovoltaici, si riusciva a scorgere un piccolo spicchio di cielo.

Emesso un sospiro di frustrazione Alessandro si liberò velocemente dalle schegge di vetro rimaste impigliate ai suoi vestiti, per poi prepararsi ad aprire il sacco. Dopo un volo del genere avrebbe dovuto considerarsi fortunato se almeno un cartone del latte fosse rimasto intatto.

Era sul punto di infilare la mano attraverso l'apertura, quando scorse con la coda dell'occhio un movimento alla sua destra che lo spinse a voltare la testa in quella direzione. Alessandro trattenne il fiato. Un bambino dalla pelle olivastra, di pochi anni più giovane di Abhay, lo fissava con la bocca socchiusa di fronte ad una gigantesca jeep, parcheggiata insieme a molte altre auto di grossa cilindrata alle spalle del ragazzino.

Non sapendo come giustificare la sua irruzione scenografica Alessandro decise di limitarsi ad ignorare quell'aspetto, spostando in fretta la conversazione altrove.

''Ehi, ciao piccolo'' esordì abbozzando un sorriso conciliante.

Il bambino non rispose e Alessandro cominciò a sentirsi nervoso. Nel tentativo di prendere tempo si schiarì la voce, per poi mettersi ad osservare l'ambiente circostante. Ovunque volgesse lo sguardo non vedeva che una grande quantità di automobili, ognuna delle quali era ricoperta da uno spesso strato di polvere misto a sabbia.

''Che ci fai da queste parti?'' chiese con nonchalance mentre scrutava le file di veicoli parcheggiati, ma stando però ben attento a non perdere di vista l'interlocutore.

''Cercavo da mangiare'' rispose il bambino con una vocetta acuta.

Alessandro sollevò un sopracciglio.

''In un parcheggio?''

''Quelli che se ne sono andati magari hanno lasciato degli spuntini in macchina'' spiegò lui in tono innocente.

Durante la breve pausa che seguì Alessandro ne approfittò per osservarlo meglio. Indossava un paio di pantaloncini verde bottiglia, una t-shirt a righe priva di logo e uno zainetto a tema Pokemon. Se non fosse stato per le mani imbrattate di polvere e i sandali ridotti a brandelli che calzava ai piedi, avrebbe potuto essere scambiato per uno studente di ritorno dalla scuola.

''A casa non avete cibo?'' chiese cauto Alessandro, rompendo per primo il silenzio.

Il bambino scosse la testa.

''Ieri papà è riuscito a trovare dei datteri, ma erano secchissimi, e comunque li abbiamo finiti''

Per tutta risposta Alessandro aprì il sacco e controllò al suo interno. Miracolosamente non sembrava essersi rotto nulla. Persino le confezioni del latte parevano integre, benché molto ammaccate. Reputando scandaloso agire diversamente, Alessandro curvò leggermente la schiena e fece cenno al ragazzino di avvicinarsi.

''Coraggio, vieni qui'' disse affabile.

Il bambino gli rivolse uno sguardo indecifrabile, ma non si mosse.

''Tranquillo, non ti faccio niente'' lo rassicurò Alessandro rinnovando il suo invito.

Seppur con una certa dose di titubanza il bambino cominciò ad avanzare, anche se quando fu a circa due metri da lui parve stabilire che non fosse prudente procedere oltre, e quindi si fermò. Apparentemente soddisfatto, Alessandro infilò il braccio dentro il sacco.

''Probabilmente i tuoi genitori ti avranno detto di non accettare mai cibo dagli sconosciuti, ma in questo caso credo sarebbero d'accordo''

Sotto lo sguardo incredulo del bambino tirò fuori il pacco di farina da dieci chili, due cartoni del latte, una confezione di zucchero, più una busta di caramelle gommose particolarmente voluminosa. A quel punto fece un passo indietro, così da far capire all'interlocutore che fosse sua intenzione cederglieli.

Gli occhi del bambino si illuminarono.

''Davvero sono per me?'' chiese meravigliato, mentre afferrava la busta di caramelle e la rimirava con bramosia.

''Certo'' rispose tranquillo Alessandro. ''Mi raccomando però, porta subito tutto a casa e cerca di non farti vedere. Se incontri le persone sbagliate potrebbero tentare di derubarti''

Il bambino annuì con convinzione.

''Ok, starò attento''

''Bravissimo'' commentò Alessandro indicandolo con aria complice. ''Conto su di te''

Chiuso il sacco se lo rimise in spalla, ma non appena ebbe sollevato lo sguardo verso il lucernario sfondato, il bambino parlò di nuovo.

''Tu sei un supereroe?''

Alessandro abbassò la testa ed incrociò lo sguardo del piccolo. I suoi occhi brillavano per l'ammirazione.

''Una specie'' ammise imbarazzato. Il bambino parve emozionarsi ancora di più, spingendo Alessandro ad aggiungere: ''Senti, potresti non dirlo a nessuno? Te ne sarei molto grato''. 

Si inginocchiò davanti a lui. 

''Sarà il nostro piccolo segreto, d'accordo?'' gli sussurrò facendogli l'occhiolino.

Le labbra del bambino si distesero in un largo sorriso.

''Promesso'' annunciò annuendo con enfasi.

''Grazie'' disse Alessandro compiaciuto.

E dopo essere tornato in piedi, spiccò un salto che lo portò dapprima a rimbalzare contro un parapetto in cemento a metà della tromba delle scale, e poi a raggiungere il tetto del parcheggio, dove scomparì alla vista sotto la barriera di pannelli solari.

Una volta all'esterno, Alessandro non poté che constatare l'assoluta impossibilità di andarsene seguendo la stessa modalità utilizzata fino ad allora. Tralasciando il foro da lui aperto al momento dello schianto, i pannelli fotovoltaici che incombevano sopra la sua testa proiettavano la loro ombra sull'intera superficie del tetto, senza lasciare neppure un piccolo spazio libero.

Era evidente che prima di proseguire nel viaggio dovesse scendere da lì e trovare un edificio sufficientemente sgombro da consentirgli quantomeno un singolo salto. Non voleva danneggiare ulteriormente le confezioni di cibo.

Individuato un caffè dismesso coi vetri infranti appena una decina di metri più in basso, ritenne di non poter trovare di meglio e quindi si apprestò a saltarci sopra. Dato che non sembravano esserci passanti nei paraggi, e l'insegna sul tetto del bar era molto grande, sarebbe stato sufficiente atterrare dietro la scritta al neon e ripartire subito dopo per ridurre al minimo il rischio di essere avvistato.

Un rombo dalla potenza spaventosa squarciò il silenzio.

Alessandro alzò istintivamente gli occhi verso l'alto, ma tutto ciò che vide fu il retro dei pannelli solari. In ogni caso, non dovette sporgersi oltre il bordo del tetto per rintracciarne la causa, poiché due jet militari sfrecciarono attraverso il cielo soltanto pochi istanti dopo. Alessandro li vide sorvolare il quartiere dove si trovava, quello dopo, e quello dopo ancora, finché non scorse due piccole sagome scure staccarsi dalla parte inferiore dei due velivoli, per poi precipitare verso il basso.

L'eco delle esplosioni lo raggiunse quasi nello stesso momento in cui la vampata di fuoco e la coltre di fumo che seguì prese a levarsi dal punto di impatto degli ordigni. La consapevolezza di quanto appena accaduto lo investì con tale irruenza, che non avrebbe potuto esserne maggiormente colpito neppure se ad essere stato bombardato fosse stato lui.

Senza pensarci due volte Alessandro rovesciò l'intero contenuto del sacco davanti al bagagliaio di una berlina sommersa dalla polvere, e dopo aver assunto le sembianze di un falco pellegrino, partì a razzo in direzione delle colonne di fumo.

Non poteva essere quello che temeva. Doveva essersi sbagliato. Forse aveva visto male. In fondo, non c'era alcun motivo per colpire la clinica. E comunque la guerra era finita! Bashir gli aveva assicurato che avrebbe posto fine ai bombardamenti il prima possibile.

Che l'ordine non fosse ancora arrivato alle truppe, nonostante tutte le ore trascorse da quando aveva lasciato Riyadh? No, era semplicemente assurdo.

Ma allora quale accidente era la spiegazione?! I piloti erano impazziti e avevano attaccato per il gusto di bombardare?!

Si stava ancora ponendo quelle domande quando giunse sul sito dell'esplosione, dove scoprì che i suoi peggiori timori erano purtroppo fondati. Il bersaglio dei due missili era proprio la clinica del dottor Latif.

Calando in picchiata verso il basso, Alessandro atterrò dietro la carcassa arrugginita di una vecchia auto arrugginita all'angolo della strada, e poi riacquistò forma umana. Correndo ad una velocità ben superiore a quella che si sarebbe permesso di sfoggiare normalmente in pubblico, irruppe quindi nel cortile della clinica dove si trovò dinnanzi ad uno spettacolo agghiacciante.

L'intera sezione ovest della struttura era crollata insieme a buona parte di quella est, trascinandosi dietro diverse stanze e radendo completamente al suolo l'infermeria. Fatima e Uma stavano prestando il primo soccorso ai sopravvissuti, mentre Latif e Jaleel cercavano di estrarre dalle macerie i corpi dei pazienti ancora intrappolati sotto i detriti. Il pavimento del cortile era disseminato di feriti, alcuni semplicemente scossi e traumatizzati, altri in condizioni così pietose che pareva impossibile credere sul serio che fossero ancora vivi.

L'aria era intrisa di polvere e puzzava di morte.

Spinto dall'emotività del momento Alessandro stava per correre incontro a Latif per aiutarlo ad estrarre gli eventuali superstiti dai calcinacci, quando vide Chandra gridare di fronte alla porta che dava sulle cucine, dentro cui sembrava essere scoppiato un incendio così violento, che le fiamme erano arrivate a lambire persino lo stipite all'ingresso.

''Abhay!!!'' urlava a pieni polmoni, mentre tentava disperatamente di trovare un varco in quel muro di fuoco. ''Abhay!!!''

Accorgendosi di cosa stesse succedendo Latif si frappose tra lei e l'incendio, per poi tentare di farla ragionare. Chandra però non si calmò e continuò ad urlare il nome del figlio, ostinandosi a voler avanzare verso le cucine. Aggirando i feriti accalcati sul pavimento del cortile, Alessandro raggiunse i due e si rivolse alla donna.

''Che succede?'' chiese in tono sbrigativo.

Latif parve sorpreso dalla sua comparsa inaspettata, ma Chandra non ci badò affatto, anzi gli rivolse uno sguardo carico di speranza, e iniziò subito a parlare.

''Abhay è-è entrato'' singhiozzò tra le lacrime, indicando col braccio l'incendio al di là della porta. ''Deve essere lì perché non lo trovo da nessuna parte e...''

Alessandro non attese che finisse la frase e si lanciò di scatto oltre l'uscio, scomparendo tra le fiamme. Chandra si portò le mani alla bocca per lo shock, mentre Latif gridava atterrito: ''No!!!''

Trascorsero sì e no una decina di secondi, al termine dei quali Alessandro sbucò dal muro di fuoco reggendo tra le mani il corpicino privo di sensi di Abhay. Entrambi parevano illesi, anche se dai vestiti di Alessandro continuavano a levarsi sottili spirali di fumo.

A giudicare dalla sua espressione sconvolta, Latif sembrava non credere ai propri occhi.

''Ma come...''

''Lascia perdere il come!'' gli urlò Alessandro porgendogli il corpo del bambino. ''Salvalo!!!''

Riavutosi dallo sbigottimento iniziale il dottore fece quanto chiedeva, e dopo aver disteso Abhay nel primo posto libero che riuscì a trovare, cominciò subito ad effettuare la manovra di rianimazione sul corpo incosciente del bambino.

A qualche metro di distanza sua sorella Nadia, anche lei impossibilitata a muoversi a causa del gesso che le avvolgeva la gamba, osservava la scena stando sdraiata sul pavimento del cortile, mentre nel frattempo Fatima, Uma e Jaleel continuavano ad assistere i feriti.

Effettuata per la seconda volta la respirazione bocca a bocca, Latif si fermò a prendere le pulsazioni di Abhay, e poi ricominciò immediatamente il massaggio cardiaco. Chandra assisteva impotente con le lacrime che scorrevano senza sosta sulle guance, Alessandro invece si limitava a fissare con sguardo vacuo i tentativi di rianimazione del ragazzino, che continuava a restare privo di sensi.

Passò un minuto, poi due, finché, proprio a ridosso dello scoccare del terzo, Latif avvicinò l'indice e il medio alla carotide di Abhay per misurarne le pulsazioni. A quel punto si voltò verso Chandra e scosse mestamente la testa.

Gli occhi della donna si fecero enormi e un attimo dopo caccio un urlo terribile. Un grido di dolore e disperazione che faceva accapponare la pelle. Crollata in ginocchio accanto al corpo del figlio, lo strinse forte a sé e prese a cullarlo piangendo con le palpebre abbassate. Intanto, avendo scoperto ciò che era successo, anche Nadia era scoppiata in lacrime. I suoi singhiozzi si unirono a quelli della madre in un unico lamento straziante, che riecheggiò per il cortile insieme ai gemiti di dolore dei feriti.

Resosi conto che la sua presenza fosse divenuta ormai superflua, Latif tornò in piedi e corse ad aiutare Fatima e Uma coi pazienti.

Quanto ad Alessandro, lui non fece, né disse nulla, restando immobile dov'era a fissare con espressione impassibile quello spettacolo tremendo. Tuttavia, nonostante dal suo volto fosse letteralmente impossibile carpire la benché minima emozione, mentre Chandra cacciava l'ennesimo struggente grido rivolto al cielo, le sue mani si serrarono a pugno.

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