Capitolo XX- Magna promisisti
La pioggia batteva contro le lamine intarsiate delle finestre.
Il rombare dell'acqua lungo la tettoia della cattedrale arrivava attutito nella sala da cena, quasi soppresso dal chiacchiericcio, udibile solo se vi si prestava attenzione.
C'erano istanti in cui il vento soffiava più forte e le finestre, contro il peso delle gocce di pioggia, sembravano all'improvviso troppo deboli.
In quei momenti calava una quiete nuova, attenta e un poco tesa.
Poi tutto tornava come prima.
Posate tintinnanti e risa limpide.
La sala da cena si trovava nell'ala ovest dell'edificio; sbucava senza preavviso dopo un lungo e stretto corridoio poco illuminato, dove l'acqua entrava dagli spifferi delle finestre e si aveva la costante paura di rimanere bloccati tra le pareti, tanto erano strette.
Una volta salita la grande rampa di scale vicino al portavivante ci si trovava davanti a un salone dai soffitti a cassettoni, le finestre alte e i tavoli a scorrere senza fine ai lati dei muri; austero ma confortevole, si sviluppava in lunghezza procedendo all'infinito come un giardino alla francese, dando l'illusione di essersi privato dei propri confini.
Quando non era abitato doveva incutere una certa soggezione, ma in quel momento era un nemico che aveva gettato le armi, ospitale ed accogliente, vivo di chiacchiere e sorrisi, di bicchieri che si scontravano e di visi allegri. Non erano in molti ad abitare la Cattedrale, -anche se quell'anno si erano aggiunti diversi studenti-, ma in quella sala le loro voci sembravano il coro per altre migliaia e migliaia di persone diverse, tanto era profondo l'eco.
Avevano lasciato la camera di Ezra dopo qualche ora spesa a leggere, a riporre libri e a ricominciare da capo.
Aveva una libreria impressionante, per il poco spazio di cui poteva usufruire.
Ma molti dei libri giacevano oltre la libreria; sui bordi del letto, per terra, a formare piccole torrette su cui sopra erano riposte altre cose, sulla finestra e a tappezzare la scrivania.
C'era qualche camicia stesa sulla sedia, qualche cravatta lascia pendere sull'anta dell'armadio; Ezra all'improvviso si era girato e, di fronte alle occhiate di Emeline, aveva detto:
«Sai, credo di avere una teoria. Che tutti coloro che hanno vissuto in un collegio da piccoli, da adulti siano diventati irrimediabilmente disordinati nei loro spazi personali. Come per una specie di ripicca.»
In quel momento Emeline guardò tutti gli studenti che aveva davanti, e si chiese se le parole di Ezra avessero davvero un fondamento di verità.
Se valesse per tutti loro; se tutti quei ragazzi stessero attuando la loro personale vendetta contro quella vecchia disciplina.
«Sta ancora piovendo?» si lamentò Julius, guardando le gocce scorrere lungo una delle finestre.
Ezra si avvicinò all'entrata.
«Sì, e molto. Resta a mangiare qui.»
Lui allungò gli angoli della bocca all'ingiù, guardandosi intorno.
«Non so se posso.»
«Nessuno ti controllerà.»
Poi si rivolse ad Emeline. «Lo stesso vale per te.»
Ma lei rise.
«Di me credo si accorgerebbero» disse, leggera. Non voleva fargli pesare quell'errore grossolano, ma sorrise di fronte a Ezra e al suo poco prestare attenzione alla realtà.
Anche lui rise, in ritardo, prima di appoggiarsi all'uscio della sala.
«Non importerebbe nulla a nessuno comunque. Qui amano mostrare una severità che non hanno.»
Emeline non era certa che fosse la completa verità; certo, sapeva quanto le regole fossero blande all'interno della Cattedrale -studenti che sgattaiolavano fuori di continuo, che portavano scotch e fumavano nelle loro stanze, che si riunivano in un'unica camera per giorni e che ospitavano amici di nascosto- sicuramente molto più superficialmente seguite che all'interno dell'Università, ma non era sicura che la sua presenza sarebbe passata inosservata come una sigaretta fumata dalla finestra o una bottiglia di scotch vuota davanti alla porta della cucina.
«Preferisco di no. Ma grazie lo stesso» ammise, ed Ezra inclinò la testa, prima di annuire.
«Come ti pare. Guarda che si mangia bene, comunque.»
Julius si era già diretto verso il tavolo.
Alcuni ragazzi lo salutarono, sorpresi, lui si portò l'indice alle labbra in segno di silenzio.
«Non ne dubito.»
«Come farai con la pioggia?»
Lei mosse il mento verso l'esterno.
«Ho l'ombrello, all'entrata.»
«Ah» fece Ezra, comprensivo.
«Voi scozzesi non vi fate mai trovare impreparati.»
«Non possiamo.»
Poi scese qualche gradino.
«Posso tenerlo per una sera?» chiese, mostrando il libro che stringeva tra le dita.
Ezra scrollò le spalle.
«L'ho già letto due volte. Per quello che ci serve, credo di sapere già abbastanza su Plotino.»
Emeline abbozzò a un sorriso, poi arrivò alla fine della rampa di scale.
Il contenuto della finestra le si rifletteva in viso; lei era immobile nel buio del torrione, illuminata di un blu profondo, mentre le ombre della pioggia le scendevano lungo le guance.
«Sai, non sono stata molte volte a Glasgow.»
«Come?»
«No. Solo quando ero più piccola. Ma credo mi piacerebbe tornarci. Come hai detto che si chiama, quel tuo zio?»
In realtà non aveva mai fatto il suo nome. Julius lo chiamava Banquo, definendolo un fantasma che ogni tanto appariva, il cui nome veniva ricordato durante le cene.
«Arthur» disse lui.
Poi si voltò verso la sala; Julius dovette dirgli qualcosa, perché lui annuì e fece un veloce gesto con la mano.
«Ti lascio andare» fece Emeline.
«Me ne vado, prima di incontrare qualche fantasma.»
Si diede un'occhiata in giro: il pensiero di tornare all'entrata da sola le infondeva un vago senso d'angoscia.
Ezra scoppiò a ridere.
«Attenta alle figure dai matronei.»
«Non vorrei mai trovarmi davanti una Maria Stuarda decapitata.»
«Oh!» esclamò Ezra, scacciando l'aria con una mano.
«Non siamo così importanti per avere la Regina con noi.»
Poi alzò lo sguardo verso i tavoli.
«Stanno servendo il primo. Devo andare.»
La salutò con un prolungato gesto della mano. Quando il suo viso scomparve dietro l'arcata di pietra della porta, il suo palmo rimase ancora visibile, aperto, le dita magre mosse da un saluto silenzioso.
«Unione mistica.»
Il castello di Edimburgo si vedeva appena, dietro la nebbia, posato sulla punta del colle come una corona.
Le sue mura scendevano lungo le pendici della collina, simili a bisce, sottili e scure, s'intravedevano tra la foschia a tratti.
Riposavano sotto l'ombra di una quercia dal tronco spesso; vicino a loro le persone camminavano, in un flusso continuo.
La Chiesa di St. Cuthbert's Parish sbucava da oltre le chiome degli abeti, grigia e malinconica come sempre.
Le lapidi, nel cimitero che l'affiancava, si lasciavano sommergere da rampicanti dalle foglie brillanti senza ribellarsi.
«Unione?» fece Julius.
«Esattamente.»
«Mistica?»
Ezra alzò gli occhi al cielo, sorridente.
«So che il termine in sé possa creare diverse perplessità. Ma pensateci bene. Ekstatis. È il trovarsi fuori da sé. L'uscire dal proprio Io.»
Julius non disse nulla, ma sgranò appena gli occhi, mentre si voltava verso il cimitero e mordeva la sua mela, crucciato.
«Stiamo parlando di ricongiungimento con la divinità, giusto?» Emeline, appoggiata alla corteccia della quercia, stava immobile a prendere vento.
I suoi capelli si muovevano placidi sotto la spinta dell'aria, e la sua gonna, sparsa come un'onda salmastra su quella riva d'erba, sembrava seguire un ritmo ben preciso nel suo oscillare.
Ezra inclinò la testa.
«Sì, diciamo. Ricongiungersi e unirsi, è questo il punto.»
Davanti al silenzio degli altri, riprese a parlare. «L'idea plotiniana si basa sulla credenza che esista l'Uno. Entità immutabile, eterna, perfetta. Che vive nell'intellegibile.»
«Le idee di Platone, quindi.»
«È proprio questo. Plotino deve molto a Platone. Non a caso il suo lavoro era quello di esegesi sugli scritti di Platone. Esegesi: rendere esplicito ciò che è implicito.»
«Ciò che stiamo facendo noi.»
Ezra annuì.
«Il problema, il fulcro, è che Plotino credeva che non solo si potesse raggiungere questo mondo intellegibile e perfetto, ma che si potesse diventare tutt'uno con esso.»
«Non è qualcosa di prettamente cristiano?»indagò Julius, sdraiandosi vicino ad Emeline.
Ezra mostrò i denti in un'espressione contrariata.
«Non dirlo mai davanti a chi apprezza davvero la filosofia. Togliti dalla testa quest'idea che Plotino possa aver soltanto associato le sue idee alla Cristianità. So che molti hanno una visione del genere sulla questione, ma non dar loro ascolto.»
«Il nostro professore del collegio diceva esattamente così.»
«Oh, Cristo» fece allora lui.
«Dimentica ogni cosa che hai imparato in quel collegio!»
Emeline sbuffò una risata.
«È vero. Plotino aveva una visione totalmente pagana della ricongiunzione con la divinità.
Ciò che chiama Dio non è altro che l'entità divina in generale.
I termini che usa sono forti: si parla di perdere la propria identità, perdere se stessi.
Con l'avvento della cristianità la fede non viene percepita secondo certi termini.
L'uomo non potrà mai del tutto combaciare con il divino.
Dovrà sempre essere uno scalino più in basso. Mentre con Plotino... ecco per lui si può...»
«Coincidere con Dio.» Ezra si voltò verso il cimitero, osservando le gazze ladre mordere l'erba cresciuta sulle lapidi.
«Diventare Dio?» Julius guardò entrambi, con uno strano sguardo brillante e perplesso.
Ezra scrollò le spalle.
Se è così che la vuoi mettere, sembrava dire, mentre strappava un soffione da terra.
«Ma non è questo che ci interessa, non propriamente. Per quello che ci riguarda, dovremmo essere in grado di ritrovare la via che porta all'Io, alla Natura -che in filosofia può essere sinonimo di Dio-, e Plotino sembra aver trovato il modo.»
A quel punto Emeline prese una mela dal cesto di vimini, le diede un morso e sorrise.
«Ma non l'ha tramandato.»
Ezra alzò un sopracciglio, sorpreso.
«No. Porfirio ci dice che Plotino si sia ricongiunto con l'Uno ben quattro volte, ma non ha mai lasciato alcuna testimonianza scritta. Perché secondo il neoplatonismo l'unione è qualcosa di ineffabile.
Di impossibile da descrivere o dimostrare. Plotino cerca di spiegarla tramite metafore; nell'unione si deve abbandonare la propria individualità... si attua una specie di ricomposizione del tutto -l'Io- nell'unità.
Ma è tutto qui. Non c'è nulla di certo, sono solo semplici speculazioni filosofiche.»
Julius ridacchiò, irritato.
«Allora mi spieghi perché mi ha fatto leggere tutti quei commenti alle opere plotiniane? Magna promisisti, exigua video¹.»
Ezra lo aveva portato in biblioteca con la promessa di farsi rispiegare qualcosa su Orazio, ma ne era uscito a tradimento con tre o quattro volumetti di critica alla filosofia neoplatonica.
«Perché» Ezra si morse l'interno della guancia, frustrato, come se non capisse cosa ci fosse di così tanto difficile da comprendere.
«Perché Plotino è la base. Senza la sua teoria sull'estasi mistica non saremmo mai potuti arrivare al pensiero di Proclo.»
«Neoplatonismo ateniese» mormorò Emeline, con un vago tono interrogativo.
Ezra mosse di poco il mento.
«È lui che sviluppa l'idea di teurgia legata all'estasi.»
Julius, il capo steso sul ginocchio di Emeline, si mosse di colpo.
«Oh, mio Dio! Teurgia? Vuoi dirmi che ci rinchiuderemo in grotte a emettere sentenze sibilline?»
«Gli oracoli sono una cosa diversa, scemo!»sputò Ezra, infastidito.
Julius rise.
«Credi che sia solo un ignorante a proposito, ma so benissimo qual è la differenza; negli oracoli il contatto con il dio era spontaneo. Nella teurgia è l'uomo a richiederlo. La teurgia è l'arte dei Misteri.»
«Iniziatici?» chiese Emeline, mentre lasciava che Julius si risistemasse sul bordo del suo vestito.
«Esatto» fece lui.
«Eleusini, bacchici... si attua attraverso precise cerimonie, simboli, analogie... tutta una questione di simpatie tra le cose sensibili.»
Poi si voltò verso Ezra, che era rimasto in silenzio.
«Questo è il mio campo, permetti?» chiese, sardonico. E lui lo lasciò fare.
Allora Julius incrociò le gambe, sistemandosi sul posto e staccando un piccolo grappolo dall'uva.
«La teurgia consiste nell'evocazione della divinità. Si cerca prevalentemente di manipolare determinati materiali per mettere in contatto il teurgo con la divinità.»
Mangiò qualche chicco d'uva.
«L'efficacia del rito dipende dalla sospensione della razionalità. Ciò consente l'elevamento a stati più alti della coscienza, stati che permettono di congiungersi infine con quello divino.»
Schiacciava i chicchi tra i denti, e nel silenzio del parco il loro scoppio risuonava in un suono sordo e cupo.
«Teurgia, in semplice, sta quindi a significare l'agire come un Dio. Aiutare gli uomini ad elevarsi a quello status divino che ricercano.»
Ezra si sedette a gambe incrociate.
«E ciò avviene solo con l'unione mistica. È per questo che necessiatiamo prima di conoscere Plotino per capire Proclo.
La sua è una visione diversa da quella del maestro, ma tuttavia simile, vicina, come una continuazione evoluta dello stesso pensiero. Ciò che serve a noi, che serve al nostro scopo, è ricercare l'oggetto sensibile che possa metterci in contatto con ciò che stiamo cercando.
Ed è vero che non si parla di divinità, -come potrebbe esserlo? Non siamo alla ricerca di rivelazioni profetiche- tanto quanto di un'entità superiore, che identifichiamo con il nostro personale Dio.
È vero, i greci facevano tutto in funzione della religione, ma se queste filosofie, questi riti potessero funzionare anche davanti a qualcosa di diverso? Se il dio che cerchiamo, se il nostro Uno fosse dentro di noi?
So che sembra stupido, ma credo sia così.
Sì, credo che in fondo Plotino possa aver tralasciato l'idea che forse Uno e Io si trovino nello stesso luogo; e noi adesso viviamo nell'Io, e l'Io soffoca l'Uno come una pianta infestante. Per risvegliarlo è necessario perderci nello spazio vuoto che li divide.
E una volta staccati dall'Io non abbiamo bisogno di elevarci, di andare in alto, ma di ricercare solo più a fondo in noi stessi. Avremo il contatto con il divino, attueremo la nostra teurgia, ma per farlo dovremmo solo servirci della nostra interiorità.»
Calò il silenzio.
Ezra sbuffò fuori l'aria, riprendendo fiato d'un colpo.
Julius schiacciò tra i denti l'ultimo chicco d'uva.
«L'oggetto sensibile siamo noi. Il tramite.»Emeline inspirò, tesa.
Tutto le sembrava all'improvviso distante e sbagliato.
Il cinguettare delle tortore pareva troppo attutito, e il suono delle voci dei passanti era come il gorgoglio di un ruscello: sottomesso dagli altri suoni, incomprensibile.
«Il tramite per il contatto, sì. Credo di sì. Dobbiamo solo... solo riuscire a staccarci dal guscio in cui siamo vissuti finora. Anche solo per un attimo. Basterà quello, basterà un secondo in cui ci ricongiungeremo con l'Ineffabile... credo basterà.»
Ezra si sdraiò, e prese ad osservare l'albero sopra di loro.
«Come sei arrivato a tutta questa conclusione?» domandò Julius, incerto.
Ezra scosse la testa.
«Non ne ho idea. All'improvviso mi è semplicemente parsa quella più ragionevole.»
Allora Emeline si alzò, pulendosi la gonna dalla polvere.
«Ascolta, Ezra, io mi fido di te» disse, ferma. «Ma so che hai già programmato tutto, nella tua testa.»
A volte lo osservava e si chiedeva cosa gli passasse per la mente.
Erano i momenti più strani in cui se lo chiedeva: quando lo vedeva percorrere i corridoi della Vaas, quando leggeva Shakespeare sotto al portico, quando beveva caffè la mattina.
Ma era sempre stata convinta che Ezra non perdesse nemmeno un secondo a non pensare. Un ciclo continuo e infinito.
E sapeva di averlo intuito così bene perché era una sensazione familiare, quella dell'impossibilità di fermare i pensieri.
Con Julius era diverso: a volte credeva che lo facesse a posta, a non pensare.
Come se si vietasse di farlo.
Ma persone come Ezra- persone come lei-, non sembravano avere quell'abilità.
«Come hai intenzione di farci perdere coscienza?»
Julius si voltò verso entrambi, come se avesse colto l'antifona.
Ezra guardava a terra, quasi aspettasse di cogliere un fiore nel suo sbocciare.
«La Pizia mangiava alloro, per mettersi in contatto con Apollo. Julius, dimmi se sbaglio.»
«È giusto» asserì lui, immobile.
«Ci sono molti modi per perdere coscienza, ma pochi che usavano gli Antichi. Certo, potremmo provare con l'alcol, ma non credo vorremmo trovarci a compiere un Baccanale.»
«A meno che tu non voglia fare un rito orgiastico nel bosco della Vaas, direi di no»lo punse Emeline, e Julius si portò la mano alla fronte.
«No, i riti bacchici sono da escludersi. Ma pensateci. Oltre all'alcol...» Ezra si fermò.
«Oh, no!» Julius sgranò gli occhi, come se per un momento avesse letto nella mente dell'altro, e ciò di appreso non gli fosse piaciuto affatto. «No, Ezra, sei un folle!»
«Piante.» Emeline guardò Ezra, lui di rimandò le rispedì indietro l'occhiata.
«Sai come accedere all'erbario della Vaas?»chiese solo lei, il vento a scuoterle le punte dei capelli.
Lui annuì.
«Certo.» E mostrò un mazzo di chiavi.
꧁glossario꧂
¹Magna promisisti, exigua video: hai promesso molto, vedo poco.
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