10.
Nonostante sia mezzanotte passata, il piccolo locale di Freddie è piuttosto affollato. Nei fine settimana e durante le festività è sempre così, quindi la cosa non mi stupisce più di tanto. Faccio accostare Henri qualche metro più indietro rispetto all'entrata e gli dico di aspettarmi in macchina. L'ultima cosa che voglio è che qualcuno lo riconosca e dia di matto.
Quando arrivo al bancone, Freddie mi saluta con un gran sorriso e mi fa cenno di seguirlo in cucina.
«Cosa posso fare per te, tesoro?» mi chiede abbracciandomi forte.
«Ho bisogno del tuo piatto speciale», rispondo allegra.
«Va bene, accomodati e Sarah te lo prepara subito», indica lo sgabello in fondo alla cucina in cui mi fa sedere ogni volta che vado a trovarlo.
«No, Freddie. Me ne servono due porzioni da portar via», spiego con lo sguardo innocente.
«Oh, c'è anche Maddie?» chiede sporgendosi oltre la porta della cucina per cercarla tra la clientela all'ingresso.
«No, lei non c'è», mi limito a dire.
Lui abbassa lo sguardo severo su di me battendo i pugni sui fianchi come a dire «Cosa stai combinando?»
«Stai tranquillo. Ti fidi di me?» rispondo alla sua domanda silenziosa. Capisco di averlo convinto quando vedo il suo sguardo addolcirsi.
Pochi minuti dopo e senza ulteriori domande, sua moglie Sarah mi posa un sacchetto fumante tra le mani e mi stringe in un abbraccio chiedendomi di tornare presto. «Scoprirò chi è il fortunato e mi assicurerò di scambiare con lui due paroline», Freddie mi sussurra all'orecchio prima di sciogliere l'ultimo abbraccio e lasciarmi uscire ridacchiando e scuotendo la testa.
«Mmm, senti che profumino», esclama Henri allungando una mano verso il sacchetto e poi ritraendola di scatto. «Non possiamo mangiare qui o Paul mi ammazzerà. Anche perché non sa che ho preso in prestito la sua macchina», confessa passandosi una mano tra i ricci scompigliati e arricciando il naso.
«Chi è Paul?» chiedo allacciandomi la cintura.
«Uno dei nostri addetti alla sicurezza ma lo consideriamo tutti una specie di padre».
«Non gli hai chiesto il permesso di prenderla?»
«L'avrei dovuto supplicare e non avevo tempo quindi ho preso le chiavi senza farmi vedere e me sono andato», confessa senza mostrare il minimo ripensamento.
Resto ad osservare per qualche istante la sua faccia all'apparenza così innocente, poi, gli do indicazioni per raggiungere un piccolo piazzale lì vicino.
«Vuoi mangiare in questo parcheggio?» torna a guardarmi spegnendo il motore.
«No, seguimi. Ma parla a bassa voce o sveglieremo tutto il quartiere», lo avverto prima di scendere dall'auto.
Lo conduco sul retro di una delle case al limite del parcheggio. Superiamo un piccolo cancello e ci ritroviamo davanti ad una struttura interamente in vetro.
«Forse, quello che dovrebbe preoccuparsi sono io. Questo è un ottimo posto in cui uccidere qualcuno e abbandonare il corpo. Hai intenzione di farmi fuori?» bisbiglia mentre cerco di aprire una delle finestre. A fatica soffoco una risata e, finalmente, trovo il punto giusto per aprirci un varco ed entrare. La mia pelle ringrazia immediatamente per il cambio di temperatura.
Henri si guarda attorno e resta a bocca aperta mentre camminiamo verso il fondo facendo attenzione a non calpestare né urtare nessuna delle mille piante custodite lì dentro. Per fortuna, le nuvole cariche di pioggia si sono diradate permettendo così alla luce della luna di filtrare e farci da guida fino ad una panchina di legno in cui ci sediamo e iniziamo a mangiare.
«Come conosci questo posto?» borbotta con la bocca piena.
«I proprietari sono degli amici dei mi... di famiglia», replico irrigidendomi. In realtà sono amici dei miei genitori. O forse dovrei dire erano.
«Wow, questo panino è fantastico e anche questa serra mi piace. Sulla compagnia non saprei, sono ancora indeciso», mi provoca alzando gli angoli della bocca in un sorriso mentre continua a masticare.
«Beh, la compagnia te la sei scelta tu quindi non ti puoi lamentare», lo rimbecco per niente offesa dandogli una piccola spinta col braccio.
«Probabilmente ci saremmo incontrati lo stesso in qualche altro modo», afferma senza distogliere lo sguardo dalla sua cena.
«Dici?»
«Sì, come le prime due volte».
«Ma questa volta ci hai messo lo zampino tu», obietto prima di prendere un altro morso del mio panino.
«È vero, ma non avevo la certezza che saresti venuta. Avresti potuto avere altri impegni per questo giorno oppure ti saresti potuta ammalare o i biglietti sarebbero potuti andare persi. Se sei qui vuol dire che dovevi esserci quindi mi piace pensare che, se non fossi venuta stasera, ci saremmo incontrati in un altro modo».
Come fa a dire delle cose così profonde in maniera così spontanea e naturale? Non sembra nemmeno essersi accorto delle parole che ha appena pronunciato.
«Allora, alle tue amiche è piaciuto il concerto?» domanda subito dopo.
«Piaciuto è dire poco, erano entusiaste. A proposito, grazie per i biglietti e per la sorpresa del backstage. Sei stato davvero troppo gentile».
«L'ho fatto con piacere. E poi, volevo rivederti», continua a mangiare come niente fosse, io mi volto a guardarlo alzando le sopracciglia come a chiedergli perché.
«Per farmi portare in una serra a mangiare i migliori panini di Manchester, no?» spiega alzando le spalle rispondendo alla mia non-domanda come se fosse ovvio. Ora capisco perché piace tanto alle ragazze: è carino, divertente e pure gentile.
«A te è piaciuto il concerto? Mi sembra di intuire che non sia proprio il tuo genere».
«Quale sarebbe il mio genere, secondo te?» sono curiosa di sentire qual è la sua idea.
«Più qualcosa tipo Coldplay». Cavolo, ci ha preso.
«Cosa te lo fa pensare?» cerco di restare vaga per non dargli la soddisfazione di aver indovinato al primo colpo.
«Ho indovinato, eh? In realtà era facile, a chi non piacciono i Coldplay? Ma non hai risposto alla mia domanda», insiste. Chissà perché gli interessa tanto sapere la mia opinione.
«Voi non siete male, anzi, cantate molto bene. Ma le vostre canzoni sono per le ragazzine che sognano ad occhi aperti il principe azzurro e si immaginano che voi stiate dedicando i brani ad ognuna di loro. Sono canzoni orecchiabili e simpatiche ma un po' superficiali». Spero non se la prenda per la mia schiettezza.
«Non sogni anche tu il principe azzurro?» raccoglie le gambe incrociandole sopra la panchina e si volta verso di me. Io faccio lo stesso.
«Sono un po' cresciuta per questo, non trovi?»
Ho appena detto che le loro canzoni sono superficiali e lui si sofferma su questa cosa?
«Hai solo diciotto anni e parli come se ne avessi quaranta», afferma con un certo stupore.
«Non è vero. Semplicemente mi piace essere concreta e stare coi piedi per terra», ribatto decisa.
«Cosa può averti reso così cinica?» si ferma a pensare un attimo. «Forse una fregatura in amore...» comincia.
Ripenso al mio primo e unico ragazzo: Daniel. Mi ha lasciata dopo un anno e, anche se non me l'ha mai confermato, so che c'era di mezzo un'altra ragazza. Pensavo di amarlo ma ripensandoci a distanza di tempo, non credo che fosse davvero così.
«...o forse non vai d'accordo con i tuoi genitori», continua il suo ragionamento.
Il sorrisino che avevo mi muore tra le labbra e abbasso lo sguardo. Di solito, non parlo volentieri di loro ma, in questo caso, l'idea di raccontare la mia storia a Henri non mi spaventa.
«Sono morti quando avevo quattro anni in un incidente stradale».
«Dio, scusa, a volte dovrei tenere la bocca chiusa», si passa nervosamente una mano tra i capelli. Sembra sinceramente dispiaciuto e la cosa assurda è che non mi piace vedere questa espressione affranta sul suo viso e vorrei poterlo consolare. Io vorrei consolare lui.
Scuoto la testa per rassicurarlo e continuo a parlare. «C'ero anche io in quella macchina ma non ricordo quasi nulla. Sono stata per un po' in ospedale e, quando mi hanno dimessa, sono rimasta con i miei nonni paterni in Italia per qualche mese finché mia zia mi ha presa con sé e mi ha cresciuta e amata come una figlia. A distanza di anni, ho scoperto che mia madre era incinta di cinque mesi quando è successo. In un certo senso, Ashley è la sorellina che non ho mai avuto. O meglio, che ho perso prima ancora di conoscere».
Siamo uno di fronte all'altro, le nostre scarpe si toccano. Mi sento così vulnerabile, un po' come mi fossi spogliata davanti a lui e, allo stesso tempo, anche molto più leggera.
Gioco con i laccetti delle scarpe per non guardarlo. Henri non dice niente. Si mette a giocare anche lui con i miei laccetti e le nostre mani si accarezzano involontariamente. Continuiamo così per un po', nessuno dei due vuole interrompere quel contatto.
«Mi sento veramente uno stupido per quella specie di battuta. Non volevo rattristarti», prende le mie mani tra le sue. Il suo tocco delicato mi fa alzare la testa e incrociare il suo sguardo. I suoi occhi brillano sotto la luce della luna e sembra mi vogliano parlare. D'un tratto, sento un flusso di emozioni contrastanti attraversarmi la pelle e fermarsi al centro del petto riempiendolo, come un palloncino sul punto di scoppiare. Fa quasi male ma vorrei che non smettesse più.
«Non ti preoccupare», accenno un debole sorriso interrompendo a malincuore il nostro dialogo muto.
Un cane comincia ad abbaiare senza sosta. Di scatto, ci voltiamo nella direzione da cui provengono i latrati e ci accorgiamo di una luce che si accende proprio nella casa di fronte alla serra.
«Cavolo, il signor Wilson! Presto, dobbiamo andarcene prima che sguinzagli Marlon», lo tiro per un braccio ma lui sembra non aver intenzione di muoversi.
«Chi?» chiede rimanendo immobile.
«Il cane si chiama Marlon», ribadisco tirandolo di nuovo senza risultato. «È un rottweiler e non è per niente socievole con chi si intrufola nel suo giardino». Le mie parole devono averlo convinto perché, dopo aver sgranato gli occhi, si decide a seguirmi. Usciamo da dove siamo entrati e cominciamo a correre quando sentiamo i passi concitati del cane e del padrone avvicinarsi in fretta a noi. Superato il cancello, ci ritroviamo al parcheggio ma il signor Wilson è ancora vicino, lo sentiamo imprecare, così, afferro Henri per un polso e ci allontaniamo dalla macchina continuando a correre fino a quando capiamo di non essere più seguiti.
Ci fermiamo in un vicolo quasi totalmente al buio e cerchiamo di riprendere fiato. Quando vedo l'espressione di Henri, lo sguardo terrorizzato e il viso pallido, non posso che scoppiare a ridere.
«Dovresti vedere la tua faccia, sembra che tu abbia visto un fantasma», non riesco a trattenere le lacrime.
«Per tutta la corsa mi sono immaginato quel cavolo di rottweiler afferrarci per i polpacci e poi sbranarci», ammette unendosi poi alle mie risate. Finché rimaniamo in silenzio, come sospesi, a guardarci negli occhi.
Imprimo nella mente ogni lineamento del suo viso: le sopracciglia leggermente disordinate al centro, il naso un po' a patata che, però, ci sta così bene, il labbro inferiore più carnoso dell'altro ma entrambi così invitanti e quegli occhi così belli che ti ci puoi perdere dentro.
Un calore improvviso nasce al centro del mio stomaco e si spande nel resto del corpo. Decido di distogliere lo sguardo, non riesco più a resistere ma, prima che possa farlo davvero, le sue labbra sono sulle mie e il mio cuore perde un battito. O forse due.
È uno sfioramento timido, cauto e dura troppo poco.
Henri si allontana leggermente rimanendo a pochi centimetri dalla mia bocca, posando la sua fronte contro la mia. Mi sembra di vedere dell'indecisione nei suoi occhi, come se non sapesse se riprovare ancora o lasciar perdere.
Senza pensarci due volte, cosa che non è assolutamente da me, prendo il suo viso tra le mani e lo bacio. Rilascio un sospiro di sollievo, morivo dalla voglia di assaggiare le sue labbra arrossate dal freddo. Lui ricambia e, appoggiando le mani sulla mia schiena, mi attira maggiormente a sé. Che buon sapore che ha. Non riesco a definirlo né a dargli un nome preciso ma non ce n'è bisogno. Sa di Henri.
Finalmente, scorro le dita tra i suoi capelli e, stringendogli qualche ciocca, faccio premere ancora di più le nostre labbra mentre continuiamo ad esplorare ognuno la bocca dell'altro. Dio, da quanto tempo aspettavo di accarezzargli i ricci. Gli mordo leggermente il labbro inferiore e, quando gli sfugge un gemito, riprendo a baciarlo con ancora più foga stringendolo a me. Non sembra dispiacergli.
Ci stacchiamo giusto il tempo di tornare a respirare normalmente e ricominciamo. Non so per quanto tempo ci baciamo, non capisco più nulla e, forse per la prima volta in vita mia, non me ne importa niente.
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