53.
Annie
«Puoi per favore spiegarmi perché stiamo andando ad Hyde Park?» ripete spazientita per la quarta volta tenendo gli occhi fissi sulla strada.
Per seguire una stupida sensazione che non vuole saperne di lasciarmi in pace. Perché ho bisogno di scoprire se si tratta di un vicolo cieco o di un bivio.
«Quello della foto non è un albero qualunque», comincio mantenendo lo sguardo basso sul biglietto trovato in camera, ora appoggiato sulle mie cosce. Chissà se l'ha portato lui direttamente o se ha chiesto a qualcuno di farlo al suo posto.
«È quello sotto cui ci siamo seduti al nostro primo appuntamento».
È dove sono tornata ogni volta che volevo provare a sentirlo più vicino, ogni volta che la sua mancanza era così forte da togliermi il sonno e il respiro, ogni volta che tutto sembrava crollare come un castello di carte, ogni volta in cui tutto sembrava così irreale e dovevo ricordare che non fosse solo un sogno ma che ci eravamo accarezzati davvero ai piedi di quel tronco.
«Cosa pensi di trovare?»
«Non lo so, ma da sola questa immagine non ha senso», ragiono ad alta voce.
«Forse voleva solo lasciarti una dedica e ha deciso di abbinarci una foto che rappresenta qualcosa di importante per voi».
«Sarebbe bastato un semplice messaggio».
«E tu saresti tornata da lui?»
«No, Maddie ma non sarà nemmeno questo biglietto a cambiare le cose».
«Se davvero qualsiasi cosa tu trovi non servirà a niente, stiamo sprecando tempo», obietta giustamente.
«Questa deviazione ci farà perdere solo pochi minuti», evito la sua domanda indiretta.
Maddie scuote la testa ma non aggiunge altro e, dopo aver parcheggiato l'auto, mi segue per i sentieri di Hyde Park senza obiezioni.
«Eccolo», la informo indicando l'albero in fondo al sentiero che stiamo percorrendo quasi correndo. Osservandolo da lontano non sembra esserci niente di anomalo, nessuna persona o cosa alla base, niente di appeso ai rami. Mi avvicino ancora più in fretta e passo al setaccio ogni insenatura del tronco, ogni punto scoperto tra le radici che sporgono dal terreno. Niente.
Mi siedo a terra visibilmente delusa, appoggio la testa alla corteccia e chiudo gli occhi un istante. Non posso credere che sia tutto qui. Cosa dovrei farmene di questo biglietto? Cosa ti aspetti che faccia, H?
«Annie», mi richiama la mia amica.
Sospiro prima di riaprire gli occhi, la nuca ancora appoggiata all'albero e leggermente inclinata verso l'alto. Ed ecco che la vedo: una macchia bianca seminascosta nella chioma ma che non ha niente a che vedere con i rami o le foglie.
Mi alzo di scatto.
«Vieni qui, Maddie», le faccio cenno di mettersi al mio fianco.
«Fammi da appoggio», le prendo le mani e gliele unisco facendole incrociare le dita.
«Che diavolo vuoi fare?»
«Devo salire», mi limito a dire. Lei non insiste, lascia che le poggi un piede sui palmi delle mani e si abbassa leggermente sulle gambe per darmi la spinta e farmi aggrappare al ramo più basso.
Non mi sono mai reputata una persona atletica o particolarmente portata per gli sport ma, sarà perché in questo caso il premio è per me molto più appetibile di un qualsiasi trofeo, riesco a raggiungere l'oggetto in poche mosse e senza troppa fatica.
Si tratta di un palloncino bianco con una A scritta sopra con un pennarello nero. Districandolo dai rami tra cui era stato incastrato, sento qualcosa rimbalzare all'interno ma non filtra abbastanza luce perché possa capire cosa.
Prendo il cordellino all'estremità del palloncino e me lo lego al braccio, vorrei evitare di farlo volare via mentre scendo.
Appena tocco i piedi a terra, lo afferro con entrambe le mani e stringo. Faccio forza sulle estremità delle dita affinché le unghie si conficchino meglio e lo facciano scoppiare.
Così, scopro un nuovo biglietto, questa volta arrotolato a mo' di pergamena.
Ad attendermi, l'immagine di me, vista di profilo, seduta su una delle finestrotte della piramide del One Canada Square, sotto di me l'intera Londra animata dalle luci notturne.
Più in basso, scritto nella sua inconfondibile calligrafia morbida e curata:
We sat on a roof, named every star
you showed me a place where you can be what you are
And the view, the whole Milky Way
In your eyes, I drifted away
And in your arms, I just want to sway
«Credo che dovremo fare un'altra deviazione», comunico alla mia accompagnatrice.
Maddie mi sfila il foglietto di mano per verificare con i suoi occhi.
«Così l'hai fatto davvero», mormora continuando a guardare la foto.
«Già. Ancora non capisco dove ho trovato il coraggio di farlo», non riesco a smettere di sorridere ripensando alle mille emozioni provate quella sera. Le posso sentire tutte scorrermi sotto la pelle solo guardando l'espressione che avevo: meravigliata ma serena.
«Beh, spero che la tua popstar non abbia lasciato il prossimo bigliettino proprio qui», mi sventola la foto davanti al viso «perché io non ho nessuna intenzione di seguirti fino in cima», dichiara in tono perentorio.
«Non te n'è mai importato niente delle regole, ti sei sempre definita una ribelle e ora ti tiri indietro di fronte ad una nuova avventura?»
«Viaggiare senza una meta è un'avventura, non farsi arrestare volontariamente», ribatte decisa.
«Da quando sei diventata così fifona?» la provoco senza perdere il sorriso.
«Da quando tu sei diventata una pazza. Andiamo, ho come l'impressione che la strada da fare sarà lunga. E prendiamo la metro perché il parcheggio più vicino in quella zona è a tre miglia», sbuffa contrariata.
«Sissignore!» ridacchio e lei scuote la testa. Poi, mi prende per un braccio e insieme ci incamminiamo verso l'uscita del parco.
«No, seriamente. Non possiamo intrufolarci in pieno giorno senza essere beccate», la preoccupazione di Maddie si fa più forte mentre saliamo le scale per uscire dalla stazione della metro.
«Stai tranquilla, in qualche modo facciamo», fingo sicurezza.
«È la tua adrenalina a parlare. Quel ricciolino ti assuefà peggio di una droga e non lo stai neanche sniffando», blatera senza senso.
Scoppio a ridere alla cosa più assurda che io abbia mai sentito. «Cosa significa che non lo sto sniffando?» mi tengo la pancia.
«Significa che non stai facendo uso di HB ma ne sei comunque dipendente». La guardo perplessa. Ha davvero utilizzato la droga come metafora?
«Lascia perdere, sai che quando sono nervosa straparlo».
Ancora un paio di gradini e saremo fuori. Ancora un paio di gradini e il grattacielo ci si presenterà di fronte in tutta la sua maestosità. Ancora un paio di gradini e... mi blocco. Così di colpo che Maddie non fa in tempo a fermarsi e sbatte contro la mia schiena.
«Che fai?» mi rimprovera facendo un passo indietro.
«Quella è...» indico il cartellone pubblicitario poco più avanti, sulla mia destra.
«Cosa? Che hai visto?»
Mi avvicino incredula, sfioro il vetro che lo ricopre con la punta delle dita senza riuscire a calmare il battito del cuore.
Il cartellone ritrae Henri con al collo la sua catenina con la croce. In realtà, il suo volto non è visibile, si vede a malapena un centimetro del suo mento ma per me è inconfondibile.
Nella parte bassa del cartellone, sempre nella sua calligrafia elegante, leggo:
And I should but I can't let you go
But when I'm cold
Yeah, when I'm cold
There's a light that you give me when I'm in shadow
There's a feeling within me, an everglow
What I wouldn't give for just a moment to hold
Because, I live for this feeling, this everglow
«Non dirmi che... quella non è...?» farfuglia Maddie.
Annuisco sorridendo. «Sì, è quella che gli ho regalato io», confermo con una punta di malinconia.
«Ed è quella che non si è mai più tolto da quel giorno», aggiunge la mia amica voltandosi verso di me, in attesa di una mia reazione.
Reazione che non arriva. Perché non so cosa dire né cosa pensare.
«A cosa è collegata la catenina?» aggiunge subito.
La guardo confusa, non capisco cosa intenda.
«A quale luogo è associata? Qual è la prossima meta?»
Quella collana è legata a una delle serate più belle che ho trascorso con lui, a un periodo in cui bastava incrociare gli sguardi per dirsi tutto, per scoppiare a ridere a crepapelle, per allungare le mani e accarezzarsi, per stare insieme ed essere felici.
«A casa sua», mi limito a pronunciare ad alta voce ricacciando indietro i ricordi. Senza aggiungere altro, mi volto e comincio a scendere le scale per rientrare in metro. Maddie mi segue in silenzio e, per una volta, non fa domande né commenti per tutto il tragitto fino ad Hyde Park, dove abbiamo lasciato la macchina.
Da qui ripartiamo subito e trascorriamo il tempo a chiacchierare del più e del meno evitando accuratamente di parlare del luogo in cui ci stiamo dirigendo o del suo proprietario.
Come se stessimo facendo una gita tra amiche e non una specie di caccia al tesoro per tutta Londra organizzata da un cantante di fama mondiale per non si sa bene quale scopo. È assurdo anche solo da immaginare, figuriamoci da crederlo possibile.
Arriviamo in poco più di un quarto d'ora, il momento di tregua ai miei pensieri finisce troppo presto e ripiombo subito nel passato mentre alzo la testa a contemplare l'immensa casa a tre piani davanti a me.
«Henri vive qui?» esclama a bocca aperta. «A cosa gli serve tutto questo spazio visto che è da solo?» commenta ancora nonostante io la stia ignorando.
Sono troppo concentrata sull'enorme edificio bianco per darle retta.
Quello che mi è sempre sembrato un rifugio, un posto in cui nascondersi dal resto del mondo, dalle fotocamere dei paparazzi, dalle urla delle fan e restare soli, ora non è altro che l'ennesima fonte di tristezza e io sono stanca di essere triste.
Prendo un grosso respiro e mi avvicino al cancello in ferro grigio scuro che separa la strada dal vialetto dell'abitazione.
«Pronta?» mi domanda Maddie con un pizzico di apprensione.
«Per cosa?» fingo indifferenza ma, in realtà, sto morendo d'ansia.
«Se dovesse essere in casa?»
«No, non c'è», replico sicura. Quando Henri è in casa, ama tenere le tende scostate e, se la temperatura lo permette, spalancare le finestre mentre ora è tutto chiuso.
«Come fai ad esserne sicura?»
«Lo so e basta», taglio corto annullando la distanza tra me e il citofono.
Poi, suono. E il tempo si ferma.
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