45.

Naturalmente, arriviamo in hotel completamente bagnati nonostante la pioggia abbia iniziato a cadere ad un paio di miglia dalla nostra meta.

Henri è pure scivolato davanti all'ingresso sul retro e per tutto il tragitto fino alla sua camera mi ha intimato di smettere di ridere. Inutilmente.

«Hai intenzione di starnazzare ancora per molto?» sbuffa contrariato.

«È stata la caduta più divertente che io abbia mai visto. Peccato non ci fosse nessuno a riprenderti! Dove sono i paparazzi quando servono?» lo sfotto scoppiando a ridergli in faccia per l'ennesima volta.

«Vediamo se ti divertirai anche a restare bagnata per la prossima ora», mi minaccia chiudendosi a chiave in bagno ed accendendo il phon. Il solito permaloso.

«Vorrà dire che chiederò in prestito dei vestiti a Nick», gli urlo da dietro la porta.

In pochi secondi, la porta si spalanca, Henri mi passa accanto e, dopo aver frugato nella sua valigia ai piedi del letto, mi porge un paio di pantaloni da tuta e una felpa.

«Dammi i tuoi vestiti e mettiti questi. Il servizio lavanderia te li riporterà lavati, asciugati e stirati in un paio d'ore», questo tono serio non gli si addice proprio.

«Sì, mamma», lo prendo in giro di nuovo. Ma questa volta riesco a farlo sorridere fino a rendere visibili le sue adorabili fossette.

Stiamo ancora mangiando la nostra cena a letto quando iniziano a bussare.

«Puoi andare ad aprire tu? Sicuramente è Nick che vuole convincermi ad uscire nonostante gli abbia detto di no per tutto il giorno. Se ti vede forse capisce che deve lasciarmi in pace», borbotta con la bocca ancora piena.

«Secondo me, è più probabile che si piazzi qui sul letto con noi e rinunci ad uscire», ridacchio rotolando oltre il materasso.

«Mi auguro di no», lo sento dire mentre abbasso la maniglia.

Il mio cervello registra subito gambe chilometriche avvolte in jeans chiari stretti e t-shirt bianca come le scarpe da ginnastica ai piedi. Lunghi capelli scuri, quasi neri e uno sguardo penetrante. Impossibile non riconoscerla all'istante.

«Scusa, devo aver sbagliato stanza», gli occhi scuri contornati da ciglia lunghissime e perfettamente truccate mi fissano per qualche istante prima di voltarsi a controllare il numero attaccato alla porta.

Dal vivo è ancora più bella, è davvero mozzafiato. Di quelle bellezze semplici, non volgari o eccentriche. Nonostante il look casual, in lei tutto è perfettamente abbinato e ordinato. Mentre io indosso un pantalone con quasi metà gamba risvoltata e una felpa in cui potremmo entrare io e lei insieme.

Noto le sue sopracciglia super curate aggrottarsi in cerca di spiegazioni all'errore che pensa di aver commesso e vorrei avere il coraggio di chiuderle la porta in faccia e far finta di niente. Ma la verità è proprio qui davanti ai miei occhi e non riuscirei proprio ad ignorarla. Anche se questo significa rompere l'ennesimo incantesimo, l'ennesima speranza che, molto ingenuamente, credevo di avere.

«Krystal», Henri mi raggiunge alle spalle, «che ci fai qui?»

Odio il fatto che il suo nome suoni così bene se pronunciato da Henri.

«Ah Henri, allora la stanza era giusta», gli sorride. «Ho finito lo shooting prima del previsto e ho pensato di farti una sorpresa ma ho evidentemente avuto una pessima idea. Scusate il disturbo», fa per andarsene con una specie di smorfia che di dispiaciuto non ha proprio niente.

«Nessun disturbo», la faccio bloccare sul posto. «Me ne stavo andando, ero solo di passaggio», affermo con decisione prima di rientrare per infilare le scarpe.

Alle mie orecchie queste parole assumono una sfumatura molto più ampia. Ho sempre pensato di essere una comparsa nella vita di Henri ed è giunto il momento, per me, di uscire di scena per davvero.

Quello che mi ferisce maggiormente è l'essermi fidata nuovamente, senza nessuna valida ragione, ed essermi lasciata abbindolare come una sciocca.

«Annie, aspetta, ti prego», Henri cerca di trattenermi sbarrandomi la via verso la porta ma lo aggiro con facilità e, senza dire altro, esco e sorpasso Krystal rimasta immobile all'ingresso.

Che stupida, credevo davvero che le cose potessero cambiare?

«Non è come pensi», mi segue.

«Certo», ghigno attraversando il corridoio alla ricerca dell'ascensore.

«L'hai sentita anche tu, è venuta a sorpresa, non ne sapevo niente», spiega continuando a seguirmi. I passi di entrambi attutiti dalla moquette scura che ricopre il pavimento.

«Non è questo il problema», mi fermo di colpo voltandomi a fronteggiarlo.

«E allora qual è?» allarga le braccia e alza le spalle, confuso.

«Davvero non capisci? Se anche non fosse venuta oggi, vi sareste messi d'accordo per vedervi domani o un altro giorno. E se non fosse stata Krystal, sarebbe stata una Sara o una Nadine o una Georgia. Dio, quanto sono patetica, conosco anche i nomi di tutte le tue ex», mi rimprovero serrando i pugni e riprendo a camminare a passo spedito.

«Non sono mai state le mie ragazze», continua a starmi dietro.

«Non ha importanza!» sbotto tornando a guardarlo negli occhi. «Io non voglio essere come loro, non voglio essere una delle tante».

«Non lo sei mai stata», mi prende il viso tra le mani accarezzandomi dolcemente le guance con i pollici e per un secondo mi perdo nei suoi occhi. Il freddo emanato dai suoi anelli a contatto con la mia pelle mi fa sussultare.

«Ah, no?» indietreggio scrollandomi le sue mani di dosso come se mi avessero schiaffeggiato. «Qual è il mio ruolo in tutto questo? Chi sono io per te?» domando con disperazione battendomi la mano al petto.

Quanto vorrei che riuscisse a sistemare tutto con poche parole. Però, come uno strappo di ceretta, mi ricordo che, in fondo al corridoio, Krystal Jeckins attende il ritorno di Henri e non importa cosa lui dirà o farà, la situazione non cambierà mai perché io non sono abbastanza. Non lo sono mai stata.

«Tu sei quella che mi ricorda chi sono davvero, che mi fa stare con i piedi per terra», mi afferra per le braccia quasi volesse imprimere le sue stesse parole sulla mia pelle.

Vorrei potergli credere ma le parole non bastano più.

«Beh, io qui vedo solo il famoso Henri Byles e di lui non me ne faccio niente», ribatto con amarezza annullando il contatto con le sue mani. Mi sento irreparabilmente delusa e ferita.

«Non c'è mai stato Henri Byles con te, sempre e solo Henri», insiste alzando la voce.

«Tu hai sempre avuto l'incomprensibile capacità di farmi sentire speciale e mi sono domandata infinite volte come fosse possibile che una persona così diversa da me riuscisse a capirmi così bene, ad entrarmi dentro a tal punto da abbattere tutti i muri e farmi sentire ogni cosa, ogni battito di ciglia, ogni respiro, ogni tocco. Ma sei la stessa persona che viene fotografata da una delle modelle più famose del momento mentre gioca a Scarabeo con lei in accappatoio nella sua camera d'albergo. Sei lo stesso che viene baciato da un'altra modella - lasciatelo dire: quella delle modelle deve essere davvero una fissazione - seduto per terra in una cabina armadio. E non provare a rifilarmi la stronzata che non vi siete davvero baciati perché, anche se non si vedevano i vostri volti, lei era praticamente sopra di te. Allora mi chiedo, quale sei tu veramente, quello che passa le ore al telefono con me a parlare di niente o la celebrità che esce ogni settimana con una ragazza diversa?»

«Te l'ho detto mille volte, sono solo amiche», ribatte esasperato passandosi una mano tra i capelli, nonostante siano legati. Ha voluto che glieli raccogliessi di nuovo in una crocchia quando siamo arrivati in camera. Quei momenti di spensieratezza sembrano così lontani ora.

«Io non bacio i miei amici», sentenzio, finalmente arrivata all'ascensore.

«Però ci balli strusciandotici contro», risponde piccato. Incredibile! È stato paparazzato con più donne lui di tutti gli altri membri della band messi insieme e ha pure il coraggio di fare il geloso dopo aver visto una sola foto di me e Tyler?

«Sai qual è la differenza? Io ho ballato con Tyler mentre mi immaginavo ci fossi tu lì con me, e quando ho realizzato che stavo praticamente sognando, sono scappata». Premo più volte il pulsante di chiamata dell'ascensore. Quanto ci mette questo coso ad arrivare?

«Quindi, in pratica, è sempre colpa mia», mi fissa e in quelle iridi spente mi sembra di vedere solo un'infinita tristezza.

«No, la colpa è mia. Non avrei mai dovuto accettare la tua proposta. Non voglio più essere l'ennesimo nome in una lista senza fine. Vorrei solo che tu ammettessi quello che ho sempre fatto finta di non vedere: che nel tuo cuore non mi distinguo abbastanza dalle altre da poter essere chiamata con un altro nome». Sento gli occhi bruciare, la voglia di lasciare andare le lacrime quasi incontrollabile. Ma non è questo il momento di cedere. Avevo tutto sotto controllo prima che arrivasse lui e ora mi sembra di non far altro che rincorrere la mia vita, di non riuscire a raggiungere le briglie con cui fermare il cavallo.

«Certo, è facile osservare la mia vita e dividere tutto in bianco o nero. Quando però si tratta di te, non è così facile, vero?» l'arroganza del suo tono mi stupisce.

«Questo che significa?» mi acciglio.

«Non credi che sia un po' ipocrita pretendere che io faccia delle scelte e definisca ogni cosa quando tu non hai ancora avuto il coraggio di andare a far visita ai tuoi parenti in Italia trovando ogni scusa possibile e ripetendoti che il viaggio è solo rimandato? È passato più di un anno e sei ancora qui», mi accusa.

«Non è la stessa cosa», balbetto sconcertata. Mi sembra che le pareti color panna del corridoio comincino a vorticarmi attorno.

«Sì, invece. O cerchi di fare pace con il tuo passato e ricostruire un legame con la tua famiglia oppure lasci perdere, te ne resti al sicuro qui e smetti di mentire a loro e a te stessa», rincara la dose. I colpi arrivano da ogni lato, cogliendomi completamente impreparata, schivarli è impossibile.

«Scusami se sono terrorizzata all'idea di tornare nel paese dove sono morti entrambi i miei genitori, in casa di persone che non conosco fino in fondo e che parlano pure una lingua che capisco a malapena. Pensi davvero che la tua situazione sia minimamente paragonabile alla mia?» furiosa non rende minimamente l'idea del mio attuale stato d'animo. Mi sento tradita dalla stessa persona con cui mi sono aperta, a cui ho raccontato la mia storia e le mie più intime paure. Non posso credere che sia così meschino da usare tutto questo contro di me.

«Non sto dicendo...» non presto neanche attenzione a quello che cerca di dirmi.

«Sai cosa? Non lo voglio sapere. Non voglio più ascoltare una parola detta da te. Basta, finisce qui. Ah, già, non può finire una cosa che non è mai esistita quindi tranquillo, non è successo nulla, non ti accorgerai nemmeno del mio passaggio. Torna dalla tua modella del momento, nel tuo bel mondo senza etichette», gli urlo contro e tento di spingerlo via riuscendo ad allontanarlo di un solo, misero passo.

«Il mio mondo sarà pure senza etichette ma almeno è a colori e non in bianco e nero», sferra il colpo finale. Quello che supera le poche difese rimaste, i muri ormai crepati irreparabilmente e va dritto al cuore.

«Peccato che le sfumature di colore non esistano senza il bianco e il nero», concludo con un filo di voce prima di correre via. Al diavolo il maledetto ascensore, prenderò le scale.

Corro, corro ma non so dove andare. Ogni scala, ogni corridoio sembra uguale all'altro in questo immenso hotel. Ho bisogno di allontanarmi da qui.

Mi rifugio dentro la prima porta che trovo aperta. Per fortuna è un bagno.

Mi sciacquo il viso con acqua gelida in un disperato tentativo di calmarmi e tornare lucida.

L'immagine che vedo riflessa allo specchio è una delle peggiori, ma al contempo più vere, versioni di me. Ho gli occhi arrossati ma non piangerò. Devo solo capire qual è la prossima azione da fare.

Riparti dalle basi, Annie. Inspira. Espira.

Mi sembra di non saper più respirare correttamente, come se il mio petto fosse schiacciato da un masso enorme, impossibile da spostare. Chiudo gli occhi e mi aggrappo con forza al lavandino ma le gambe non mi reggono e sono costretta a rannicchiarmi a terra contro il muro.

Vorrei riaprire gli occhi e ritrovarmi a casa, avvolta dal profumo dei biscotti di mia nonna e dalla dolce presenza di mia zia. Invece, sono chiusa in un bagno a non so più quante centinaia di miglia dalla mia famiglia, senza cellulare e senza soldi per potermene andare. E indosso dei vestiti larghissimi che sanno maledettamente di lui.


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