15.

«Quindi, sei per metà italiana...» lascia la frase in sospeso e mi guarda stringendo gli occhi, come se stesse cercando i segni fisici della mia italianità.
«Sì, per tutti sono Annie ma, in realtà, il mio nome intero è Annalisa», rivelo sentendomi stranamente nervosa, quasi fossi in attesa della sua approvazione. Mi rilasso solo quando le sue fossette fanno capolino sulle sue guance.
«È un bel nome... Annalisa», lo ripete con un forte accento inglese, marcato soprattutto sulla pronuncia della elle. Vic ci ha messo un po' per farmelo capire ma, effettivamente, noi inglesi tendiamo ad avvolgere alcune consonanti come la erre e la elle, gonfiandole un po', mentre in italiano sono pronunciate molto più nettamente.
Henri, incuriosito dalla mia spiegazione e intestarditosi a voler pronunciare correttamente il mio nome, comincia a ripeterlo più volte, cercando di mettere in pratica le mie correzioni ma riuscendo solo a farmi ridere ogni volta di più. Alla fine, riesce a pronunciarlo come un vero italiano, più o meno, facendomi così godere del suo sorriso soddisfatto. Decido di non fare menzione del mio cognome – Borgogelli – altrimenti passeremmo qui l'intera nottata. Nemmeno io riesco ancora a dirlo come si deve, sarebbe troppo difficile per lui.
«Annalisa», sussurra ancora, «mi piace davvero, dovresti usarlo di più. Se tutti ti chiamano Annie, magari neanche i tuoi vicini di casa conoscono il tuo vero nome». So che sta scherzando ma potrebbe non essere troppo lontano dalla realtà.
«Sai che io stessa l'ho saputo solo all'asilo? Le maestre ci stavano insegnando a scrivere il nostro nome e allora mi è stato detto che Annie era un diminutivo. Credo che per mia zia quello completo fosse emotivamente troppo difficile da dire ad alta voce, quel suono così palesemente italiano la faceva ripensare alla perdita di sua sorella e per lei era ancora troppo doloroso. Invece, i miei nonni italiani mi hanno sempre chiamato Annalisa. Ricordo ancora quella volta che...»
Vado avanti a suon di aneddoti e curiosità per un bel po', finché mi rendo conto di aver monopolizzato quella che doveva essere una conversazione a due.
«Scusa, sto parlando solo io», interrompo bruscamente il mio sproloquio. «Di solito non sono così loquace». Henri è riuscito ad auto-inserirsi naturalmente nella lista delle pochissime persone con cui riesco ad aprirmi senza problemi. Perché con lui mi sento così tanto a mio agio?
Scuote appena la testa. «Mi piace ascoltarti. Avresti dovuto vedere come ti si è illuminato il volto mentre parlavi della tua famiglia», mi sorride prendendo una ciocca di miei capelli e attorcigliandosela intorno all'indice.
«Vai a trovare spesso i tuoi parenti in Italia?» domanda, poco dopo, risistemando la coperta sulle mie spalle.
«No. Quando ero piccola mia zia cercava di portarmi dai nonni paterni durante le feste di Natale o d'estate ma poi ha aperto la pasticceria e ha divorziato dal marito quindi le cose si sono complicate, soprattutto con Ashley, e non è più riuscita ad accompagnarmi. Io mi sono semplicemente adattata a questa nuova condizione, non me la sono sentita di insistere affinché mi portasse da loro perché, anche se sono certa che non avrebbe avuto il coraggio di dirmi di no, le avrei creato davvero un sacco di problemi. Così, sono passati otto anni dall'ultima volta che li ho visti di persona e ho cercato di sopperire alla distanza fisica con le chiamate via Skype ma non è la stessa cosa, lo so».
Stringo maggiormente le ginocchia al petto e ci appoggio il mento. Sento un inaspettato senso di colpa prendermi lo stomaco. Forse, potevo e dovevo fare qualcosa di più ma era tutto così complicato.
«Non ti piacerebbe tornarci? Adesso puoi andare anche da sola, non hai più bisogno che tua zia venga con te», mi fa notare. In effetti, è vero, non ci avevo ancora pensato, o forse, ho sempre evitato di pensarci.
«Non so», lo guardo incerta alzando le spalle. Se non dovessi trovarmi bene? Come comunicherei con loro, non parlo bene l'italiano. La verità è che non so cosa aspettarmi, ho una fottuta paura che i ricordi riaffiorino di colpo e non so se sono pronta ad affrontarli. Di sicuro, non voglio angosciare ulteriormente Henri a causa delle mie paranoie.
«Basta parlare di me, è il mio turno di ascoltare, ora. Com'è la tua famiglia?»
Dopo tutte le confidenze riguardanti la mia famiglia, sono proprio curiosa di sapere qualcosa in più sulla sua. Ho visto qualche foto di sua madre e sua sorella online e mi sembrano molto carine.
«Una normalissima. I miei hanno divorziato quando ero piccolo ma sono rimasti in buoni rapporti per cui la famiglia è sempre rimasta piuttosto unita. Da diversi anni, ormai, mia madre ha un nuovo compagno, Robert, e per me è come un secondo padre. Gli sono molto affezionato», gli occhi che sorridono dimostrano quanto le sue parole siano vere.
«Deve essere stato difficile per te superare il divorzio», commento cautamente cercando di non far trasparire compassione dal tono di voce. Odiavo quando gli altri lo facevano con me, non voglio certo dare questa impressione a Henri.
Lui stringe appena le labbra e distoglie lo sguardo facendolo vagare per l'abitacolo, poi torna su di me. «Quando ce l'hanno detto avevo sette anni e mia sorella undici. Ricordo che mi sentivo molto triste ma non capivo davvero cosa significasse divorzio. In più, dopo quel giorno, mio padre è rimasto a casa con noi per diversi mesi per farci abituare all'idea, quindi le cose non sono cambiate drasticamente e, anche quando se ne è andato, non ha mai fatto mancare il suo supporto a me o a Emma».
Muovo un po' le gambe ormai indolenzite dalla prolungata posizione rannicchiata e lui fa lo stesso. Mi allungo appoggiando i piedi sul sedile del guidatore e, con una pacca sulla coscia, lo invito a stendersi appoggiando la testa sopra di me. Senza farselo ripetere due volte, abbandona la sua parte di coperta per stendersi sul sedile posteriore e fare di me il suo cuscino. Inizio immediatamente ad accarezzare i suoi capelli riccioluti sentendo le guance andare a fuoco per il modo in cui mi sta fissando.
Lo esorto a continuare il suo discorso e mi perdo tra i mille ricordi di cui mi rende partecipe, mentre ride e accarezza il bracciale che indosso al polso sinistro, regalo di Natale da parte di Ashley. Sto così bene che non mi accorgo dello scorrere delle ore, solo il telefono vibrante di Henri ci risveglia dall'atmosfera rilassante e ipnotica in cui ci stavamo cullando.
«Scusa, è già la quarta volta che chiama, devo proprio rispondere», si tira su a sedere e apre la comunicazione.
«Henri Byles, dove cazzo sei finito?» la voce maschile all'altro capo del telefono urla a tal punto che riesco a sentirla chiaramente da un metro di distanza.
«Che c'è, Mark?» risponde lui seccato.
«Hai anche il coraggio di fare lo scocciato? Hai visto che ore sono? Sei uscito di nascosto un secolo fa senza dire niente nemmeno ai ragazzi e hai pure preso la macchina di Paul senza permesso», sembra furioso.
«Quando lo fa Zack non fai tutte queste storie, però», controbatte con ironia.
«Rientra subito in hotel», gli ordina prima di riattaccare.
«Quanto mi diverto a farlo incazzare», ridacchia tra sé e sé rimettendo il telefono in tasca.
«Ti ho fatto fare tardi, scusa».
Henri mi prende il viso con entrambe le mani e mi bacia. «Non hai nulla di cui scusarti. Se non avessi avuto il concerto domani, sarei rimasto molto di più», mi sorride rimanendo a pochi centimetri dalle mie labbra. Senza pensarci, allungo le braccia dietro il suo collo e lo stringo a me. Lui mi afferra per i fianchi, mi solleva verso sinistra e, spingendosi all'indietro contro il sedile, mi mette a cavalcioni sopra di lui. Infine, ricambia l'abbraccio affondando il viso tra i miei capelli. Voglio godermi questo momento il più a lungo possibile, voglio imprimermi nella pelle la stretta delle sue braccia e nelle orecchie il battito forsennato del mio cuore. Temo che nelle settimane a venire avrò bisogno di appigliarmi innumerevoli volte al ricordo di questa serata e di questo istante.
A malincuore, torniamo nei sedili anteriori e ci rinfiliamo le scarpe completamente in silenzio. Io non so cosa dire, mi sembra di essere appena stata risvegliata bruscamente da un bellissimo sogno. Lo saluto ancora frastornata e apro lo sportello.
«Ti chiamo nei prossimi giorni», dice tutto d'un fiato.
Con una gamba fuori dall'auto e l'altra ancora dentro, gli sorrido di rimando ma, non so perché, mi suona tanto come una di quelle promesse che fai sapendo di non mantenere.
Mi avvicino per un ultimo bacio, ne ho un bisogno quasi disperato, poi, alzando una mano e augurandogli buonanotte, scendo. Solo allora mi accorgo che la notte ha cominciato a schiarirsi per lasciare spazio all'alba.
Ho sempre pensato che Henri fosse un ragazzo normale, con un animo gentile. Una persona che valesse la pena conoscere e cavolo se avevo ragione! Non posso dire di conoscerlo ancora bene ma, stasera, gli ho confidato cose che ho fatto fatica ad esternare anche a Maddie, questo dovrà pur significare qualcosa. Lui mi fa sentire così, così... libera. Ho paura di non poter più fare a meno di questa sensazione.

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