59. Un'offerta che non si può rifiutare
"Jacob, dobbiamo parlare."
Mi pare che ci siano poche frasi spaventose come quella che ho appena pronunciato. A quanto ne so, essa ha valore universale e nemmeno i vecchietti ebrei cocciutamente maleducati possono esimersi dal rabbrividire quando il loro nome viene associato a quel periodo così breve, eppure così carico di cattivi presagi.
"Ma anche no."
Forse ho davvero troppa fiducia nell'umana debolezza di questo uomo.
"Jacob." Insisto.
È rimasto solo lui nella saletta delle prove: con una scusa l'ho trattenuto qui e ora siamo in tre a fissarci: lui, Anthea e io. Thea sa dell'impegno che ho preso con il signor Jacobson Junior, ma non le ho raccontato che vorrei davvero indurre questo vecchiaccio ad accettare la proposta. Perché non farlo? A quanto pare Eliza ci tiene. È una delle poche nipoti che ho intravisto più di una volta, sulle scale della casa di riposo.
È ancora seduto sulla sua solita poltrona al fianco della finestra, lo sguardo truce di chi è convinto a non farsi in alcun modo convincere. È da un po' che il suo sigaro è terminato, ma tiene la cicca appesa al labbro inferiore come uno di quei gangster capricciosi, probabilmente per farmi capire che la situazione in cui ci sto conducendo andrà tutta a mio sfavore.
"Non capisco perché dobbiamo ancora parlarne. Ho detto di no e no rimane, non credi? Non sono mica alzheimeritico."
"Non ho mai detto questo. Sono qui per convincerti che non sarebbe una cattiva idea. Lo so che te lo ricordi benissimo."
"Peccato che sarebbe eccome una cattiva idea."
"Senti..."
"E poi davanti alla tua ragazza. Sei davvero un fidanzato scadente."
"La mia ragazza sa tutto." Lo rimbecco, lanciando uno sguardo ad Anthea, che è ancora accoccolata sullo sgabello del piano, in mezzo a noi. Lei rimane impassibile ma fa per dire qualcosa, prontamente interrotta da Jacob.
"Non c'è bisogno che racconti a una shiksa della mia vita privata. Le cose tra ebrei, rimangono tra ebrei."
"Non ho idea di cosa tu intenda con quella parola, ma spero che non sia nulla di offensivo."
"Voi Gentili ve la prendete sempre per ogni cosa. È solo un'etichetta che si usa per..."
"Meshugener." Dice all'improvviso, con tutta la calma del mondo, Anthea.
Per un secondo penso che sia una specie di onomatopea, un versetto di frustrazione che le è uscito involontariamente, ma è una parola troppo lunga per essere casuale. In più Jacob sembra trasecolato, preso di sprovvista. Non l'ho mai visto così sorpreso e me ne stupisco, perché pensavo che nulla potesse tangerlo, ormai.
"Cosa?"
"Lei si sta comportando come un meshugener." Ripete lentamente Anthea.
"E tu come diavolo conosci questa parola?" Trasecola Jacob.
"Forse non sono una shiksa."
"Hey, io non ci sto capendo nulla." Mi lamento, inquietato dalle loro strane parole in codice. "Potete spiegarmi?"
Jacob si volta a guardarmi e sul suo viso c'è dipinto un sincero e candido stupore, puro quanto quello di un bambino. Peccato che duri meno di una frazione di secondo e la sua aria da Scrooge torni subito a farla da padrone, enfatizzata da un sogghigno sardonico.
"Non sapevi che la tua ragazza parla Yiddish, Cinesino?"
Resto di sasso e lancio un'occhiata ad Anthea, che si limita a stringersi nelle spalle e ad arrossire lievemente dietro la cortina di lentiggini. Per un attimo provo la terribile sensazione di camminare su un baratro: quanto so di lei? Tre cose sulla sua famiglia, ciò che studia, quello che le piace fare nel tempo libero. Altro? Not found. Dio, che situazione assurda.
"Non proprio. No." Rispondo, senza distogliere lo sguardo da lei in una muta accusa. Thea abbassa gli occhi e torna a guardare Jacob, dicendo: "Non sono praticante."
"Beh, non è quello che mi interessa. Se conosci l'Yiddish, hai parenti ebrei."
"Mia madre lo era."
"Ah! Bene, bene. Allora lo sei anche tu. Il figlio di madre ebrea è ebreo."
"Mio padre non lo è, è presbiteriano."
La faccia di Jacob si contorce in un'espressione di sdegno. "Come Trump."
"Non sono stata cresciuta come un'ebrea." Prosegue Anthea. "Ma mia madre sì. Mi ha insegnato un po' di Yiddish occidentale. I Meijer lo parlano da generazioni."
Trovo più accettabile che non sia praticante per il semplice fatto che questo significa che non mi ha nascosto l'intera faccenda legata alla sua religione. Però sono comunque confuso e mi sento lievemente tradito. Questa mi pare una cosa molto importante, eppure la scopro solo ora. Continuo a dirmi che Anthea mi deve aggiornare su un bel po' di cose, ma ho sempre paura di chiedere a causa della mia costante angoscia. So che non è mio diritto vero e proprio sapere informazioni ritenute private, ma io le ho raccontato quasi tutto quello che c'era da sapere su di me. All'inizio era divertente essere stupito dalle piccole scoperte sul suo conto, ma ora ne sono quasi spaventato, perché mi rendo conto che dietro Anthea c'è un mondo complesso, multidimensionale. Ora capisco perché il suo strano sguardo adulto mi inquieta: in realtà non so da cosa sia causato.
"Beh, questa è proprio una bella notizia." Conferma Jacob, che è il più felice del gruppo. "Non capita tutti i giorni di sentire una ragazza giovane parlare Yiddish. Molto, molto bene."
"Visto che sei così contento della notizia" ne approfitto, "dovresti ricordarti che anche tua nipote lo parla."
"Mia nipote! I miei nipoti non sanno nemmeno cos'è. I miei figli sono uno più rammollito dell'altro, erano delle mezze seghe alla scuola della sinagoga, figurati se sanno parlare Yiddish."
"Lei è molto duro con loro." Commenta Anthea, aggrottando la fronte. "Eppure, se sua nipote le ha chiesto di suonare al suo Bat Mitzvah, vuol dire che..."
"Calma. Non è venuta Eliza. È stato suo padre Gabriel a chiedermelo. Quindi io non posso di certo pensare che sia un'idea di mia nipote."
"Davvero puoi pensare che ti vogliano lì per prenderti in giro?" Gli domando esasperato. "Pensi davvero che i tuoi figli siano un branco di stronzi?"
Jacob si ammutolisce e per quasi un minuto permane nel suo stato di silenzio pensoso. Quando ricomincia a parlare, lo fa molto lentamente.
"L'ultima volta che ho suonato in pubblico, l'ho fatto undici anni fa. Per mia moglie." Spiega, fissandomi con sguardo truce. "Per questo motivo non lo rifarò."
"Pensi che tua moglie potrebbe offendersi?" Gli chiedo, forse senza troppo tatto ma spinto dal desiderio di capire il suo punto di vista. Lui arruffa le penne, storce la bocca e fa per commentare con qualcosa di molto cattivo, ne sono certo, quando Anthea blocca la sua crudeltà sul nascere dicendo: "Da una generazione all'altra."
"Eh?" Chiede Jacob, mentre la sua attenzione viene calamitata dai suoi occhi pervinca.
"Da sua moglie a sua nipote. Ha il suo perché, non trova?"
"Affatto."
"Sei così..." Sbotto. "Così... difficile! Hai giurato a tua moglie di non suonare mai più?"
"No. E allora?"
"Allora è un tuo blocco mentale. Non penso che Linda potrebbe davvero offendersi."
"È anche sua nipote." Fa notare Anthea.
"La sua nipote più piccola." Preciso io. "O sbaglio?"
"Sì." Grugnisce infastidito il nostro vecchio acido. "È la più piccola."
"Facciamo una scommessa." Dice all'improvviso Thea, prendendo entrambi di sprovvista. Non avevamo concordato nulla del genere, perciò mi agito, ma Jacob allunga le orecchie e la guarda con un nuovo interesse.
"Che genere di scommessa?"
"Lei, signor Jacobson, partecipa al Bat Mitzvah di sua nipote. E vi suona." Inizia lentamente, senza distogliere gli occhi dai suoi. "E in cambio..."
"In cambio?" Vuole subito sapere quella vecchia volpe.
"In cambio verrò ogni domenica con Jess qui, alla casa di riposo, per la lezione di musica."
Per poco non stramazzo al suolo, perché questo non vuole forse dire che Anthea ha intenzione di venire a New York ogni weekend? Ma Jacob ovviamente non trova l'offerta così allettante, visto che la fissa un po' deluso e scuote la testa incredulo.
"Tutto qui?"
"Non ho ancora detto cosa porterò con me."
"Fiori? Nah, guarda che io non sono un tipo da queste cazzat..."
"Mio padre possiede, tra le altre cose, anche una distilleria. O meglio, una serie di distillerie." Anthea parla con un tono soave, morbido e avvolgente. Mi rendo conto che è un vero e proprio scambio quando ormai è troppo tardi. "Ogni quanto passa il figlio della signora Campbell?"
Jacob non è affatto convinto, ma si prende il suo tempo per farsi un paio di calcoli a mente e improvvisamente i suoi occhi si illuminano di una luce furba. Anthea ha toccato il giusto tasto con lui: l'amore per i soldi.
"Sapete, voi due mi state praticamente facendo un'offerta che io non mi sentirei di rifiutare, anche perché ho degli obblighi nei riguardi della mia amica Marge e, insomma, i soldi della pensione non sono granché per pagarci tutti i comfort di questa topaia." Dice allegro e leggero, facendo danzare le dita sui poggioli della poltrona. "Però con quale aspetto apparirò ora ai vostri occhi? Come quello di un vecchio ingordo che svende sua nipote per dell'alcol di buona, buonissima qualità?"
"Beh." Convengo. "Un po' sì..."
"Dimentichi che con i soldi guadagnati dalla vendita sottobanco dei nostri prodotti, Marge e io diamo le paghette ai nostri cento nipoti."
"Un nobilissimo intento." Afferma Anthea, scoccandomi un'occhiata che vuol dire stai zitto. "A me non costerà alcunché e tu ci guadagnerai in ogni caso. Non trovi che sia un buon affare?"
"Sì. Lo è."
"Allora ti possiamo considerare convinto?" Chiedo, indeciso e ancora molto poco certo della sua parola. Jacob sembra pensarci un attimo, si picchietta le labbra con un dito e dopo un secondo in cui temo un ripensamento, dice: "In effetti per convincermi vorrei un'altra cosa."
"Non posso venderti un rene."
"Stai certo che i miei funzionano meglio dei tuoi, faccetta di pellagra. No, no. Voglio che questa ragazzina venga con me."
"Io?" Chiede sbigottita Anthea, allargando gli occhi e indicandosi con sorpresa. "Ma, io..."
"Ovviamente" la interrompe lui, "può venire anche Jess. Ma non trovo lecito che una bambina ebrea non sia mai stata in sinagoga. Perché tu non ci sei mai stata, vero?"
Anthea scuote la testa, anche se non so se sia sincera o meno. Non importa, serve per convincerlo. Lui annuisce con gravità, soddisfatto e pieno di sé dalla risposta, come se fosse sicuro di fare del bene pubblico.
"Bene. Allora consideratevi invitati."
"Jacob, tuo figlio..."
"A mio figlio telefonerò stasera. Se mi vuole avere come star alla sua festa, dovrà essere contento della presenza dei miei ospiti. Tranquillo, probabilmente vi bacerà la punta delle scarpe appena vi vedrà per aver convinto il suo odioso padre ebreo a venire. Perciò non temete."
Ho per l'ennesima volta la sensazione di essermi cacciato nell'ennesimo casino, ma da quando conosco Anthea la mia vita è diventata così: ricevo inviti su inviti o mi autoinvito nel tentativo di aiutare persone. Ora ho impegni con Ben, Serafina e perfino Jacob. La mia estate sarà assurdamente impegnata, anche se sono contento di aver portato a termine almeno una promessa, pur dovendo ringraziare Thea: senza di lei, Jacob avrebbe preso le scale di gran corsa come l'ultima volta per non essere costretto a parlarmi. Il fascino di questa ragazza ha sempre più potere nel mio mondo. Chissà se è un bene o un male.
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