19.
Butto l'occhio per la centesima volta alla sveglia sul mio comodino, segna le 21.03. Questo significa che sono passati solo due minuti dall'ultima volta che l'ho guardata. Sto leggendo, anzi, sto passando lo sguardo sulla stessa frase da venti minuti ma non ricordo nemmeno quale materia stia tentando di studiare. Batto nervosamente la matita sul libro aperto davanti a me sperando di trovare un po' di concentrazione ma, al contrario, mi innervosisco ancora di più.
«Si può sapere cos'hai?» domanda Vic bloccandomi la mano.
«Niente, perché?»
«Stamattina sembrava che sognassi ad occhi aperti e adesso non fai che sbuffare, guardare l'ora e cercare di spezzare questa povera matita. Per non parlare del fatto che mi hai quasi aggredito quando ho provato a mettere un po' di musica».
Non era la musica in sé a darmi fastidio, ma la canzone. Non posso ascoltare i Just us dopo aver dormito tra le braccia di Henri e dopo che lui non si è fatto sentire per tutto il giorno, non ci riesco proprio. Sapevo che era troppo ubriaco e che non si sarebbe ricordato nulla, ma speravo almeno in una chiamata di saluto. Sarà in tour per i prossimi due mesi, avrei voluto passare più tempo con lui e avrei preferito che al nostro ultimo incontro prima della sua partenza io non fossi l'unica ad essere sobria. Come ha potuto non farsi vivo per l'intera giornata? Mi sarei accontentata anche solo di un messaggio, non credo che non abbia avuto dieci secondi di tempo per digitare qualche misera parola sullo schermo del suo cellulare.
«C'entra per caso quel ragazzo?» Vic interrompe i miei drammi interiori.
«Quale ragazzo?» mi irrigidisco all'istante.
«Non avrai davvero pensato che mi fossi bevuta la storia dei due compagni di corso sbaciucchioni di Maddie», rivela senza batter ciglio mentre io rimango paralizzata a guardarla sforzandomi di non lasciar trasparire nessuna emozione. In realtà, il mio cervello è andato in tilt. Non riesco a produrre frasi o pensieri, avverto solo un gran silenzio nella mia testa. Probabilmente è stanca di tenere la guardia alta e cercare di controllare tutto.
«Non ti affannare a negare, non ti crederei comunque», aggiunge prima che possa dire qualunque cosa. Il mio silenzio ha di fatto reso impossibile smentire e, sinceramente, non ce la faccio più a gestire tutte queste bugie per cui accenno un sorriso a conferma della sua teoria.
«Lo sapevo!» si lascia sfuggire un grido di gioia nella sua lingua madre.
Comincia a farmi domande a raffica, non riesco nemmeno a seguirla, parla troppo velocemente e non capisco ancora così bene l'italiano.
«Scusa», si ferma di colpo dopo aver notato la mia espressione confusa. «Sono così felice per te che non mi controllo. Da quanto tempo state insieme?» mi viene incontro tornando a parlare in inglese.
«Non stiamo insieme», la contraddico. «Ci siamo visti solo poche volte, lui è sempre in viaggio per lavoro».
«Oh, cosa fa?»
«Ehm, si occupa di... eventi a livello internazionale». Non posso rivelarle chi sia ma posso sempre dirle qualcosa di vero o verosimile.
«Che genere di eventi?» cerca di approfondire. Non credo di averla mai vista così entusiasta.
«Concerti, premiazioni, eventi di beneficienza, cose così». È davvero tutto più facile se non devo inventare nulla di sana pianta. Certo, le sto presentando la verità in una versione diversa ma, tecnicamente, non sto mentendo.
«E quanti anni ha?» domanda storcendo le labbra, probabilmente convinta che si tratti di un quarantenne per la tipologia di lavoro che le ho descritto.
«È giovane», la rassicuro restando sul vago. Se le dicessi che ha solo diciotto anni forse desterei qualche sospetto.
La chiamata dei suoi genitori via Skype mi salva o, perlomeno, rimanda l'interrogatorio così riesco ad andare a letto senza che lei torni sull'argomento.
Di tutt'altra idea è il mio subconscio che, invece, decide di tormentarmi con il sorriso e le fossette di Henri per tutta la notte.
Alla faccia del sonno ristoratore, al mattino mi sveglio più di malumore di quando mi sono addormentata.
Controllo il cellulare in cerca di messaggi ma il display è vuoto e una vocina dentro di me si diverte a sbattermi in faccia quanto sia patetica ad aspettare un gesto o anche solo una parola da una delle popstar più acclamate del momento. Faccio una smorfia allo specchio del bagno in reazione al mio stesso pensiero e torno a prestare attenzione allo spazzolino e al dentifricio che mi attendono dentro il bicchiere sul piano del lavandino.
Lascio Vic ancora a letto - lei si alza sempre all'ultimo minuto - ed esco dal dormitorio in largo anticipo con la speranza che la giornata mi assorba completamente e non mi dia modo di rimuginare sulle ultime ventiquattro ore passate in attesa di qualcosa.
«Buongiorno Annie», mi accoglie una voce molto vicina. Mi ritrovo una figura scura alla mia destra, il cappuccio del giubbotto nero alzato e una sciarpa blu tirata quasi fin sopra il naso. Faccio un salto all'indietro per lo spavento e poi lo riconosco.
«Dio, Henri, prima o poi mi farai prendere un infarto», espiro portandomi la mano al petto per controllare che il battito torni alla normalità.
«Scusa, non volevo spaventarti», risponde abbassandosi la sciarpa e appoggiando una mano sul mio braccio come per assicurarsi che io stia bene.
I nostri occhi si incontrano ed è come se si conoscessero da sempre e fossero naturalmente dotati di un linguaggio solo loro con cui comunicare.
«Ce ne è voluto di tempo, ma vedo che alla fine la sbronza ti è passata», esordisco acidamente interrompendo il contatto visivo e quello fisico tra la sua mano e il mio braccio. Lui sorride compiaciuto facendomi incavolare ancora di più. Non c'è nulla da ridere.
«Sto per andare in aeroporto, partiamo per gli Stati Uniti», si limita a dire.
«Lo so», ribatto infastidita. Tra i due non sono io quella che dimentica le cose.
«Volevo salutarti», continua facendosi serio.
«Almeno una cosa te la sei ricordata», borbotto a bassa voce guardando ovunque tranne che nella sua direzione.
«Qualcosa mi dice che non sei molto in vena di saluti», mi prende in giro senza smettere di guardarmi. Dovrei mandarlo al diavolo e andarmene a lezione, eppure, perché ho il terrore che si volti e se ne vada senza aggiungere una parola?
«Sta' zitto», lo ammonisco stringendolo in un abbraccio e lasciandomi cullare dalla sua stretta. Il rumore delle auto che sfrecciano a pochi passi da noi mi ricorda che siamo in pubblico e che vorrei stare un momento da sola con lui prima che sparisca nel nulla, come ogni volta.
Se Vic non fosse in camera, lo farei salire ma lei è ancora lì, quindi sono costretta a ripiegare all'interno del bagno al piano terra, quello vicino alla lavanderia, l'unico ambiente comune in cui non ci sono telecamere né studenti, visto l'orario.
Neanche il tempo di chiuderci la porta alle spalle che siamo di nuovo vicini, questa volta labbra contro labbra.
«Comunque», sussurra tra un bacio e un altro, «mi ricordo perfettamente cosa è successo ieri sera, soprattutto la parte in cui ti ho tenuta stretta tutta la notte». Mi sorride con malizia, lo fa apposta per mettermi in imbarazzo e, forse per la prima volta da quando lo conosco, arrossisco in sua presenza e abbasso lo sguardo per la vergogna. Ripenso alle parole biascicate in taxi, al suo invito a restare con lui, al suo petto contro la mia schiena e alle sue braccia calde che mi stringevano. Mi sfugge un sospiro.
«Te l'ho detto che non ero messo così male», insiste posando entrambe le mani sulle mie guance e iniziando ad accarezzarle con i pollici.
Se lo ricorda sul serio. Mi sento così stupida per essermela presa tanto.
«Vieni qui», mi tira di nuovo a sé.
Senza staccarsi dalla mia bocca, mi prende per i fianchi e mi solleva per mettermi a sedere sul lavandino e poi inserirsi tra le mie gambe annullando la pochissima distanza rimasta tra i nostri corpi. Passo le mani tra i suoi capelli facendo cadere il cappuccio, intorno a noi solo il suono dei nostri baci e dei nostri giubbotti che sfregano uno contro l'altro. Sto morendo di caldo ma non ho intenzione di allontanarmi da lui. Devo fare scorta di momenti come questi per poterli "riusare" mentre lui sarà dall'altra parte del mondo. Altri due lunghissimi mesi senza rivederlo, come faccio a non impazzire, questa volta? Non capisco più niente. Dio, quanto vorrei che non dovesse andarsene.
«Penso che partirò più spesso se ogni volta mi saluti in questo modo», ride riprendendo fiato. È sempre su e giù per gli aerei di tutto il mondo, più spesso di così credo sia impossibile.
«Non hai ancora visto il bentornato», lo stuzzico sfacciatamente.
«Sono curioso di provarlo», ghigna malizioso.
«Sbrigati a tornare, allora», gli sussurro prima di un ultimo bacio.
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