52. Il Call center delle 7.40
È mezzanotte passata quando lascio casa di Serafina. Alla fine, terminate le spiegazioni su cosa voglia dire essere una romanichal - un mondo che per me rimane a metà tra un mistero e un inferno - ci siamo messi a guardare un film. Aveva bisogno di distrarsi e cosa meglio di un film trash? Grazie a Ruben possiedo una collezione di titoli incredibile.
È solo quando mi ritrovo fuori dalla porta del suo palazzo - dopo aver ricevuto un abbraccio particolarmente sentito, che mi ha fatto un po' un benefattore, anche se non di me stesso - che mi rendo conto di aver appena fatto un errore madornale. E no, non parlo del battesimo a Los Angeles.
"Oh, no, Thea..."
Tiro fuori il cellulare e controllo subito l'ultimo accesso che ha fatto su WhatsApp. Un brivido di orrore mi coglie impreparato quando noto che è da più di un'ora che è offline. Scommetto che è andata a dormire arrabbiata. O peggio: delusa.
"Che idiota, che idiota, che idiota." Sibilo rivolto a me stesso mentre salgo su uno dei pochi bus notturni ancora circolanti, dal momento che la metro ha già chiuso i battenti. Il mio primo istinto è quello di tentare di chiamarla, ma ho paura di disturbarla. Mi viene da piangere e l'unica cosa che riesco a fare lungo tutto il percorso per tornare a casa è pensare alla conseguenza drammatica che questa leggerezza potrà avere sul nostro rapporto.
"La chiamo domani mattina appena mi sveglio." Mi dico, quando il pensiero di essere lasciato diventa insopportabile. "La chiamo e le spiego ogni cosa."
In realtà non tengo fede a una parte della mia promessa, ovverosia quella di svegliarmi. Passo, infatti, una notte insonne, conteso tra incubi deliranti e speranze agitate in cui io, il protagonista, tenta di destreggiarsi in situazioni infelici. Sogno Anthea offesa, Serafina che litiga con i suoi strani parenti, Ruben con in braccio un bambino.
Mi sveglio di scatto dall'ultima full immersion di orrore, in un bagno di sudore e con il fiatone. Controllo subito l'orologio: le sei e venti. Subito dopo capto il rumore dell'acqua della doccia che scorre. Decido di alzarmi subito, con la testa che gira spiacevolmente e un formicolio alle gambe. Penso di avere in circolo tonnellate di adrenalina e questo non va affatto bene.
Mentre faccio il caffè, ancora in pantaloncini e maglietta, controllo WhatsApp. Ovviamente non ci sono novità e mi sento un po' morire. Ruben esce dal bagno con i capelli ancora bagnati e gli occhi rossi. Penso abbia pianto, ma non glielo chiedo: gli riempio solo la tazza di caffè nero.
"Come mai sei già sveglio?" Mi domanda, facendo un cenno di ringraziamento. "Non sei tornato tardi?"
"Sì." Rispondo, sorseggiando la mia amarissima colazione.
"Quindi?"
"Devo chiamare Anthea." Dico in breve. "Ieri non l'ho fatto."
"Te ne sei dimenticato?"
Annuisco e lui non dice altro. Io non voglio ammorbarlo con i miei problemi e lui ha già troppa roba a cui pensare. Rischiamo di amplificare l'uno il disagio dell'altro.
"Com'è andata ieri sera?" Gli domando, dopo quasi cinque minuti di silenzio.
"Non bene." Mi risponde. "Eirene non era in forma."
"Oh."
Ecco un altro problema.
"In che senso?"
"Tra oggi e domani si sposta a Manaus per raggiungere la guida ed entrare nella foresta, ma le cose con Crystal e l'altro deficiente non funzionano."
"La trattano male?"
Ruben si stringe nelle spalle. "Tu lo sai? Eirene sta sempre zitta su queste cose. Non ci ha detto niente di negativo, ma Ford e Amos la conoscono bene. Loro dicono che c'è qualcosa che non va e anche secondo me è così. Ho paura che continui a non mangiare."
È la mia stessa paura. Se si sentisse male, chi si prenderebbe cura di lei? Perché su una cosa sono certo: Eirene non è in grado di farlo da sola. Le sono successe troppe cose. Tutti noi suoi amici sappiamo che ha smesso di mangiare come forma di punizione. Lo sappiamo, anche se non possiamo farci niente.
La nostra colazione si conclude così. Ruben ha lo spirito necessario per uscire di casa prima che io sia costretto a chiedergli come sta e finalmente mi ritrovo da solo. O meglio, in compagnia dei miei sensi di colpa. Mi preparo molto lentamente, faccio una doccia lunghissima e vado a prendere la metropolitana in anticipo di quindici minuti.
Mi sono appena seduto, quando riapro WhatsApp e il cuore salta un battito. Non penso neanche al fatto che non sono nemmeno le nove: chiamo subito Anthea, sapendo che è sveglia. Risponde dopo quasi cinque squilli e dieci anni della mia vita.
"Pronto?"
Ha la voce strana e no, non è perché probabilmente si è appena svegliata. Sembra esausta.
"Thea?"
"Oh, ciao."
Deglutisco e rispondo: "Scusa per ieri sera. Sono successe un po' di cose."
"Tranquillo. Ho immaginato."
È gentile, ma la sua gentilezza mi spaventa solo di più.
"Sei arrabbiata?"
"No."
Forse lo è.
"Sicura?"
"Jess, sono le sette e quaranta. Non sono arrabbiata, mi sono appena svegliata."
Rimango in silenzio per un istante, troppo angosciato per aggiungere altro. Ha ragione. Sono un idiota.
"Scusa, non volevo disturbarti. Ti saluto."
"Jess." La sua voce ora è più forte, anche se è sempre un sospiro. "Aspetta."
Rimango immobile, agitato. Ho paura che mi dica di non rifare mai più una cosa del genere.
"Va tutto bene." Dice invece. "Com'è andata con Ruben?"
"È andato da Amos e Ford per parlare con Eirene."
"E tu dove sei stato?"
"Non era l'unico ad avere dei problemi. Sono andato a casa del mio capo. Ti ricordi che ti avevo detto che era arrivata la sua famiglia?"
"Sì."
"Beh, questa famiglia ha creato una serie di complicazioni."
"Oh, mi spiace."
"Ma tu?" Le domando finalmente, ormai preda dell'ansia più terribile. "Come stai?"
"Tutto bene."
Dalla sua voce non si direbbe.
"Non hai dormito?"
"Ho passato una notte un po' agitata."
"Come mai?"
"Jess." Mi rimprovera lei per la seconda volta, anche se capto un sorriso in quello che dice. "Sto bene. A volte mi capita di non dormire bene."
"Mi sembri così stanca..."
"Ora bevo un tè e mi passa."
Temo che mi nasconda qualcosa, ma sicuramente sta pensando che io sia fin troppo insistente. Desisto, anche se controvoglia.
"Cosa fai oggi?"
"Vado a fare una ricerca in biblioteca e poi continuo la tesi. Tu stai andando al lavoro?"
"Sì."
"Dimmelo se il tipo strano ti dà fastidio al lavoro."
Mi concedo un sorriso. "Non ci parlo proprio."
"Meglio così. Meglio. Ah, senti un po': sei libero ai primi di settembre?"
Il vagone della metro si ferma alla mia fermata e io scendo, con il cellulare incollato all'orecchio.
"Penso di sì, perché?"
"C'è la mia sessione di laurea."
"Vuoi che venga in New Jersey?"
"Certo. Ovviamente se lo vuoi."
Ora il sorriso è diventato stabile.
"Sarò libero, qualsiasi cosa io abbia da fare."
"Potresti venire qui, a casa mia."
Ormai sono arrivato all'ultimo scalino della metro e lì mi blocco, quasi perdendo l'equilibrio.
"A casa tua? Ma... tuo padre?"
"Glielo dirò. Gli dirò che sto con un ragazzo."
"E pensi che gli andrà bene?"
"In fondo la vita è mia, no?"
È una risposta gradevole da sentire, ma sono comunque preoccupato. Il padre che Anthea mi ha disegnato non è un uomo con cui si può discutere più di tanto. Nonostante ciò non posso dire di non sentirmi improvvisamente colpito da un raggio da sole. Ieri sono capitate trecento cose e pensavo di aver intaccato anche la mia, di storia, ma questa ragazza non segue i miei schemi mentali. Fortunatamente, direi.
"Sì, è la tua vita."
"Bene. Quindi glielo dirò e dovrà semplicemente accettare la questione."
Non so perché, ma mi metto a ridere.
"Cosa? Perché ridi?" Inquisisce lei subito, con il suo tono più piccato.
"Niente... è che sono le otto e tu sembri pronta per una guerra. E a dire che sembravi stanca, prima."
"Ho avuto una botta di adrenalina."
"Quella che io ho con tre caffè, praticamente. Insegnami, o maestra."
"Lo farò quando verrai a casa mia."
"O quando tu tornerai a New York."
"Sto valutando anche una vacanza."
"Una vacanza?"
"Assieme."
Mi fermo un secondo sul mio percorso verso il palazzo de La lanterna di Aristotele per alzare gli occhi al cielo e ringraziare chiunque mi stia proteggendo in questo momento. Ovviamente ci sono in ballo altri problemi, a partire dal viaggio con Serafina e dall'arrivo di Anoush, ma sicuramente una settimana assieme ad Anthea non ucciderà nessuno.
La mia vita è fatta così: un momento prima sto vivendo un attimo nero in cui tutto mi sembra terribile e che non ci sia via d'uscita, un momento dopo mi sento benedetto. È una continua altalena tra gioia e paura. Non so se sia normale, visto che abito solo questa pelle, ma spero che lo sia. Mia madre diceva che della vita avrei dovuto imparare le regole e che poi sarebbe stata fantastica. Forse sto migliorando a questo gioco, anche se non mi sento ancora un professionista. Diciamo che mi ritrovo su una barchetta in mezzo ai problemi, ma questa volta tengo saldamente stretti due remi, che non ho la minima intenzione di lasciar andare.
"Beh, bisognerà organizzare come si deve."
"Spero bene."
"Ad agosto sono a casa."
"Per agosto avrò finito la tesi."
La amo. La amo da impazzire. È capace di farmi sentire felice con poche parole, di promettermi le stelle senza farmi dubitare in alcun modo che non potremo raggiungerle. La amo perché è capace di far svanire la nebbia di insicurezza e timori che mi circonda perennemente. Fin dalla prima sera l'ha fatto, dall'istante in cui è riuscita a evitare un mio attacco di panico sulla pista da ballo.
"Vieni quando vuoi a New York." Le dico, mentre entro nel mio palazzo. "La mia porta è sempre aperta. Ti spiegherò tutto quello che mi è successo in questi giorni."
"Farò il possibile per venire in un weekend. Non so se questo o il prossimo."
"Quando vuoi, davvero."
"Non sei ancora arrivato al lavoro?"
"Sono appena salito sull'ascensore. Sono un po' di anticipo."
"Avrai tutto il tempo di prenderti un altro caffè."
"Tu? Non hai ancora fatto colazione? Il tè?"
"Ora vado, mamma."
"La mamma si preoccupa per te."
Mi risponde con una strana dolcezza nella voce. "Lo so. E anche io mi preoccupo per lei."
"Buona giornata, Thea." Le sussurro. "Cercherò di farmi sentire senza telefonarti impanicato alle sette del mattino, la prossima volta."
"Buon lavoro e buon concerto da Ben." Mi risponde lei. "Ho visto l'ultimo episodio di The Musician. Stephanie ha battuto di nuovo la sua sfidante."
"Oh, benissimo. Sentirò il commento entusiasta di Ben stasera, allora."
"Salutamelo!" Ride lei, prima di mandarmi un bacio e mettermi giù. Infilo il telefono nella tracolla con la gioia dipinta in volto e l'idea che la giornata non potrà prendere una piega che non sia buona. Certo, ho un sacco di problemi - o meglio, le persone attorno a me li hanno - ma ora lui conosco e so che posso, possiamo combatterli. Schiaccio il pulsante del mio piano e attendo che il vetusto ascensore si degni di ubbidire. Penso a tutto quello che ho da fare, senza però distogliere la mia attenzione a tutto ciò che Anthea ha proposto: il weekend assieme, la vacanza, la sua laurea...
Quando le porte dell'ascensore si aprono, vado sicuro verso la macchinetta del caffè in fondo al corridoio. Neanche Serafina è già arrivata, ho tutto il tempo per prendermi una pausa per iniziare bene la giornata. Inserisco le monete necessarie e chiudo gli occhi, attendendo che la macchinetta compia la sua magia quotidiana. Sono ancora perso nei miei sogni di vacanze al mare con Anthea, quando una voce mi fa trasalire di botto.
"Ciao, Jess."
Mi volto, ignorando l'improvviso trillo del caffè pronto, e mi trovo davanti la persona meno prevista della mattinata. Silas è in piedi davanti a me con l'onnipresente cartelletta blu in mano e l'espressione neutra. Accenna appena un sorriso.
"Ciao, Silas." Rispondo, cercando di riprendermi dallo stupore.
All'improvviso penso di essermi sbagliato su tutto: forse Silas non mi ha mai evitato ed è stata tutta una mia impressione, non sarebbe di certo la prima volta, no?
"Posso parlarti un attimo? Ti devo chiedere una cosa."
O forse mi sbaglio.
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