12.

«Anni, che ne dici se stasera ci guardiamo un bel film in italiano? Giusto per riprendere l'allenamento», propone Vic con entusiasmo durante la pausa pranzo.
Quando, quel primo giorno di college, mi aveva detto che avrebbe potuto darmi qualche lezione, non pensavo che sarebbe arrivata a parlare quasi esclusivamente in italiano in mia presenza. Devo ammettere che la sua insistenza mi ha aiutato molto e ho scoperto di ricordare molte più parole di quelle che credevo. Tuttavia, se la comprensione della lingua migliora di giorno in giorno, non posso dire lo stesso del parlato. La mia pronuncia è orribile anche se Vic vuole convincermi del contrario.
Nonostante questo, non mi sono lasciata prendere dallo sconforto e, a Natale, ho sorpreso i miei nonni in Italia sforzandomi di parlare la loro lingua durante la consueta telefonata via Skype. Ripensando a quel momento, mi viene da sorridere, erano tutti così contenti dei miei progressi.
Solo dopo qualche minuto, mi accorgo degli occhioni verdi della mia coinquilina che mi fissano curiosi, in attesa di una risposta.
«Scusa, ero sovrappensiero», confesso abbassando lo sguardo appena torno in me.
«Quindi, filmetto stasera?» ripete prima di prendere una forchettata di pasta dal suo piatto e fare una smorfia schifata. Non capisco perché si ostini a prendere la pasta della mensa sapendo che non si avvicina nemmeno minimamente a quella originale, cosa che non passa di certo inosservata al suo palato allenato.
«Non posso, ho un impegno», rispondo rapida tornando a prestare attenzione al mio piatto. Annie trova una scusa plausibile, trova una scusa plausibile. «Ho promesso ad una mia compagna di corso di aiutarla a sistemare gli appunti perché ha perso qualche lezione prima delle vacanze», spiego dopo aver preso un sorso d'acqua dalla mia bottiglietta. Sono fiera di me per la cavolata assolutamente credibile inventata in pochi secondi.
«Okay, faremo domani», replica alzando le spalle.
«Certo. Puoi scegliere tu il film, se vuoi». Glielo dico in italiano, così mi sento meno in colpa per averle mentito.

Quando esco dal mio dormitorio, trovo lo stesso, o forse uno simile – non sono molto esperta di macchine – SUV nero con cui Henri mi è venuto a prendere dopo il concerto ma ad aspettarmi accanto allo sportello non c'è lui.
«Ciao, tu devi essere Annie», mi saluta un uomo sulla cinquantina, vestito con jeans scuri e un maglione grigio.
«E tu sei?» domando diffidente bloccandomi a qualche metro di distanza.
«Sono Jimmy, Henri mi ha mandato a prenderti», annuncia sorridendomi.
Peccato che Henri non mi abbia detto niente. Non ci penso neanche a salire in macchina con uno sconosciuto. Faccio qualche passo indietro, giusto per sicurezza, mentre penso alla prossima mossa. Metto la mano in tasca alla ricerca del mio cellulare che, proprio in quell'stante comincia a vibrare. È un messaggio da parte di Henri.

Ti puoi fidare di Jimmy. Spero di essere ancora in tempo e che tu non sia scappata urlando in cerca d'aiuto.

Mi legge anche nel pensiero adesso? Beh, poteva anche avvisarmi prima, però.

Stavo giusto per farlo, accidenti a te!

Sorrido a Jimmy imbarazzata e, sperando che non abbia fatto troppo caso alla mia reazione, salgo sul sedile posteriore mentre il cellulare, che stringo ancora in mano, vibra di nuovo.

Ci avrei scommesso. Povero Jimmy.

Non rispondo, mi limito a ridacchiare sottovoce prima di prestare attenzione ai palazzi che scorrono accanto al finestrino.
«Dove andiamo?» provo a fare un po' di conversazione dopo qualche minuto di silenzio.
«In hotel», replica Jimmy senza staccare gli occhi dalla strada. «Far uscire i ragazzi in questo momento è praticamente impossibile», aggiunge poi lanciandomi uno sguardo dallo specchietto retrovisore.
Non riesco a capire il senso delle sue parole ma decido di lasciar cadere l'argomento e pensare ai fatti miei per il resto del tragitto.
«Ecco, questo è l'albergo», mi indica un palazzo alla mia sinistra.
«Ora capisco cosa intendessi prima», commento ad alta voce osservando le decine di ragazze ammassate davanti all'ingresso. Stanno urlando qualcosa. Anzi, no, stanno cantando What I love about you con gli occhi puntati verso l'alto, verso una delle finestre della facciata.
«Come facevano a sapere quale fosse l'hotel?» mi viene spontaneo chiedere.
«Alcune di loro hanno aspettato i ragazzi all'aeroporto e li hanno seguiti fino a qui. Poi hanno sparso la voce e nel giro di mezz'ora erano tutte all'ingresso. Per non parlare dei paparazzi. Si nascondono nei paraggi e rimangono appostati per ore pronti a fotografare ogni movimento, sempre alla ricerca di scoop o presunti tali».
«Perché non ti fermi, dove stiamo andando?» domando muovendomi nervosamente sul sedile quando lo vedo superare l'edificio.
«Entriamo da una via che dà sul retro per non dare nell'occhio», mi rassicura.
«Beh, non credo che qualcuno possa interessarsi a me», replico divertita.
«Annie, io sono uno dei loro bodyguard. Se ti vedono scendere da quest'auto da sola scortata da me all'ingresso, i paparazzi ci mettono un secondo ad inventarsi chissà quale storia e a sbattere le tue foto in prima pagina». Mi fissa dallo specchietto, non c'è traccia di divertimento nel suo volto.
Torno subito seria e Jimmy riprende a guardare davanti a sé. «Per i giornali, ogni ragazza che si trova accanto ai ragazzi è una nuova fidanzata, poco importa se, in realtà, sia solo un'amica o una vecchia compagna di scuola».
Nella seconda categoria non rientro di certo... ma nella prima? Si può considerare amica una persona che conosci da così poco tempo con cui hai pomiciato per ore in un vicolo?
Per il resto del tempo cerco di tenere la conversazione su toni più leggeri e arriviamo all'ultimo piano dell'hotel in un clima decisamente più rilassato. Uscendo dall'ascensore ci ritroviamo di fronte ad una grande porta in legno chiaro. Jimmy la apre con una chiave elettronica e mi fa cenno di entrare con la testa.
Poco oltre l'ingresso, noto due immensi divani a L, posizionati uno di fronte all'altro e pieni di cuscini. Più in là, in fondo alla sala, Lucas e Zack sono seduti su un altro divano, dandomi le spalle. Non si accorgono della mia presenza perché troppo concentrati a guardare lo schermo gigante di fronte a loro e a imprecare, mi sembra stiano giocando alla Playstation. Alla loro destra, Henri e Lake si stanno sfidando a ping-pong mentre Nick, appollaiato su uno sgabello, li guarda sbadigliando. Appena questo si accorge di me, mi viene incontro con un gran sorriso e mi stritola in un abbraccio.
«Ciao Annie!» mi urla all'orecchio.
«Ciao Nick», rispondo titubante. Da quando abbiamo tutta questa confidenza?
Ovviamente, il suo saluto attira l'attenzione di tutti gli altri, compresi i vari collaboratori lì attorno. Mi salutano tutti con un gesto della mano o un sorriso e io avanzo timidamente verso il fondo della sala dove Henri mi sorride prima che Lake lanci nuovamente la pallina e lo distragga. Mi sento gli occhi di tutti puntati addosso e la cosa mi mette a disagio.
«Ciao ragazzi, vi vedo super impegnati, eh?» provo a rompere il ghiaccio.
«In realtà, io mi sto annoiando», si lamenta Nick, al mio fianco.
«Io mi sono stufato di perdere. Vuoi darmi il cambio, Annie?» propone Lake porgendomi la racchetta con un'espressione gentile.
«No, meglio di no. Non vorrei che Henri ci rimanesse troppo male per la sconfitta», lo provoco giusto per scherzare un po' ma lui, ovviamente, non lascia correre.
Un coro di ohhhhh si leva intorno a noi, anche Lucas e Zack hanno smesso di giocare per assistere alla scena.
«Sappi che hai appena sfidato il campione», Henri cerca di intimorirmi con uno sguardo truce e mi passa la pallina.
«Vai Annie, io tifo per te!» mi incita Nick e in pochi secondi tutti gli altri si avvicinano al tavolo. Henri sarà anche il più bravo della band a ping-pong ma io non sono niente male. Merito dei pomeriggi passati a giocare con il fratello di Maddie che, fino a qualche anno fa, gareggiava a livello regionale in questo sport.
Henri si difende bene, ogni scambio è piuttosto combattuto ma, alla fine, vinco io e i ragazzi esplodono in un applauso e iniziano a sfottere Henri, che si allontana fingendosi offeso.
«Questa me la paghi», mi minaccia sottovoce passandomi accanto ma lo vedo sforzarsi per trattenere un sorriso.
Qualche minuto più tardi, ci accomodiamo tutti sui divani e iniziamo a parlare e scherzare come fossimo vecchi amici. Nick scoppia a ridere sguaiatamente per ogni minima cavolata, perfino per le orribili barzellette di Henri, ed è contagioso, non si riesce a rimanere seri sentendo le sue risate. Lucas e Lake cominciano a farsi i dispetti e, in pochi secondi, i divani si trasformano in un campo di battaglia a colpi di cuscinate.
Mi sembra di essere tornata all'asilo ma, in fondo, è bello lasciarsi un po' andare, forse sono davvero troppo seria per la mia età.
La lotta si placa solo quando ci portano i cartoni della pizza, non so chi l'abbia ordinata. I ragazzi abbandonano i cuscini per dedicarsi alla cena ma continuano a stuzzicarsi, anche mentre mangiano, con battutine o racconti imbarazzanti. Mi sento così a mio agio da non provare nemmeno fastidio quando Henri, seduto accanto a me, prende dei morsi di pizza direttamente dallo spicchio che tengo in mano anziché prenderne uno intero dal cartone. Nick e Lucas trattengono una risata ogni volta che Henri mi blocca il polso per addentare la pizza prima che lo faccia io, ma non osano dire nulla. Vorrei davvero baciarlo, quasi lo faccio quando gli rimane un po' di salsa di pomodoro all'angolo della bocca ma, per fortuna, mi limito a passargli un tovagliolo e a tornare a chiacchierare con gli altri.
«Si è fatto tardi, noi dobbiamo andare», Henri interrompe la conversazione di gruppo rivolgendosi a me. Non so cos'abbia in mente ma lo seguo senza obiettare e i ragazzi hanno la decenza di non fare domande o allusioni di alcun tipo.
«È stato un piacere, Annie. Torna a trovarci presto», mi saluta Lucas con un sorriso che non riesco ad interpretare e, di seguito, tutti gli altri.
«Beh, mi è un po' difficile visti i vostri spostamenti per tutta la Gran Bretagna».
«Vorrai dire per tutto il mondo!» ribatte Lucas prima di prendere un altro sorso dalla sua lattina di Coca Cola.
Lancio uno sguardo interrogativo verso Henri.
«Ti spiego dopo», mi dice all'orecchio e, poggiando una mano sulla mia schiena, mi accompagna fuori dalla stanza.

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