45. Chi ha ucciso Jessica Liang?

"Avevo appena compiuto dodici anni quando i miei cominciarono a insistere affinché mi sforzassi di essere più femminile. Ero al mio primo anno di scuola media ed era tutto un po' diverso dalle elementari. Tutti stavamo crescendo e le prime differenze si facevano notare, soprattutto fisicamente. Con mio grande orrore iniziò a crescermi il seno e per quanto io mi sforzassi di non notarlo era un chiodo fisso nella mia testa, la prova inconfutabile che qualcuno ai Piani Alti si era confuso e mi aveva dato il corpo sbagliato. Forse non sarebbe stato così brutto se i miei amici di infanzia non avessero avuto il radar per i seni in crescita e non avessero cominciato a considerarmi diverso."

"Diverso?"

"Una ragazza vera. Mi dicevano che non potevo giocare a certi giochi, che non era da signorine, che li avrei intralciati e basta. A me piacevano i giochi da ragazzi. Nella mia scuola non c'era una squadra femminile di calcio, perciò feci il provino per quella maschile, ma mi dissero subito che non potevo giocare perché mi chiamavo Jessica. Ero molto arrabbiato con me stesso in quel periodo. Odiavo il mio corpo, mi sentivo tradito. Sapevo già che il mio vero nome era e sarebbe sempre stato Jess e ogni volta che qualcuno lo negava era un colpo per la mia pazienza e la mia autostima. Fu in seconda media che iniziai a fasciarmi il seno. Certo, non ero di certo un mago a farlo sparire, tutt'altro, ma la fasciatura mi faceva sentire più uomo di un reggiseno. Era il mio modo di dire no alla mia femminilità."

Anthea accenna un sorriso, lievemente divertita. Sì, ora che lo racconto anche io lo trovo quasi spassoso. Gli anni della mia middle school non furono di certo i più terribili. 

"Però i miei scoprirono quello che combinavo. Non so se fu una mia insegnante a rivelare loro che usavo sempre pronomi maschili nei temi, quando parlavo di me stesso, o se fu mia sorella. Mia sorella e io non siamo mai andati d'accordo. Lei è sempre stata una tiranna, la principessa di casa a cui tutto era dovuto."

"Perché?"

"Odiava che fossi un maschiaccio."

"Per causa tua la vostra camera non poteva essere una tana per contessine diseredate?" 

Rido a bassa voce, di cuore. È la prima volta che mi diverto a raccontare del mio passato. Di solito è un tabù che puzza quasi di sacro. Ma ora non lo è. È quello che sto vivendo in questo momento a essere sacro. Un'esorcizzazione in piena regola. Di cosa? Delle mie paure.

"Più o meno. Fatto sta che i miei lo scoprirono e mio padre mi fece una ramanzina che non ho mai dimenticato. Mi disse di togliermi dalla testa le mie strane idee queer, perché la gente parla troppo e ben presto si sarebbe diffusa l'idea che io ero un po' troppo eccentrico, cosa che avrebbe messo in cattiva luce loro e mia sorella, sopratutto perché frequentavamo lo stesso istituto. Mi ricordò anche che ero una femmina, che il mio nome era Jessica e che se fosse capitato di nuovo che io mettessi in dubbio questo semplice fatto, ne avrei pagato la conseguenze."

Rimango un attimo in silenzio, mentre dentro di me per forse la centesima volta attendo che il bruciore di quel ricordo si stemperi in un timido fastidio.

"Non ho mai odiato tanto mio padre come in quel momento." Aggiungo, con una certa dolorosa indifferenza. 

"Per questo sei andato a vivere con tua nonna?"

"Quello successe anni dopo. Dopo il discorso di mio padre, io mi sentii ferito nel profondo e per la prima volta anche un po' disperato. All'epoca ero un ingenuo e pensavo che imponendo le mie scelte agli altri come se per loro dovessero essere la normalità sarebbe bastato. Ovviamente ero un illuso e anche un po' presuntuoso. Decisi che della mia vita potevo fare quello che volevo. Arrivato al primo anno di liceo, mi tagliai i capelli. Cortissimi. Più corti di come li ho ora."

"E i tuoi?" 

"Mio padre si incazzò come una belva, ma non poté fare niente per rimediare al mio errore se non minacciarmi di nuovo."

Anthea mi osserva piegando un poco la testa, le sopracciglia corrugate in un'espressione pensosa e corrucciata. Alla fine commenta, molto lentamente: "Ma non era lui il problema, vero?"

"No." Rispondo io, altrettanto piano. "Non erano i miei il problema. Anzi, mia madre cominciò a manifestare i primi tentativi di comunicare con me riguardo la mia eccentricità. Mia madre era buona. Era cresciuta con un fratello ultra democratico, un futuro premio Nobel per la pace. Non era spaventata da quello che stava succedendo e me lo disse anche. Mi disse: sarai in ogni caso mio figlio, che tu sia Jessica o Jess. Ovviamente litigava con mio padre sulla questione. Lo facevano al loro solito modo, in veranda dopo la mezzanotte, a bassissima voce. Litigavano perché lui diceva di avere due figlie e che nulla al mondo gli avrebbe fatto cambiare idea. Era sicuro che fosse una specie di trucchetto per richiedere attenzioni o una fase di ribellione. Che mi sarebbe passata. Io ero arrabbiato con mio padre, ma dovetti ben presto dargli atto di una cosa."

"Cosa?"

"Di essere stato lungimirante."

"Ah..." Anthea scioglie le gambe e si lascia cadere, sprofondando nel cuscino. "Per me si va nella città dolente..." 

"E non hai nemmeno idea di quanto tu abbia ragione. Iniziamo dalla considerazione che nel mio liceo era prevista la divisa e le ragazze dovevano indossare la gonna."

"Oh, no."

"Oh, sì." 

"Ti sei cucito un paio di pantaloni d'emergenza?"

Sorrido. "Magari avessi potuto. Purtroppo no. Ho indossato la gonna con mia grande vergogna, sfoggiando un look alquanto bizzarro: capello corto da immigrato cinese appena spidocchiato e gonna da educanda. Se ci penso, ho i brividi."

"Anche io." Ridacchia Anthea, girando la faccia contro il cuscino e soffocando la risata in modo buffo. 

"Credimi, non ero affatto a mio agio in quelle vesti, ma ero ancora convinto che la gente della mia età avrebbe capito. In fondo mio padre era vecchio e mia sorella una stronza. I miei coetanei sarebbero stati miei amici, pensavo."

"E invece no."

"Assolutamente. Anzi. Trovai più odio e disprezzo lì che in qualsiasi altro luogo. Prima presero in giro il mio strano look, poi capirono che non ero solo bizzarro esteriormente. Mi dicevano che ero un travestito e una ladyboy. A un certo punto quello divenne proprio il mio soprannome. Sai, per via degli occhi a mandorla."

"Che trogloditi."

"Ladyboy Liang. Già. Penso che me lo ricorderò per sempre."

"Trogloditi al quadrato."

"Però le cose subirono un tracollo anni dopo. Mi innamorai di una mia compagna di classe. Trisha, Tracy... non mi ricordo nemmeno come si chiamasse, ma so che ero perso per lei. Era anche lei cino-americana ed era gentile con me. Come le altre cercava di evitarmi, ma quantomeno non mi insultava. Mi innamorai di lei nello stesso periodo in cui mia madre scoprì di avere il cancro. Impegnato com'ero a immaginare la mia vita in compagnia di quella graziosa e anonima sconosciuta, non mi resi nemmeno conto di quanto mamma stesse male. Dovette dirmelo lei che era malata. Mi crollò il mondo addosso. Da quel momento in poi tutto non fece altro che peggiorare: i voti, le mie relazioni sociali, il rapporto con mio padre, la sua salute. Mio zio venne a controllare la situazione e per la prima volta parlai con lui del mio problema. Mi diede il numero di uno psicologo suo amico. Ci andai dopo un bel po', quando mamma venne ricoverata. Aveva un tumore al polmone e sarebbe stato curabile se non fosse stato metastatico. Venne ricoverata per l'ultima volta quattro mesi prima del mio diciottesimo compleanno e quando morì, poco dopo, con lei crollò anche tutta la mia famiglia. I conflitti con mio padre e mia sorella esplosero e dovetti trasferirmi da mia nonna. Mio padre si rifiutò di pagarmi l'università, perciò fui costretto ad aprire un mutuo scolastico e mentre studiavo facevo due, tre lavori saltuari per volta. Ti lascio immaginare le mie condizioni mentali. Non avevo nemmeno più i soldi per vedere lo psicologo."

Sposto lo sguardo su Anthea e lei non sorride. Mi fissa con gli occhi lucidi e lentamente tende una mano, posandola sul mio ginocchio. Non voglio che lei dica qualcosa, non ce n'è bisogno. Sarebbero solo frasi di circostanza, perché questo non è altro che il racconto di un passato. Sono trascorsi quasi diciotto anni, i ricordi cominciano lentamente a sfumare, com'è normale che sia. Posso esserne solo felice.

"Finale scontato: caddi in depressione. Appena laureato trovai un lavoro a New York mediante mio zio e mi ci trasferii subito. Avevo già smesso di parlare con mio padre, mi dispiacque solo lasciare mia nonna, ma ormai anche lei era sulla via per l'ospizio. Arrivato qui trovai un nuovo psicoterapeuta e iniziai a pensare a una terapia ormonale. Negli ultimi tre anni avevo maturato la consapevolezza di cos'ero e di cosa avrei voluto diventare. Sapevo che sarei stato meglio solo quando avessi preso una decisione. E alla fine lo feci. Seguito dallo psicologo e da un'endocrinologa, iniziai il mio percorso. Fu come nascere una seconda volta, ma nel corpo giusto. Ogni giorno monitoravo i mutamenti, ne ero ossessionato. Ruben e i miei altri amici furono fondamentali in questo stadio: senza di loro sarei totalmente impazzito. Ero ancora depresso e soffrivo di attacchi di panico, prendevo i farmaci che mi venivano prescritti, ma senza il loro sostegno probabilmente non ce l'avrei fatta. Divennero la mia famiglia, lo sono tuttora. Della mia vecchia famiglia rimane mio zio, che ogni tanto viene a trovarmi, mia nonna, a cui ogni tanto telefono, e questa."

Infilo una mano nel colletto della maglietta e tiro fuori la catenella a cui è appeso il cuoricino. Anthea si raddrizza e lo prende delicatamente tra le dita. Aggrotta la fronte mentre tenta di capire cosa ci sia scritto e quando ci riesce si rilassa, sorridendo.

"Lily?"

"Lily."

"Te l'ha regalata prima di morire?"

"Doveva essere il regalo per i miei diciotto anni."

Ci guardiamo negli occhi. Io mi sento stanco come se avessi corso la maratona e mi sento anche vuoto, ma non negativamente. Sono sollevato. Le ho raccontato tutto ciò che c'era da raccontare, tutto quello che sono stato e il motivo per cui ora sono. Se mi vorrà nonostante tutto, allora sarà una cosa completamente genuina.

"Sono felice che tu sia qui." Le dico, senza filtrare ciò che penso.

"Anche io lo sono."

Torna nella posizione di poco prima, seduta davanti a me. Tende le braccia, prendendo il mio viso. Mi fissa per un istante che potrebbe essere eterno e poi dice, molto lentamente: "Sei coraggioso. Sei testardo. Sei buono. Io sono orgogliosa di te."

Temo sempre i commenti che seguono racconti del genere, perché solitamente sono solo molto imbarazzati e imbarazzanti. Ma quello di Anthea non lo è. È intenso, sincero, schietto. Commosso. Sento il mio viso andare a fuoco, piano piano. Non sto arrossendo: è proprio calore, calore che si irradia ovunque. Non ho voglia di capire cosa sia, è piacevole e voglio godermelo: forse è semplicemente così che ci si sente quando si ha la prova di essere amati.

Chiudo gli occhi quando le nostre fronti si toccano. Poso le mani sulle sue e rimaniamo nella stessa posizione a respirare l'uno il respiro dell'altra. La amo. Amo la sua capacità di farmi sentire normale, di accettare tutto quello che ho vissuto. Amo che non tenti di smorzare il mio imbarazzo, che mi lasci rivivere i ricordi con il doveroso dolore. Amo che abbia rispetto del mio passato e della persona che ero.

"Jessica è morta anni fa." Sussurro. Lei solleva lentamente il viso e le labbra sfiorano le mie.

"Jessica non è mai esistita. Non sei l'assassino di Jessica. Sei semplicemente il liberatore di Jess." Bisbiglia in risposta, mentre le sue mani tirano il mio viso contro il suo. Per poco non le cado addosso, mi appoggio con una mano alla sua gamba e lei, per la prima volta, socchiude le labbra. 

Se fossi meno stanco, un bacio con la lingua - il primo bacio alla francese della mia vita! Improvviamente sono un liceale ai primi sbalzi ormonali - risveglierebbe sicuramente alcuni istinti primordiali, che il testosterone ha sicuramente acuito come ha fatto con la fame. Ma sono davvero esausto, tanto quanto Anthea. Dopo mezzo minuto di prova un po' goffa e un po' imbarazzata, si stacca ridendo, con una mano sulla bocca. 

"Sono certa di aver sbagliato qualcosa." Dice, quasi senza fiato. 

"È stata un'ispezione dentistica." Le rispondo io, cominciando a ridacchiare scemo.

"Beh, non è che tu sia andato meglio. Almeno io ci ho provato e non ho tenuto la lingua attaccata al palato tutto il tempo."

"Oh!"

All'improvviso sentiamo un cigolio sospetto. Ci giriamo entrambi verso la porta della mia camera. È il rumore che fa la porta di Ruben. 

"Bub deve essere tornato."

"Oddio. Speriamo non ci abbia sentito."

Guardo la sua faccia preoccupata e non posso fare a meno di ridere sottovoce. Ricevo un pugno sul braccio e subito dopo mi ritrovo tutta Anthea addosso.

"Dormiamo." Ordina.

"E quando mi racconterai tu la tua storia?"

"Quando non saranno le cinque del mattino."

"Promesso?"

"Promesso."

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