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"A shot in the dark,
a past lost in space.
Where do I start?"
― She Wolf, David Guetta
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Nessuno fiatò per l'intera tratta, ma non durò a lungo. Dopo appena una ventina di minuti avevamo raggiunto il centro di Blazar City dove l'ufficiale ci consegnò nelle mani di altri uomini in divisa.
C'era un pullman ad attenderci, sulla fiancata riportava il grosso stemma vermiglio dell'Arma con la sagoma in rilievo di un lupo alato.
«Avete il documento di riconoscimento?» ci domandò un signore robusto non appena fummo fuori dall'auto.
Reggeva un tozzo sigaro tra le dita ingiallite e se lo riportò alla bocca. Tutti e tre avevamo ancora tra le mani la busta rossa sigillata e gliela mostrammo in silenzio. Non vi prestò molta attenzione.
«Eccellente. Salite a bordo, muovetevi,» ordinò per poi voltarsi e drigersi verso un altro ufficiale.
Individuai uno sportellone aperto del pullman e mi avviai per prima, seguita dai miei compagni di viaggio. Non eravamo gli unici, come immaginavo. Sfilai di fronte ad una cinquantina di ragazzi e ragazze della mia età. Alcuni parlavano sottovoce, altri guardavano fuori o studiavano me, tutti accomunati dalla stessa aria irrequieta e spaesata.
Non appena trovai una fila libera, ormai al fondo, mi ci infilai senza pensarci due volte. Alzando lo sguardo incontrai quello del ragazzo che aveva viaggiato con me e che mi aveva seguita fin lì.
Accennò al posto accanto a mio, «Posso?»
Mi limitai a un cenno di consenso con la testa e mi spostai più vicina al finestrino. L'altra ragazza prese posto dietro di noi. Udii lo sportellone del pullman chiudersi e, tutt'a un tratto, una voce registrata cominciò a parlare nell'interfono.
"Attenzione, prego. È il generale Quillan a parlarvi, capo di stato maggiore dell'Arma. Quest'anno, le nuove reclute sono state quattrocentosettantatre. Voi, dal primo all'ultimo, siete stati scelti per servire e proteggere il nostro paese e da questo momento avrete l'onore di portare avanti una tradizione centenaria che riconfermerà il valore delle nostre Forze Armate. Da oggi la vostra vita è cambiata per sempre e prima lo accetterete, meglio sarà. Siete soldati, adesso. E l'Arma è la vostra famiglia. Quando giungerete alla Base di Thebe riceverete nuove istruzioni. Per ora è tutto. Vi mando i miei migliori auguri."
Il pullman vibrò, segnando l'accensione del motore, e presto partì. Non avevo idea di quanto sarebbe durato il viaggio, ma non me ne preoccupai. Non mi preoccupai di niente.
Appoggiai la testa pesante al vetro del finestrino e persi lo sguardo sull'asfalto che sfrecciava sotto di noi. Pensai a Sean, ma non sentii più nulla. Cercai di figurarmi i miei genitori a casa, chiedendomi cosa stessero facendo senza di me. Poi mi tornò in mente il passerotto che avevo visto quel mattino. Lo immaginai volare libero, librarsi nel cielo, e in qualche modo quell'immagine mi rasserenò. Infine mi addormentai.
Quando riaprii gli occhi non vidi altro che oscurità. Non avevo idea di quanto avessi dormito, ma era calata la notte e il pullman era ancora in movimento.
«Ah, menomale che ti sei svegliata!» esclamò una voce improvvisa nel mio orecchio sinistro.
Mi ero quasi dimenticata della presenza del ragazzo sul sedile vicino al mio. Mi sfregai gli occhi per liberarmi dall'intorpidimento del sonno e mi voltai a guardarlo, sbattendo le palpebre e vedendolo davvero per la prima volta. Aveva dei capelli biondi molto disordinati, tenuti indietro da una fascetta scura così che non gli ricadessero sul viso. Lì per lì mi parve un'acconciatura bizzarra.
«Dormivi davvero bene, ma stiamo per arrivare. E non avevo idea di come avrei fatto a svegliarti,» spiegò allegramente, per niente intimidito dal mio silenzio o dal modo in cui lo guardavo.
Mi sorrise di nuovo. Rimasi a fissarlo per qualche altro istante, mentre pian piano mi tornava in mente tutto quello che era successo nelle ultime ore. Poi mi sollevai sul sedile e mi guardai attorno. Quasi tutti dormicchiavano o parlavano sommessamente, ma di certo nessuno aveva l'aria allegra del mio vicino, come sospettavo.
Tornai con lo sguardo su di lui. Mi stava ancora sorridendo.
«Se te lo stai chiedendo, mi chiamo Aryan. Aryan Murph,» aggiunse. «Tu, invece?»
Mi lasciai ricadere contro il mio schienale, «Veramente mi sto chiedendo se sei pazzo o se non hai idea di cosa stia succedendo.»
«È possibile che io sia pazzo,» rispose prontamente. «Oppure un genio.»
Incrociai le braccia e sollevai le sopracciglia con scetticismo.
«Ah, sì? Vediamo,» concessi.
«Tenere il muso non ti farà tornare indietro,» disse senza giri di parole. «Ho perso molte libertà oggi, ma di certo non quella di scegliere come sentirmi. Come ha detto il generale Quillan, prima accettiamo, meglio è. Io l'ho fatto. Ti consiglio di fare lo stesso,» mi strinse un occhio per poi guardarmi con aria fiera.
Lo studiai per qualche istante, poi annuii una volta.
«Valyrie Wade.»
Mi porse una mano e gliela strinsi.
Tornai a guardare fuori dal finestrino, in lontananza vidi delle luci di probabili edifici e immaginai che non mancasse molto. Quella breve dormita mi aveva restituito l'energia che avevo perso la notte precedente e per un attimo mi sentii più coraggiosa, quasi curiosa di vedere cosa mia apettasse.
Uno strano odore mi solleticò le narici. Inizialmente mi ricordò lo sterco delle vacche e immaginai stessimo viaggiando lungo dei campi, ma poi si intensificò, fino a diventare fastidioso. Inspirai più a fondo per analizzarlo, curiosa di capire cosa fosse. E quella volta non ebbi alcun dubbio: era odore di plastica bruciata.
Mi sollevai ancora una volta sul sedile e mi guardai attorno, ma nessun altro sembrava essersene accorto. Eppure io lo senivo crescere d'intensità a ogni respiro.
«Ma che... Tu lo senti?» mi rivolsi ad Aryan, che corrugò la fronte. «C'è odore di bruciato.»
«Credo venga da fuori,» sollevò le spalle. «Rilassati, ormai siamo arrivati.»
«Non mi sembra che-»
Non riuscii a terminare la frase che un grido acuto squarciò il silenzio proprio dietro di me. Mi voltai, era la ragazza che aveva viaggiato con noi, seduta nell'ultima fila. Stava indicando qualcosa di luccicante fuori dal vetro mentre una nuvola nera proveniente da chissà dove ci investì. Me ne resi conto in un attimo. Il pullman era in fiamme.
«Al fuoco!» gridai istintivamente, superando tutte le voci che si erano sollevate.
Scoppiò il caos. All'improvviso eravamo tutti in piedi, il terrore sui volti.
«Il pullman sta bruciando!» strillò un ragazzo contro il finestrino opposto al mio.
«Chiamate qualcuno! Dobbiamo fermarci!» si sollevò un'altra voce.
«Non c'è nessuno!» gridò un altro ragazzo dalla punta, sbirciando da una grata sulla porta della cabina di guida.
«Cosa?! Chi sta guidando questo dannatissimo pullman!?» qualcuno rispose.
«Merda,» sussurrò Aryan per poi scattare nel corridoio tra i sedili e iniziare a farsi strada in mezzo a tutti.
«Dove vai?» gridai.
«A fermare il pullman!» rispose di rimando, «Dobbiamo uscire, questo coso esploderà!»
Un intenso fumo nero, proveniente dal motore nel retro, correva lungo il soffitto e cominciava ad annebbiarmi la vista. A ogni respiro sentivo la gola bruciare sempre di più.
Tutti quanti si erano ammassati contro i finestrini nella parte anteriore del veicolo, per fuggire al fumo. Ma per quanto forte colpissero i vetri, quelli non riportavano nemmeno un graffio. È un mezzo dell'Arma, i vetri sono antiproiettile, pensai. Colpirli è inutile.
Mi coprii il naso e la bocca con una manica e mi incamminai per il corridoio, ignorando le grida e i colpi di tosse degli altri, e studiando i finestrini nella foschia scura. Doveva per forza esserci un altro modo.
Inciampai in qualcosa e guardai a terra. La stoffa del pavimento si era rialzata, come a nascondere un piccolo sportello. Mi inginocchiai e lo sollevai del tutto con le dita, il metallo sottostante mi graffiò inaspettatamente. C'era un gancio collegato ad un cavo che spariva oltre un foro.
«Questa porta è bloccata, non possiamo rallentarlo!» riconobbi la voce di Aryan. «Dobbiamo saltare giù!»
«I vetri non si rompono!»
«Maledizione, moriremo tutti!»
Ormai non sentivo altro che violenti colpi di tosse. Mi lacrimavano gli occhi e il calore delle fiamme sempre più grandi e vicine stava diventando opprimente.
Notai delle venature a raggiera che partivano dal foro con il cavo e si diffondevano sotto alla moquette, ne seguii alcune tastando il pavimento. Portavano alle finestre. Il pullman tremò e sobbalzò all'improvviso.
«Sta per esplodere!»
Senza pensare oltre, afferrai il gancio e tirai con forza.
Il tempo si fermò. Le finestre cedettero una ad una e per un attimo colsi il profumo fresco della notte.
Il pullman tremò di nuovo e udii un colpo violento, qualcuno gridò. Mi alzai e barcollai fino ad una finestra aperta, vedevo un campo scorrere veloce davanti a me. Mi voltai indietro, insicura. Quasi tutti erano già saltati giù.
«Via! Via!» li sentivo dirsi l'un l'altro.
Tornai a guardare fuori, avevo già un piede sul bordo. Una fiamma brillò più alta nella mia visuale periferica e non ebbi scelta: saltai.
L'impatto fu improvviso e violento, ma la terra morbida e umida del campo in qualche modo mi rassicurò. Rotolai per qualche metro prima di riuscire a fermarmi con la faccia a terra. Sentii in bocca il sapore del fango in cui erano affondate le mie mani e sputai. Rimasi bloccata per alcuni istanti, senza respiro, finchè un'assordante esplosione non riverberò nel terreno e illuminò l'oscurità.
Quando ricominciai a sentire delle voci in lontananza, mi sollevai a carponi, tossendo e cercando di riprendere il respiro. Guardai verso la strada e il mio viso venne investito dal calore delle grandi fiamme che si alzavano dalla carcassa riversa del pullman.
«State tutti bene?» chiese forte qualcuno, ad una decina di metri da me.
Intravidi tutti gli altri e, ignorando le gambe tremanti, mi affrettai a raggiungerli. Qualcuno mi strinse un braccio, sussultai.
«Tranquilla, sono io. Stai bene?»
Incontrai lo sguardo di Aryan, aveva una lunga escoriazione sulla parte destra del volto che proseguiva sul braccio.
«Hai...» non riuscii a parlare.
«Lo so,» disse. «Non sono riuscito a cadere nel campo.»
Abbassai lo sguardo su di me. Ero sporca di fango ovunque, ma pressochè integra. Mi scostai i capelli dal viso e deglutii per parlare, nonostante risultasse doloroso.
«Che diavolo sta succedendo?»
Aryan mi guardò.
«Il test.»
Strabuzzai gli occhi.
«Quello era il test? Cercare di ammazzarci?»
Sollevò le spalle, «È l'Arma. Che ti aspettavi?»
«Non lo so... Domande a crocette, magari?»
Scosse la testa, accennando un ghigno alla mia risposta.
«Guarda là,» indicò la punta di un lampione e solo allora notai una piccola telecamera. «C'erano anche sul pullman. Ci hanno sempre osservati.»
Venni percorsa da un brivido e ripensai a tutto quello che era successo. Poi udii il motore lontano di un elicottero in avvicinamento.
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