46. Il signor Auburn, messo di sventura

La domenica sembra infinitamente corta. Forse perché ci svegliamo alle undici, forse perché Anthea parte alle tredici in punto. Facciamo appena in tempo a terminare l'ibrido colazione-pranzo ideato da Ruben prima di salutarci. Soffriamo entrambi dei postumi della nottata, ma sono talmente contento, anche se un po' intontito, che salutarla non è un dramma. Ora ho molte più sicurezze rispetto a tre giorni fa: sono sufficienti per tranquillizzare anche i miei pensieri più neri. 

"Quindi..." Le dico sulla banchina del treno, mentre siamo mani nelle mani e dondoliamo un poco, avanti e indietro. "... Questo è un arrivederci?"

"Chiaramente." Risponde lei, la lingua tra i denti e un'espressione impudente in viso. 

"Quando?"

"Il prima possibile."

Annuisco, anche se vorrei chiederle di tornare nel prossimo week-end: ho paura di risultare un po' troppo insistente, soprattutto visti i problemi che ha con la famiglia. Il padre di certo continua a pensare che lei abbia passato tre giorni da sballo a casa delle sue amiche, non di certo dal suo ragazzo transgender. Sorrido da solo, un po' stupido, al pensiero: è strano pensarci effettivamente impegnato, anche in modo ufficiale. Mi domando sempre se è così che le cose andrebbero in una coppia normale, anche se subito dopo mi dico che la normalità è un concetto relativo e questa, per esempio, è la mia. 

Tiro indietro le braccia e lei segue il movimento. Ci ritroviamo petto a petto a guardarci negli occhi. Sotto i suoi ci sono due aloni neri, occhiaie impagabili. L'altro regalo che le ho fatto, oltre all'orchidea. Orchidea posata sapientemente sulla sua valigia, in equilibrio perfetto. In realtà spero che non cada o farà un macello. 

Faccio per dire qualcosa, ma Anthea non me ne lascia il tempo: si tende sulla punta delle scarpe e posa la punta del suo naso contro il mio. Rimaniamo in quella posizione per qualche istante, poi udiamo l'annuncio del suo treno e improvvisamente abbiamo una fretta diversa: le lascio le mani e l'abbraccio, mentre lei mi getta le braccia al collo. Abbiamo sì e no un minuto per un bacio come si deve. 

"Alla prossima, signor Liang." Mi dice con un sorriso, quando dobbiamo ormai salutarci. 

"A presto, signorina Carroll." Le rispondo, giurando a me stesso di fare meno paranoie su di lei, d'ora in poi. 

***

Infatti, le paranoie dovrei farmele per altri motivi. Ma succede sempre così: quando sto cominciando a trovare l'equilibrio in qualcosa, ecco che un'altra si ribalta, fa un triplo carpiato o scende come una valanga. 

Lunedì mattina torno al lavoro in gran forma. Sono sereno, sono ottimista e quando ripenso a Silas, scuoto la testa mezzo divertito: con le parole si può sistemare ogni cosa, sempre che il discorso dovesse saltar fuori di nuovo. Sono ormai certo di averlo colto di sorpresa, nulla di più. Passo a salutare Serafina e anche lei mi sembra di buon umore. Questa giornata è partita per il meglio.

"Kirti è tornata." Mi dice, mentre mi siedo davanti a lei per farmi offrire una nuova caramella in una scatolina di metallo. "Henry si è rilassato."

"Ha già parlato del suo promesso sposo?" Chiedo io, rendendomi conto di aver appena infilato in bocca un confetto al terribile gusto di violetta. Eau de toilette allo stato solido.

"Non mi sembrava molto convinta. Ha detto che non hanno molte cose in comune."

"Henry sicuramente si starà già facendo dei film mentali assurdi."

"Ovviamente. Puntualmente. Irrimediabilmente. Sono buone, 'ste caramelle?"

Le passo la scatolina e mi viene da ridere. "Sono per l'alito, in pratica."

Mi guarda alzando un sopracciglio, poi ne prende una e se la infila in bocca. Fa subito una smorfia. "Pessima idea prenderle. Ma il tuo week-end? Quello che ho ideato io a tuo vantaggio?"

"Penso di doverti un favore."

"Penso che tu me ne debba molti."

Le sorrido: a volte Serafina si comporta come potrebbe farlo qualche divinità in un film stile Una settimana da Dio. A volte mi dà proprio l'impressione che abbia qualcosa di soprannaturale. Si spiegherebbero molte cose e sinceramente, pensando a lei, mi è sempre tornata in mente la statuetta che ha in salotto, quella della Dea dei Serpenti. Potrebbe essere tranquillamente la reincarnazione di una dea di quel calibro e io potrei vivere tutta la mia vita senza sapere che sotto quegli abiti bianchi e neri si nasconde un'immortale creatura che ha milioni di anni e dispensa ancora agli uomini la sua bontà. 

Sto delirando. Forse è colpa di questa maledetta caramella che puzza di profumatore per ambienti. 

"Ti racconto a pranzo." Le dico, non vedendo l'ora di andare nel mio ufficio e sputarla nel cestino. 

"Sì, vattene. Ora non ho tempo." Mi risponde brusca, come al solito. Mi fa sempre piacere notare che Serafina non è in grado di cambiare atteggiamento, nemmeno quando sa che si mangerà le mani perché è curiosa e dovrà aspettare ore prima di avere tutte le informazioni che desidera. Mi alzo con un sorriso, le faccio un cenno di saluto - anche se lei non mi guarda neanche perché si è già rimessa al lavoro - e salgo nel mio ufficio. Appena entrato, mi rendo conto che ormai il confetto è quasi terminato e lo deglutisco come una medicina, a fatica e con schifo.

"Beh, ormai è andato." Mi dico, con la bocca impastata di deodorante, chiedendomi come alcune persone riescano davvero pensare che mangiare saponette grandi come chicchi di riso possa essere piacevole.

Mi siedo, accendo il PC come ogni mattina e mi preparo a una frizzante giornata di lavoro in compagnia di uno sgrammaticato articolo su John Steinbeck. Penso che passerò così tutta il giorno, ma verso le undici e mezza avviene una perturbazione all'interno del giornale. All'inizio non me ne accorgo perché sono concentrato nel correggere con rabbia i trecento errori di grammatica e tutti gli SteinbAck in SteinbEck cullato dal suono delle fontane zen che ho trovato su YouTube. Poi, quando parte molesta la pubblicità e sono costretto a strapparmi le cuffie per non perdere l'udito, mi rendo conto che c'è del trambusto al piano di sotto. Mi alzo di scatto e vado subito a sporgermi dalla porta, trovando anche quasi tutti i miei colleghi nella stessa posizione. Carlotta e Sofia si voltano verso di me con le sopracciglia corrucciate ma è Randall, l'editor di letteratura spagnola, che mi domanda: "Cosa succede?"

Mi stringo nelle spalle e cerco di capire a chi appartengono le voci. Ho già una mezza idea su quella femminile ed è solo quando capisco di chi quella maschile che abbandono la mia postazione da vedetta e mi precipito verso l'ascensore.

"Dove vai?" Mi chiedono in coro.

"A fermare un omicidio, probabilmente." Rispondo, prima che le porte dell'ascensore si chiudano. Ho il cuore nelle tempie e mi chiedo cosa mai avrà potuto scatenare la rabbia di quel rompicoglioni questa volta: era da almeno un mese che non si faceva sentire. Forse era andato in vacanza.

Quando finalmente arrivo al quarto piano, le voci sono così alte da far vibrare la grata. Mi precipito fuori non appena sono libero da quella vetusta prigione semovente, ma non serve correre, perché i due litiganti sono proprio davanti a me. Serafina si erge battagliera sul famigerato e fastidiosissimo Auburn-del-secondo-piano, un ometto rubizzo, con la pappagorgia, le macchie di sudore sulla camicia e un avanzo di capelli grigi disposti a ferro di cavallo sul retro della testa. È la figura che mi viene in mente quando penso alla caduta di Roma, il degrado di un senatore italico. 

L'ascensore fa talmente tanto rumore che i due si zittiscono e si voltano a guardarmi. Forse ho appena fermato una rissa, anche se a ben pensarci mi ci sto letteralmente buttando in mezzo.

"Buongiorno, signor Auburn. C'è qualche problema?" Dico subito, senza imbarazzo. Non è la prima volta che intervengo come giudice di pace, ormai non mi sento nemmeno male al pensiero di essere così ficcanaso. 

"Se c'è qualche problema? Me lo sta davvero chiedendo, signor Liang?" Esclama lui, con la sua strana voce resa acuta dalla rabbia. "Quando c'è di mezzo la signora Celli, i problemi sono sempre assicurati!"

"Signorina!" Ruggisce Serafina. "E se non si sbriga a dirmi cosa vuole, può anche uscire dalla mia redazione o ci penserò direttamente io ad accompagnarla nei suoi uffici!"

"Lei è una donna feroce, Celli! Feroce e maleducata!"

"E lei è un intrattenitore di masse, ma io non ho tempo per i suoi gran discorsi da duce: qui c'è gente che lavora, caro il mio signor Auburn."

Vedo la pappagorgia dell'impiegato rabbrividire e so che il momento dell'esplosione nucleare è a un soffio, così mi sbrigo a intervenire per la seconda volta. 

"Signor Auburn" inizio, "Può dirci cos'è successo?"

Sono sufficientemente perentorio da distrarlo dalla rabbia montata dentro di lui. Questa volta si gira proprio verso di me con le mani sui fianchi - e gli aloni di sudore che si allargano a macchia d'olio sotto le ascelle - e prorompe in un: "Ebbene, un quarto d'ora fa è iniziato un gran fracasso al piano terra, proprio sopra il mio ufficio! Gente che urla a gran voce! Sono subito andato a controllare cosa mai stesse accadendo e in portineria c'erano questi... questi strambi tipi che gridavano contro il portinaio perché volevano salire, chissà a far cosa, poi! Ovviamente il portinaio ha impedito che quella gentaglia lo facesse davvero, così l'unica donna tra i tre si è messa a urlare che stavano cercando una certa SerQualcosa Celli."

Il signor Auburn-del-secondo-piano torna a guardare Serafina, che nel frattempo è improvvisamente sbiancata. Non l'ho mai vista impallidire così velocemente e temo tantissimo che sia sul punto di svenire. Lo fissa in silenzio, mentre lui continua: "Ho supposto quindi di venire a parlare con l'unica signorina Celli presente in tutto l'edificio. Immagino siano suoi parenti, hanno la sua stessa propensione nel far uso delle corde vocali in modo totalmente improprio."

Serafina non ribatte e io penso che la situazione sia talmente grave da richiedere un intervento immediato. 

"Grazie, signor Auburn. È stato davvero gentile. Grazie per averci avvisato. Ora ce ne occupiamo noi." Dico, per tagliare il discorso. Prima che quell'impiccione affermi il suo diritto a partecipare all'assemblea dell'orrore che si sta per tenere, prendo per mano Serafina mentre con un dito richiamo l'ascensore. Fortunatamente è ancora lì dove l'ho lasciato, così salgo subito trascinandomela dietro e chiudo le porte prima che il signor Auburn possa anche solo dire qualcosa. 

"Sef? Hey?" La richiamo, appena siamo soli. Sembra spiritata: ha lo sguardo vacuo ed è livida. Ho davvero paura che perda i sensi, nonostante io sappia quanto normalmente possegga nervi d'acciaio.

"È un incubo." Sussurra lei, muovendo a malapena le labbra.

"Un incubo cosa? Cosa sta succedendo?"

Lei posa il suo sguardo su di me e noto del vero, genuino terrore. Anche io comincio a essere spaventato e salto in aria quando l'ascensore trilla per avvertire che siamo arrivati. Le porte si spalancano, qui non c'è la grata. Il passaggio è libero, diretto verso la doppia porta dell'entrata, a fianco della cabina del portinaio. È proprio lì, davanti a noi, che sono posizionate tre persone. All'inizio non sembra che abbiano qualcosa di strano: sono due uomini e una donna. Poi comincio a notare piccoli particolari un po' strani: i due - uno più vecchio e l'altro decisamente più giovane - sono in canottiera e portano vistosi orologi al polso; la signora ha i capelli di un biondo che non penso sia naturale, indossa dei tacchi discutibili ed è strizzata in un abito leopardato. Penso che ci sia stato un errore, che il signor Auburn, accecato dalla sua insofferenza verso Serafina, abbia scambiato un cognome per un altro, ma poi sento lei stessa bisbigliare: "Oddio, no."

Nello stesso istante tutti e tre ci vedono. Smettono di litigare con il portinaio e ci fissano. Spero ancora che sia un errore, che non sia vero, ma le mie speranze vengono infrante subito dopo.

"Seraaaaaph!" Urla la signora, mettendosi in modo per venirci incontro. "Finaaaalmente! Ommioddioooo, la mia bambina è diventata così graaaaande!"

"Ciao, mamma." Risponde Serafina.

Sì, mi sono sbagliato: è tutto fin troppo reale. Anche le unghie del mio capo nella mia mano, mentre me la stritola. Maledetto signor Auburn.   




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