Capitolo 34 - La clinica
Abbandonata la strada in cui si trovava l'ingresso del parcheggio, i tre imboccarono una viuzza secondaria affacciata su ambo i lati da squallide villette a schiera tutte uguali. A giudicare dalla quantità di posta che strabordava dalle cassette delle lettere, per non parlare dei minuscoli prati dei giardini, ridotti a savana dopo mesi d'incuria, sembravano tutte quante disabitate, e molte di esse davano l'impressione di essere state persino saccheggiate.
Il sole picchiava implacabile sopra le loro teste, e anche se Alessandro non sentiva affatto caldo, si rese conto molto presto che per le persone normali la situazione era invece ben diversa. Nonostante i loro tentativi di restare all'ombra dei muretti che cintavano le case, il retro della t-shirt di Abhay era fradicio manco ci avesse appena fatto il bagno, mentre la fronte di Nadia grondava sudore come dentro una sauna.
''Lei è davvero forte, lo sa signore?'' commentò a bruciapelo Abhay, dopo quasi cinque minuti di silenzio.
''Grazie'' disse Alessandro, leggermente imbarazzato. ''Mi alleno parecchio''
''Basta allenarsi per fare quello?!'' chiese incredulo Abhay, gli occhi fuori dalle orbite.
Preoccupato dai possibili esiti di quel banale scambio di battute, Alessandro cercò di mostrarsi leggermente sorpreso, come se quanto avesse fatto non fosse poi niente di speciale.
''Beh, sì' rispose tranquillo.
''Me lo può insegnare?'' lo incalzò Abhay, sempre più emozionato.
''Ci vogliono molti anni'' precisò Alessandro.
L'eccitazione di Abhay parve affievolirsi notevolmente.
''Ah, ho capito'' disse deluso chinando la testa.
Arrivati alla fine del quartiere con le villette a schiera, attraversarono la strada, ma prima ancora di aver raggiunto il marciapiede un rumore di vetri infranti li costrinse a fermarsi. Il suono sembrava provenire da sinistra, a circa un centinaio di metri di distanza, lì dove sorgeva una vistosa monofamiliare con giardino.
Alcune voci umane riecheggiarono poco dopo e Abhay si avvicinò ad Alessandro, così da essere sentito senza aver bisogno di parlare ad alta voce.
''Saccheggiatori'' bisbigliò preoccupato, ''meglio fare il giro lungo''
Alessandro annuì e il bambino gli fece cenno di seguirlo dentro un vicolo poco lontano. Adesso procedevano tra basse palazzine dalle facciate scrostate in cui, a differenza che nel quartiere precedente, sembrava vivere ancora qualcuno. Sebbene infatti non incrociarono mai anima viva, su alcuni tetti era possibile scorgere dei panni appesi ad asciugare, e mentre passavano davanti ad uno stabile diroccato, ad Alessandro parve addirittura di scorgere il volto di una donna dietro il vetro di una finestra al secondo piano.
Nel frattempo, man mano che avanzavano zigzagando tra stradine e viuzze, le voci dei ladri si fecero sempre meno udibili finché non scomparvero del tutto. Lieto dello scampato pericolo Abhay tirò un sospiro di sollievo e tornò a rivolgersi ad Alessandro.
''Mi chiamo Abhay, comunque'' disse intanto che lo affiancava, ''e mia sorella Nadia''
''Molto piacere'' rispose Alessandro accennando un sorriso.
''Piacere'' ripeté debolmente Nadia.
Alessandro fu quasi sorpreso di sentire la sua voce. Da quando l'aveva presa in braccio Nadia era piombata in un silenzio pressoché totale, interrotto unicamente da qualche gemito soffocato.
''E lei invece come si chiama, signore?'' proseguì Abhay curioso.
Le sopracciglia di Alessandro s'inarcarono all'istante.
''C-come mi chiamo?'' balbettò incerto, in un raffazzonato tentativo di guadagnare tempo.
Giusto. Come si chiamava?
Prima di allora non ci aveva mai pensato seriamente. D'altronde, se la sua intenzione era quella di operare nell'anonimato totale, che diavolo se ne faceva di un nome? Tuttavia, dato che rispondere ''Alessandro Olivieri'' sarebbe stato folle, e dire semplicemente ''non ce l'ho'' l'avrebbe fatto apparire un deficiente, decise di inventare sul momento.
''Ka...''
Rendendosi conto, con sommo orrore, che stava fornendo il nome del suo personaggio manga preferito, cercò di rimediare alla svelta.
''...ma'' concluse disperato.
Si schiarì la gola.
''Kama'' ripeté tranquillo, nel tentativo di mostrarsi sicuro di sé. ''Il mio nome è Kama''
Abhay inclinò la testa di lato, e per alcuni lunghissimi secondi lo scrutò con interesse senza smettere di camminare. Alla fine però, le sue labbra si distesero in un sorriso.
''Fico'' commentò affabile.
Alessandro tirò un silenzioso sospiro di sollievo.
Svoltato un angolo, si ritrovarono in una strada dove diverse palme spuntavano ad intervalli irregolari da ambo i marciapiedi che costeggiavano la corsia centrale. Ad appena dieci metri da loro, un cane macilento dalla pelliccia fulva era intento a frugare dentro alcuni sacchi dell'immondizia squarciati, evidentemente alla ricerca di cibo.
Quando li sentì avvicinarsi l'animale rialzò il muso di scatto, e dopo qualche breve attimo di incertezza si voltò all'improvviso, dandosi ad una fuga precipitosa lungo il marciapiede.
''Perché è scappato in quel modo?'' chiese perplesso Alessandro, mentre osservava il cane sparire in fondo alla strada.
''Credo perché non voglia essere mangiato'' rispose Abhay con semplicità.
Alessandro sgranò gli occhi.
''La gente si mangia i cani?''
''Da quando è iniziata la guerra la gente mangia tutto'' spiegò Abhay tranquillo.
Sentendosi in imbarazzo, Alessandro preferì cambiare argomento.
''Tu e tua sorella uscite spesso di casa?''
''Una volta lo facevamo più spesso, ma adesso è diventato difficile'' gli rivelò Abhay, toccandogli il braccio per spingerlo a svoltare a destra. ''Il dottor Latif non vuole che stiamo in giro. Dice che è troppo pericoloso''
''Il dottor Latif?''
''Gestisce la clinica dove viviamo''. Abhay sorrise. ''È un brav'uomo il dottor Latif''
''Ma allora dove sono i tuoi genitori?'' chiese Alessandro, non riuscendo più a trattenere la domanda che si portava dentro da quasi mezz'ora.
''Mia mamma non lascia mai la clinica'' rivelò Abhay con una punta di tristezza. ''Non sta molto bene, per questo usciamo solo io e Nadia a cercare da mangiare''
''E tuo padre?''
''È morto'' rispose Abhay fissandolo negli occhi.
Anche se aveva parlato in un tono sorprendentemente tranquillo, Alessandro non riuscì a non distogliere lo sguardo.
''Mi dispiace'' disse affranto, ''sono state...''
''No, è caduto giù da un'impalcatura più di un anno fa'' lo interruppe Abhay, anticipando la domanda. ''Non c'erano le bombe allora''
''Certo'' confermò Alessandro annuendo.
''Mi manca papà'' sussurrò Nadia in un bisbiglio quasi impercettibile.
Alessandro non disse nulla.
Dieci minuti più tardi i tre giunsero di fronte ad una palazzina di due piani dalla forma rettangolare. Era tinteggiata di bianco e rispetto alla desolazione degli edifici circostanti spiccava come il bocciolo di un fiore in mezzo al deserto. Le finestre al livello inferiore erano protette da inferriate e tra le persiane dietro di esse non se ne vedeva una che fosse aperta.
Tuttavia, alcuni piccoli indizi tradivano il fatto che il luogo fosse abitato. Al secondo piano, appoggiato in bella vista su uno dei davanzali, c'era un vaso pieno di magnifici gerani rossi. Se non fosse stato per la scritta in arabo che compariva al centro della facciata, insieme alla traduzione in inglese, Salām Clinic, Alessandro l'avrebbe potuta scambiare per una casa colonica d'altri tempi.
''Eccoci qua'' annunciò Abhay giulivo.
''È questo il posto?'' chiese Alessandro.
Abhay emise un mugolio d'assenso. ''Aspetti solo un secondo, adesso chiedo di farci entrare''
A quel punto il ragazzino si mise a correre verso il cancello della struttura, piazzato a metà di una breve galleria scavata nel muro perimetrale. Alessandro gli andò dietro sorreggendo sempre Nadia. Quando fu abbastanza vicino alle sbarre vide che dall'altra parte si estendeva un cortile in cemento illuminato dalla luce del sole. Sentì dei rumori e alcune voci attutite, ma non vide nessuno.
''Fatima!'' gridò Abhay attraverso il cancello. ''Fatima, puoi venire per favore?!''
Pochi secondi dopo una ragazza dalla pelle scura vestita da infermiera attraversò il cortile e iniziò a guardarsi attorno alla ricerca dell'autore di quella voce.
''Siamo qui, Fatima!'' urlò Abhay per attirare la sua attenzione.
L'infermiera si voltò subito verso il cancello e prese ad avanzare a grandi passi.
''Abhay?'' disse incredula, non appena ebbe riconosciuto il bambino. ''Che ci fai lì fuori?''
Sollevò lo sguardo e quando vide Nadia sgranò gli occhi.
''Che è successo a Nadia?''
Rialzò la testa ancora di qualche centimetro. Alla vista del volto di Alessandro la sua espressione si fece ostile.
''E chi è questo tizio?!'' sbottò stizzita.
Divorato dall'imbarazzo Alessandro abbassò lo sguardo.
''Tranquilla Fatima, è tutto a posto'' la rassicurò Abhay in tono sereno. ''Nadia si è solo fatta male alla gamba e il signor Kama ci ha aiutato''
''Ma tu guarda che...''
Fatima si interruppe a metà della frase, limitandosi a fissare la bizzarra combriccola per un po'. Alla fine emise un sono sbuffo, e dopo aver infilato la mano in una delle tasche del grembiule ne estrasse un mazzo di chiavi.
''Il dottore non sarà affatto contento quando scoprirà che siete usciti di nuovo'' rivelò scuotendo la testa, mentre apriva il cancello.
''Dov'è adesso?'' chiese Abhay con innocente semplicità.
''Sta visitando il signor Solanki in camera sua'' rispose Fatima richiudendo il cancello alle loro spalle. ''Non disturbatelo finché non ha finito''
''Va bene''
Adesso che si trovava all'interno del cortile Alessandro poté finalmente scoprire com'era l'edificio visto da dentro. Ad eccezione del ballatoio al secondo piano, non era poi molto diverso da come se l'era immaginato.
Rispetto a quelle viste da fuori, le finestre che si affacciavano sul patio erano quasi tutte aperte o socchiuse. Quanto al cortile, questo si presentava pressoché sgombro, ad eccezione di una fontana, ovviamente asciutta, piazzata sul lato ovest. Per terra era stata dipinta con la vernice rossa una scritta in caratteri arabi.
Incuriosito, Alessandro stava per chiedere ad Abhay cosa volesse dire, ma Fatima gli si piazzò davanti prima che riuscisse a proferir parola.
''Non c'è niente da rubare, quindi non si disturbi'' riferì gelida.
''Non voglio rubare'' ribatté Alessandro scandalizzato.
''Bene, perché rimarrebbe deluso''. E senza aggiungere altro attraversò il cortile, per poi scomparire oltre la soglia di una stanza immersa nella penombra.
Ancora spiazzato dall'avvertimento Alessandro rimase imbambolato sul posto, finché la voce squillante di Abhay non lo riportò bruscamente alla realtà.
''Dottor Latif!'' strillò agitando il braccio in aria. ''Dottor Latif!''
Nel momento in cui si voltò verso di lui Abhay stava correndo incontro ad un uomo in camice bianco, impegnato a chiudere la porta di una stanza al primo piano da cui era appena uscito. Non sapendo che altro fare, Alessandro lo seguì.
''Che c'è Abhay?'' chiese il medico al bambino quando se lo trovò davanti.
''Nadia si è fatta male'' gli spiegò Abhay, stando ben attento a non incrociare il suo sguardo. ''Credo si sia rotta la gamba''
Il dottor Latif aggrottò la fronte, palesemente confuso, e rivolse un'occhiata perplessa al trio che gli stava di fronte.
Era un uomo non troppo alto dalla carnagione olivastra, con i capelli neri tenuti corti e la barba curata. A giudicare dalle rughe che gli solcavano la pelle attorno agli occhi, doveva aver superato da qualche anno la quarantina. Il suo sguardo era penetrante e deciso, al punto che quando lo incrociò Alessandro si mise a fissare Nadia.
''Portatela in infermeria'' concluse al termine di una breve riflessione. ''Adesso le do un'occhiata''
Dato che non sapeva dove fosse, come al solito Alessandro lasciò che fosse Abhay a guidarlo. L'infermeria era una sala non troppo grande provvista di quattro paia di letti, ognuno dei quali affiancato da una flebo e qualche apparecchiatura dall'aria vetusta.
Sette delle brande disponibili risultavano già occupate dai pazienti, che si presentavano in condizioni più o meno gravi. Si andava da una semplice testa fasciata, fino ad arrivare al peggiore di tutti. Un ventenne collegato a diversi macchinari, la cui pelle aveva assunto un'assai poco rassicurante tinta verdognola.
Non avendo molte alternative, Alessandro ripose Nadia sull'unico letto libero. Nel momento in cui la sua gamba toccò il materasso, la piccola fu costretta a mordersi il labbro per non gridare.
Il dottor Latif arrivò dopo nemmeno un minuto che avevano fatto sdraiare Nadia, e senza dire nulla iniziò subito a visitarla. Alla fine, dopo un breve silenzio in cui si limitò a fissare la gamba dolorante, parlò.
''Com'è successo?'' chiese asciutto.
''È caduta'' rispose Abhay vago.
''Intendi che le hai fatto lo sgambetto?'' lo incalzò il dottor Latif, scoccandogli un'occhiata eloquente.
Abhay abbassò la testa.
''È caduta in una grata'' rivelò in un sussurro.
Il dottor Latif tornò a concentrarsi su Nadia e con estrema delicatezza le sollevò la gamba, per osservare meglio la vistosa ecchimosi formatasi all'altezza del polpaccio. Al contatto la piccola strinse i denti e chiuse gli occhi in un'espressione d'inequivocabile sofferenza.
''Sì, è rotta'' concluse il dottore adagiando la gamba sul letto, ''ma per fortuna non sembra una frattura scomposta''. Guardò Nadia negli occhi e le scoccò un sorriso rassicurante. ''Tranquilla, adesso ti metto il gesso, ok?''
Nadia annuì.
Il dottor Latif raggiunse un armadietto appeso alla parete lì vicino e prese a tirarne fuori l'occorrente per eseguire la medicazione. Raccolto il necessario appoggiò tutto su un piccolo carrello e lo affiancò al letto. Mentre srotolava una benda di cotone incrociò lo sguardo con Alessandro.
''Salve'' disse affabile, ''e lei sarebbe?''
''Solo uno che passava per caso'' farfugliò Alessandro abbozzando un sorriso.
''Si chiama Kama'' lo informò Abhay.
''Kama, eh?'' ripeté il dottor Latif tagliando la benda con le forbici. ''Nome interessante''
''Già'' confermò Alessandro a disagio.
''Signor Kama, mi potrebbe aiutare un secondo?'' chiese con gentilezza il dottore. ''Ho bisogno che qualcuno tenga sollevata la gamba mentre metto la fasciatura''
''Certo''
Alessandro si avvicinò al letto e attese istruzioni. Muovendosi con la massima cautela Latif sollevò la gamba di Nadia per la caviglia.
''Per il tallone va benissimo, grazie''
Stando molto attento a non farle male, Alessandro fece quanto richiesto.
''Mi raccomando, non si muova''
''Ok''
Il dottore portò a termine la medicazione in poco meno di cinque minuti, e a quel punto fece cenno ad Alessandro di appoggiare la gamba di Nadia sul letto. Quando Alessandro obbedì la piccola strinse i denti, ma smise di farlo praticamente subito. Il dolore che si era aspettata di ricevere non era giunto.
''Ed ecco qua, abbiamo finito'' annunciò soddisfatto il dottor Latif. ''Va meglio adesso?''
''Sì'' rispose Nadia curvando le labbra in un timido sorriso, ''ma fa ancora male''
Dopo aver tolto bende, forbici e nastro adesivo dal letto il dottore si chinò, ed estrasse da uno dei cassetti del carrello una piccola scatoletta di plastica, piena per metà di minuscole pasticche bianche.
''Inghiottisci questa'' ordinò Latif porgendone una a Nadia. ''Sentirai meno dolore''
''Grazie'' rispose riconoscente lei, prima di inghiottire la pillola.
''Aspirina?'' domandò Alessandro curioso.
Il dottore scosse la testa con aria bonaria.
''No, non si usa mai l'aspirina con le ossa rotte'' spiegò comprensivo. ''Questa è roba potente''
E stando ben attento a non farsi vedere né da Nadia, né da suo fratello, mostrò il davanti della scatoletta ad Alessandro. Sopra vi campeggiava la scritta Tic Tac. Di fronte all'espressione stupefatta di lui, Latif si limitò a rivolgergli un sorriso amaro, e poi ripose la confezione di caramelle nel cassetto.
''Cosa ti avevo detto?'' domandò rivolgendosi ad Abhay.
''Volevamo dare una mano'' si giustificò il ragazzino sulla difensiva.
''E ora tua sorella ha una gamba rotta'' ribatté secco il dottor Latif. ''Non mi pare un grande contributo''
Abhay non poté far altro che chinare il capo.
Il dottore emise un lungo sospiro.
''Si deve muovere il meno possibile o non guarirà bene'' l'avvertì pacato. ''Ti porterò delle stampelle della sua misura non appena le trovo, ma se ti becco ancora una volta che cerchi di sgattaiolare fuori, quelle orecchie te le faccio diventare lunghe un metro''
Le guance di Abhay si infiammarono. Il ragazzino sembrava essere diventato una statua.
Soddisfatto del risultato ottenuto Latif batté le mani e tornò a concentrarsi su Nadia.
''Allora'' disse rivolgendole un sorriso, ''vediamo di riportarti in camera''
''Dottore!'' esclamò una voce femminile proveniente dal cortile. ''Dottore!''
''Sono qui Uma'' l'avvisò Latif.
Una manciata di secondi dopo una donna di mezz'età vestita da infermiera entrò nella saletta. A differenza di Fatima aveva la pelle meno scura ed era anche parecchio più corpulenta. Il suo respiro affannoso suggeriva che fosse reduce da una lunga corsa.
''Ah, eccola'' disse sollevata appoggiandosi allo stipite della porta. ''Mi dispiace disturbarla, ma c'è un'emergenza. Il signor Bakhtiar ha ricominciato a vomitare''
Latif annuì.
''D'accordo, arrivo subito''. Stava per avviarsi in direzione dell'uscita, quando si voltò indietro. ''Signor Kama, so che ha già fatto molto, ma per favore, potrebbe riportare Nadia nella sua stanza?''
''Nessun problema'' lo rassicurò lui.
''Grazie mille'' disse chinando il capo in segno di riconoscenza.
Aveva appena varcato la soglia che dava sul cortile, quando la sua testa fece improvvisamente capolino all'interno dell'infermeria.
''Quasi dimenticavo''. E puntò l'indice verso Nadia. ''Quella gamba va tenuta sollevata''
Dato che la stanza che Abhay condivideva con la madre e la sorella si trovava al secondo piano della palazzina, prima di arrivarci dovettero salire le scale e percorrere il ballatoio per quasi tutta la sua lunghezza. Alessandro procedeva dietro Abhay sorreggendo Nadia, la quale adesso sembrava molto più rilassata rispetto al viaggio verso la clinica.
In effetti, quello ad essere più nervoso del gruppo era proprio Alessandro, che dietro l'atteggiamento in apparenza rilassato nascondeva un senso di disagio opprimente. Il suo obiettivo prioritario era far finire la guerra e invece aveva trascorso l'ultima ora ad occuparsi solamente di quella faccenda.
Certo, se non fosse intervenuto in loro aiuto per Nadia si sarebbe prospettato un pomeriggio decisamente meno piacevole, ma chissà quante altre ragazzine in pericolo stavano soffrendo in città in quello stesso momento senza che lui ne conoscesse nemmeno l'esistenza. Con i poteri di cui disponeva avrebbe dovuto alleviare il dolore di migliaia, forse milioni di persone, non di due alla volta!
Continuando ad agire come un buon samaritano qualsiasi non avrebbe cambiato veramente le cose. Probabilmente, ciò che lui aveva ottenuto con quel salvataggio il dottor Latif lo eguagliava in dieci minuti di lavoro.
Stava ancora riflettendo su quanto si sentisse stupido e inutile quando Abhay bussò alla porta della camera, facendolo sussultare. Mentre vagava tra i propri pensieri aveva finito per perdere la cognizione di dove fossero.
Una voce femminile parlò dall'altra parte della porta. Alessandro non riconobbe la lingua, anche se sospettava potesse essere hindi. Abhay rispose nello stesso idioma e un istante dopo la porta si aprì. Quando vide chi si trovava oltre l'uscio Alessandro rimase parecchio spiazzato. Non si aspettava che la madre di Abhay e Nadia potesse essere così giovane.
Era una donna sulla ventina dalla pelle color cannella come quella dei figli, dai grandi occhi scuri e il viso gentile. Indossava un lungo sari verde acqua e blu sopra cui spiccavano dei grandi fiori rossi. Alla vista di Abhay un largo sorriso le affiorò sulle labbra, ma si spense praticamente subito non appena vide anche Nadia in braccio ad un perfetto sconosciuto.
Ne seguì una breve quanto animata discussione di cui Alessandro ignorò il contenuto esatto, sebbene fosse lampante che stessero parlando di lui e della gamba rotta della piccola. Alla fine, dopo due minuti buoni di rimproveri, sguardi mesti, manifestazioni di contrizione e repliche appassionate, gli occhi della donna si illuminarono e un istante dopo puntarono dritti su Alessandro.
''Lei ha aiutato mia figlia?'' chiese a bruciapelo.
Parlava in un inglese decisamente meno "convenzionale" rispetto a quello utilizzato da Nadia e Abhay. Aveva un accento molto marcato e la parola figlia la dovette intuire, perché, anche con tutta la buona volontà, ciò che aveva pronunciato lei non assomigliava affatto a daughter.
Tuttavia, essendo comunque riuscito ad afferrare il messaggio, Alessandro si guardò bene dal fare commenti in proposito.
''Ehm, beh, sì'' confessò un po' impacciato.
Lei si spostò di lato per farlo passare.
''Entri pure'' disse in tono educato.
Alessandro annuì e varcò la soglia sorreggendo Nadia, con Abhay alle calcagna.
La stanza era molto frugale. C'erano tre letti, un tavolino di plastica provvisto di sedia, un cassettone di legno e nient'altro. A dirla tutta forse era anche un bene che l'arredamento fosse limitato. Tenuto conto di quanto fosse stretta, aggiungere altri mobili in quella camera avrebbe reso difficile persino muoversi.
Dall'unica finestra presente penetrava una calda luce dorata, che passando attraverso le lamelle delle persiane tenute socchiuse illuminava l'ambiente quel tanto che bastava da potersi orientare, senza tuttavia correre il rischio di morire soffocati dal caldo.
''Il letto di Nadia è quello a destra'' lo informò la donna mentre chiudeva la porta alle sue spalle.
I tre letti erano disposti in orizzontale rispetto alla porta e si trovavano l'uno accanto all'altro, con l'ultimo posizionato proprio sotto la finestra. Una volta giunto a cavallo di quello al centro però, Alessandro divenne incerto.
A lui sembrava di aver capito destra, ma in realtà quel right assomigliava molto ad uno straight. E comunque, cosa intendeva con destra? Rispetto all'ingresso o a dov'era in quel momento? Per sua fortuna ci pensò Nadia a venirgli in soccorso indicandogli quello giusto. Era quello sotto la finestra.
''Grazie'' sussurrò la bambina, quando lui l'appoggiò sul materasso.
''Di nulla'' rispose Alessandro.
''Posso offrirle del tè?''
Alessandro si voltò subito, giusto in tempo per vedere la madre dei due ragazzi che afferrava un bollitore dal tavolino e lo riponeva sopra un fornelletto a gas.
''Veramente...''
''Non si preoccupi, ne abbiamo davvero tanto'' lo rassicurò lei. Gli mostrò un sacchetto di plastica azzurra particolarmente gonfio e sorrise. ''Forse anche troppo in effetti. Ma è molto utile quando si tratta di tenere a bada la fame''
Anche se la testa gli diceva che fosse da irresponsabili starsene lì dentro a prendere il tè, mentre all'esterno la guerra continuava ad infuriare, Alessandro non riuscì a farsi venire in mente alcuna scusa credibile con cui rifiutare quell'invito così cortese. Senza poi contare che dopo lo spuntino nel deserto, una parte di lui non vedeva l'ora di potersi finalmente sciacquare la bocca.
Nonostante si fosse rivelato molto utile nel rendere la fame quantomeno tollerabile, era impossibile negare che il dromedario crudo, specie se ancora coperto di pelliccia, avesse un sapore davvero orribile.
''D'accordo, grazie'' disse chinando la testa in un cenno d'assenso.
La madre di Abhay gli rivolse un gran sorriso.
''Abhay offri una sedia al nostro ospite''
''Sì''
''No, non c'è bisogn...''
Alessandro non riuscì a finire la frase, perché Abhay scattò subito verso il tavolino dove stava lavorando sua madre, e una volta recuperata la sedia fece ritorno da lui e gliela piazzò davanti. Mentre Alessandro si sedeva, Abhay prese il cuscino dal letto di sinistra e lo piazzò sotto la gamba della sorella, così da fargliela tenere sollevata come aveva detto il dottor Latif. A quel punto si sedette sul bordo del letto.
''Ho soltanto tè nero purtroppo'' lo informò la madre di Nadia, ''spero non le dispiaccia''
''Si figuri'' la rassicurò Alessandro, ''è il mio tipo preferito''
La donna si voltò, mettendo in mostra un radioso sorriso.
''Che fortuna, allora'' commentò affabile. E tornò a concentrarsi sul bollitore.
Abhay si sporse verso Alessandro.
''A me il tè piace con tanto latte e zucchero'' gli confessò in un sussurro.
''Buono, anche a me'' rispose Alessandro nello stesso tono bisbigliato.
Sul viso di Abhay calò un'ombra.
''Ma non abbiamo né il latte né lo zucchero'' ammise a malincuore.
''Pazienza, va bene comunque'' gli disse Alessandro comprensivo.
Abhay parve tranquillizzarsi. Sua madre fu di ritorno dopo pochi minuti reggendo due tazze fumanti. Una la diede ad Alessandro e l'altra al figlio. Quando tornò a prendere anche la terza per Nadia però, Alessandro non poté fare a meno di notare che zoppicava vistosamente.
La sua gamba sinistra era rigida come un'asse di legno. Scioltasi dall'abbraccio in cui l'aveva stretta la figlia, la donna si diresse quindi verso il letto al centro, e piegando le ginocchia con un movimento che le costò una smorfia, prese posto sul bordo.
''Beh, spero le piaccia il tè'' commentò affabile, intanto che si sistemava il sari per coprire la gamba innaturalmente tesa. ''Signor...''
''Kama'' lo anticipò Abhay tutto pimpante, rispondendo al posto suo. ''Lui è il signor Kama''
''Il signore sa rispondere benissimo anche da solo, Abhay'' lo rimproverò sua madre in tono asciutto.
Divorato dall'imbarazzo, Abhay abbassò lo sguardo sulla tazza che stringeva tra le mani e bevve un piccolo sorso. Sortito sul figlio l'effetto sperato, la donna tornò a concentrarsi sul proprio ospite.
''Mi chiamo Chandra'' gli rivelò curvando le labbra in un sorriso. ''Chandra Akter''
''Molto piacere'' disse Alessandro ricambiando l'espressione.
''E suppongo non ci sia bisogno di presentarle anche i miei figli''
''Ho già avuto l'onore''
Il sorriso di Chandra si fece ancora più largo. Non riuscendo a sostenere quella vista Alessandro prese un lungo sorso di tè. Anche se dal liquido rossiccio continuavano a levarsi sottili spirali di vapore, ad Alessandro parve tiepido quanto un respiro.
''Signor Kama, le sono infinitamente riconoscente per aver aiutato Nadia a tornare a casa'' proseguì Chandra, non appena Alessandro ebbe staccato le labbra dalla tazza.
''Non lo dica neanche'' si schernì lui, ''è stato un gesto praticamente obbligato''
Chandra sgranò gli occhi, palesemente stupita.
''Sembra quasi che lei non viva nemmeno qui'' commentò con una punta di ironia.
''Ed è una cosa brutta?'' chiese cautamente Alessandro.
''No, anzi, è un complimento'' si corresse subito Chandra. ''Sa, ormai da queste parti non c'è più molta gente disposta ad aiutare gli altri, specie se sono in difficoltà''
Mentre alzava la tazza per prendere un altro sorso di tè, Alessandro notò che la mano sinistra della donna, mezza nascosta tra le pieghe del sari, era contratta in una strana posa, come se anche lei stesse stringendo una tazza, seppur invisibile. Accorgendosi della cosa, Chandra tirò su la manica con nonchalance, fino a coprire persino le nocche.
''Scusi se glielo chiedo, ma state qui da molto?'' domandò Alessandro, nel tentativo di cambiare argomento.
''Ci siamo trasferiti da Sonapur circa un mese dopo che iniziassero i bombardamenti'' rispose Chandra sollevata. ''Non che prima le cose andassero molto meglio, ma dopo che il quartiere è stato colpito, viverci era diventato completamente impossibile. Saremo sempre grati al dottor Latif per averci accolti qui''
Alessandro lanciò un'occhiata distratta alle pareti della stanza.
''È una clinica per...''
Chandra lo interruppe prima che potesse finire.
''Per persone non molto...ricche''.
Anche se stava ancora sorridendo, era chiaro che ammetterlo le costasse un grande sacrificio. In verità, l'ultima parola l'aveva pronunciata così a bassa voce, che Alessandro fu costretto ad intuirla.
''Principalmente si tratta di indiani, pakistani, filippini, ma soprattutto bengalesi''. Emise una risatina nervosa e si massaggiò il braccio sinistro. ''Noi siamo praticamente la maggioranza da queste parti''
Anche se non voleva farlo, l'occhio di Alessandro finì comunque per cadere di nuovo sulla mano sinistra di Chandra. Pur avendo distolto subito lo sguardo, la donna se ne accorse. Ciononostante, anziché mostrarsi irritata, Chandra si limitò a scostare il lembo del sari, e dopo aver sollevato il braccio lo ruotò affinché ne potesse vedere la parte inferiore.
Diverse cicatrici deturpavano la sua pelle color cannella in diversi punti, partendo dal polso fino al gomito, e probabilmente anche oltre. Era la mano però quella a fare più impressione. Quest'ultima infatti su presentava contratta in una strana posa ad uncino, come se fosse impegnata a stringere qualcosa di invisibile.
Essendo troppo turbato per farlo Alessandro non osò fiatare, attendendo che fosse lei a rompere il silenzio.
''Sono state delle schegge vaganti'' gli spiegò Chandra, mentre tornava a nascondere il braccio sotto il sari. ''Il dottor Latif ha ricucito la ferita, ma non aveva i mezzi per riparare il danno ai nervi''. Scrollò le spalle con aria noncurante. ''Adesso è bloccata così, come la gamba''
Alessandro deglutì. Di fronte alla sua espressione sconvolta Chandra parve preoccuparsi.
''Ma davvero, non è così grave'' si affrettò ad aggiungere in tono rassicurante. ''È solo non molto bella da guardare, però posso ancora a usarla per diverse cose''. Gli scoccò un sorriso gioviale. ''Inoltre, se vado piano, riesco anche a camminare senza stampelle''
Una volta che ebbe sentito quella storia, Alessandro fu colto dal folle impulso di abbracciarla. Se soltanto avesse potuto, gli sarebbe piaciuto confessarle quanto ritenesse orribile e mostruoso che una ragazza della sua età fosse ridotta in quello stato senza aver fatto assolutamente nulla per meritarlo. Tuttavia, si trattò solamente di uno slancio figlio dell'istinto, destinato a dissiparsi molto presto con il ritorno della ragione. Alla fine, l'unica cosa che riuscì a dire fu un misero "giusto", e nient'altro.
Fraintendendo l'espressione impassibile che Alessandro si sforzava di ostentare, mentre finiva di bere il tè Chandra parve incupirsi.
''Mi piacerebbe molto poterle offrire qualcosa di più, ma purtroppo non abbiamo altro''
''È il dottor Latif che vi procura da mangiare?'' chiese Alessandro fingendo di non aver sentito.
''Ovviamente'' confermò annuendo Chandra, lieta di poter cambiare argomento. ''Perlomeno quello che riesce a trovare''
''Ieri abbiamo mangiato lo stufato di carne'' lo informò Abhay compiaciuto.
Alessandro sgranò gli occhi.
''Davvero?''
''Sì, ma quando ho chiesto al dottore che carne fosse mi ha detto di andare a lavarmi le mani''
La mente di Alessandro guizzò subito al cane macilento che avevano visto durante il viaggio verso la clinica, e il sospetto che gli si era formato nella mente divenne certezza quando si ricordò anche le parole pronunciate da Abhay in quell'occasione.
Nel frattempo, Chandra scoccò al figlio un'occhiataccia di rimprovero, ma quando riprese a guardare Alessandro la sua espressione era tornata a farsi amabile come al solito.
''Allah perdona sempre coloro che mangiano cibi ḥarām in caso di necessità'' disse imbarazzata, in un tono che sapeva quasi di scusa. ''Dopotutto che senso avrebbe sopravvivere fin qui se poi non si vuole nemmeno mangiare dello stufato?''
Per qualche ragione a lui ignota Alessandro si ritrovò a pensare alla famiglia. E in particolare a sua madre. All'inizio cercò semplicemente di ignorare la morsa allo stomaco che gli causò quell'immagine, ma quando a questa si aggiunsero anche i volti di Umberto e Alice, una nausea intollerabile lo costrinse ad alzarsi.
''Senta, la ringrazio molto per il tè'' disse appoggiando la tazza vuota sulla sedia, ''ma adesso temo di dover proprio andare''
''Si figuri'' ribatté Chandra alzandosi in piedi a sua volta. Lo sforzo per poco non la fece cadere, ma Abhay la sostenne appena in tempo per evitarlo. ''E comunque sono io che dovrei ringraziare lei per aver aiutato Nadia. Se le fosse successo qualcosa non sarei mai riuscita a perdonarmelo''
Alessandro accennò un sorriso mentre inclinava la testa in segno di saluto.
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