14.
Mi diverto a prendere in giro Henri per il suo lato tenero perché portare una ragazza in cima ad un grattacielo ad ammirare la città di notte rientra, a mio avviso, nella categoria "gesti romantici" ma lui specifica che, l'aver eluso la sorveglianza e aver infranto la legge, sposta l'intera vicenda sotto la categoria "avventura". Ci ritroviamo, quindi, a discuterne per tutti il tragitto dal One Canada Square al mio dormitorio, siamo così su di giri che non facciamo che ridere. Mi accorgo di essere giunti a destinazione solo quando Henri spegne la macchina.
«Siamo già arrivati?» mormoro visibilmente delusa puntando gli occhi all'entrata del palazzone a tre piani di fronte a noi.
«Ti va se restiamo un po' qui? Non voglio ancora tornare in hotel», propone, nel suo volto un'espressione di attesa e speranza. Osservo quel suo bellissimo viso dall'aria innocente e vorrei solo baciarlo fino a domattina. Mi sembra di non voler fare altro, ultimamente. Da quand'è che mi lascio sopraffare dagli ormoni? Devo assolutamente trovare una distrazione.
«Va bene», annuisco senza riuscire a trattenere un sorriso. «Allora, tanto vale mettersi comodi», suggerisco sforzandomi di smettere di fissare le sue labbra. Senza dargli il tempo di ribattere, slaccio la cintura, mi sfilo le scarpe per salire con i piedi sul mio sedile e mi lancio verso la parte posteriore dell'auto. «Tocca a te», lo sfido sistemandomi meglio sul sedile dietro il suo. Dopo una piccola esitazione, anche lui mi segue e per poco non mi finisce addosso.
«Tu e la coordinazione non andate molto d'accordo», lo prendo in giro.
«E se l'avessi fatto apposta?»
Prova a convincermi rimanendo il più serio possibile ma non riesce a trattenersi dal farmi la linguaccia e insieme scoppiamo a ridere.
Henri tira fuori il cellulare dalla tasca, mi sembra di capire che gli sia arrivato un messaggio ma, dopo una breve occhiata e una risata strozzata, lo rimette al posto.
«Questa volta Paul mi ucciderà davvero», ammette con noncuranza.
«Dovresti comprarti una macchina tua così non hai più bisogno di rubare la sua».
«Non l'ho rubata, l'ho solo presa in prestito», precisa sistemandosi più vicino a me, in modo che le nostre spalle restino in contatto. «Comunque», continua, «l'ho comprata la macchina, mi arriverà tra qualche settimana ma non la userò molto perché staremo via per un po'».
«Dove?» indago, incuriosita dal suo sorrisetto soddisfatto.
«Andremo in tour negli Stati Uniti e poi in Australia», mi comunica elettrizzato.
«Stai scherzando?» rimango a bocca aperta per la sorpresa.
«No, è vero».
«Wow, in Australia? Beh, congratulazioni». Indecisa su come mostrare il mio entusiasmo senza risultare troppo invadente, finisco per posare la mano sul suo ginocchio e stringerlo leggermente.
Posso invidiarlo senza sentirmi in colpa? Cavolo, l'Australia è in cima alla lista delle mie mete da sogno da tipo dieci anni.
«Ci hai visto lungo quel pomeriggio ad Hyde Park». Mi fa piacere che se ne ricordi.
«Non credevo di avere simili poteri. Dovrò stare attenta a ciò che dico d'ora in poi, non si sa mai cosa potrebbe avverarsi», scherzo.
Henri mi elenca i numerosi impegni della band che andranno ad occupare gran parte dell'anno appena iniziato. In pratica, saranno in giro per il mondo per quasi tutto il tempo. E ho l'impressione che questo sia solo l'inizio e che i loro impegni aumenteranno ancora.
«In Europa a febbraio, negli Stati Uniti a marzo e in Australia ad aprile poi di nuovo in America da maggio a luglio», ricapitolo. «Starete lontano da casa per sette mesi?» domando, tenendo lo sguardo sulla cerniera della sua felpa con cui sto giocando da un po', per paura che i miei occhi possano tradirmi e mostrare più di quello che dovrebbero. Mi ritrovo a chiedermi quando potrò rivederlo e mi stupisco, allo stesso tempo, di non aver messo un se al posto di quel quando. Come se fosse sicuro che potrò rivederlo ancora quando, in realtà, non c'è niente che mi dia questa certezza, nemmeno i baci o le carezze che ci siamo scambiati. Né i sorrisi o gli sguardi che abbiamo condiviso. Niente.
«Certo che no. Torneremo ogni volta che potremo. Sicuramente rientreremo a fine febbraio per la serata dei Brit Awards». Lo dice come se parlasse di andare a fare la spesa e non della possibilità di ottenere uno dei riconoscimenti musicali più importanti del paese.
Non riesco a dire niente, nessun commento sarcastico, nessuna battuta per rompere il silenzio. Sento solo un enorme peso posizionarsi al centro del mio petto e le parole sette mesi rimbombarmi nelle orecchie.
Un brivido mi percorre la schiena facendomi tremare appena ma Henri se ne accorge. «Senti freddo? Aspetta, forse c'è qualcosa qui dietro». Scende dall'auto e, dopo aver controllato nel bagagliaio, rientra con una coperta blu morbidissima. Evito di chiedere per quale motivo Paul abbia una coperta nel suo bagagliaio, non voglio sentire la risposta.
Henri mi copre con premura dalle spalle ai piedi e inizia a massaggiarmi le braccia per scaldarmi. Non contenta della distanza che si è creata tra noi a causa della coperta, mi avvicino accoccolandomi alla sua spalla e lo avvolgo con quel pezzo di stoffa guadagnandomi un sorriso e un bacio, o forse qualcuno di più.
«Non senti mai la mancanza di casa tua?» chiedo, dopo qualche minuto passato a guardarci in silenzio entrambi con la testa appoggiata di lato al sedile.
«Sì, molto. Ci sono dei giorni che mi prende davvero male», ammette serio.
«Cosa fai, in quei casi?» gli sposto un riccio da davanti gli occhi. Non deve essere facile non vedere la propria famiglia per periodi così lunghi.
«Di solito, i ragazzi cercano di distrarmi e non farmici pensare. Capita anche a te?»
La domanda mi sembra un po' strana perché sono a Londra da pochi mesi e la mia famiglia non è lontana come la sua.
«Io vivo a solo un paio d'ore da Manchester. Posso tornare anche tutti i week end, se voglio. Non giro il mondo come te», gli ricordo in tono affettuoso.
«Mi riferivo», fa una pausa, «ai tuoi genitori. Ti mancano?»
Eccola, la domanda più difficile che mi sia mai stata posta. Distolgo lo sguardo e rannicchio le gambe portandomele al petto senza far cadere la coperta. È già la seconda volta che rimango senza parole questa sera, non sono abituata. Ho sempre qualcosa da dire, al massimo decido di rimanere in silenzio se ritengo inutile parlare ma la mia mente non è mai taciturna. Henri, invece, mi spiazza con la sua spontaneità e un tocco di ingenuità.
«Scusa, non volevo essere invadente. Non devi rispondere per forza», mi rassicura, preoccupato di avermi infastidita, vista la mia reazione.
«No, è che... non sono sicura di come rispondere. È normale non sentire la mancanza di qualcuno che non ricordi, anche se si tratta dei tuoi genitori?» chiedo in imbarazzo, stringendomi ancora un po' addosso la coperta.
«Penso di sì», replica con un sorriso incoraggiante.
«Mi ricordo i loro volti grazie alle foto e ai video che mi hanno mostrato nel corso degli anni, ma non li ho veramente conosciuti perché ero troppo piccola quando se ne sono andati. Quindi, non ne sento la mancanza. Però, vorrei che fossero qui, vorrei poterli conoscere davvero, sapere tutto di loro. In questo senso, mi mancano». Lui sta lì a guardarmi con lo sguardo più comprensivo del mondo e ho paura che possa vedere in me solo la ragazza da compatire, l'orfana da proteggere perché troppo fragile. «Dio, mi sento così stupida», sbotto coprendomi il viso con le mani.
«Perché?» mi prende le mani e le abbassa, tenendole strette tra le sue.
«Perché quello che ho detto non ha senso. Non so come mi devo comportare, dovrei essere triste e piangere ancora la loro morte o andare avanti come se nulla fosse? A scuola mi sono sempre sentita gli sguardi degli altri puntati addosso, ero quella che "poverina ha perso i genitori" e che tutti tenevano a distanza quasi avessero paura che potessi attaccargli una malattia. Al liceo, le cose sono migliorate ma ho ancora difficoltà ad aprirmi davvero con qualcuno che non sia Maddie». O te, dovrei aggiungere, visto quello che gli ho appena rivelato.
«Non si può sempre razionalizzare tutto, Annie. Soprattutto le emozioni. Comportati come ti senti di comportarti. Se sei triste va bene, se non lo sei, va bene lo stesso. Non farti condizionare da cosa pensa la gente».
Mi sorprende la maturità delle sue parole. Stare sempre sotto i riflettori e appartenere ad un mondo fatto di apparenze non l'ha reso superficiale o senza valori.
«Non mi frega niente di chi non conosco, ho paura di deludere loro», ammetto alzando gli occhi verso il cielo per poi riportarli sui suoi. La sua espressione si addolcisce di colpo.
«Sono sicuro che i tuoi genitori sono molto fieri di te», la sua voce è bassa e calda. È così convinto che, per un attimo, ci credo pure io. «Hai mai chiesto alla tua famiglia di raccontarti qualcosa di loro? Così, in un certo senso, potresti conoscerli meglio», propone con semplicità.
Annuisco con un debole sorriso e inizio a raccontargli tutto quello che mi è stato detto sul loro conto: come mia madre ha conosciuto mio padre in Italia, dove era andata in Erasmus; come lui l'ha raggiunta a Manchester per chiederle di sposarla quando lei, terminato l'anno scolastico, era dovuta tornare a casa; come lei ha deciso di trasferirsi in Italia appena laureata, nonostante i suoi genitori e sua sorella non fossero d'accordo; come si sono dovuti ricredere tutti quando sono andati a trovarla il primo Natale dopo il matrimonio e hanno visto quanto lei fosse felice per la sua casa immersa nel verde di un piccolo paesino di campagna, per il suo lavoro come traduttrice e per la piccola creatura che stava crescendo dentro di lei.
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