4. La vita è un gioco
Venerdì arriva in una ventata di caldo e afa e la giornata inizia male: al lavoro si rompe l'impianto di aria condizionata e Serafina urla al telefono contro quelli della manutenzione per quarantacinque minuti, facendomi venire un mal di testa epocale. Henry viene a nascondersi nel mio ufficio perché il suo è proprio di fianco a quello del capo e non riesce a lavorare. Mi sembra anche più triste del solito, ma quando gli chiedo se è successo qualcosa lui scuote la testa e tace.
"Come si sta comportando la nuova recluta?" Gli chiedo invece, dopo più di cinque minuti in cui ha fissato lo schermo del suo portatile sbattendo le palpebre tre volte in tutto.
"Bene. Miranda ne è contenta. È una persona... Sagace."
"Sagace?"
"Sì, sai. Fa battute, è simpatico. Lavora anche piuttosto bene. Così mi ha detto."
Una nota positiva in tutta la giornata: un giorno non troppo lontano dovrà lavorare con me e speravo di sentirmi dire queste cose al riguardo. Sorrido a Henry e gli picchietto una mano con indice e medio.
"Kirti?"
"Kirti?"
"Sì, Kirti. Come sta? Ci hai parlato stamattina?"
Lui mi fissa e il suo bel viso inglese lentamente si colora come un papavero. "Le... Le ho offerto il caffè stamattina."
"E?"
"E niente. Gliel'ho offerto e lei ha accettato."
"Avete parlato?"
"Più o... Meno."
"Cioè?"
Ora Henry sembra davvero a disagio. Mi pento di averlo messo alle strette in maniera poco rispettosa, così faccio per scusarmi, ma lui continua: "Mi ha chiesto come andava il lavoro e a casa. E io mi sono un po' impappinato e penso di non aver fatto bella figura rigirandole immediatamente la domanda riguardo la salute dei suoi cari."
"Henry, lo sa anche lei che è un argomento delicato."
Dal suo sguardo capisco che vorrebbe credermi con tutto il suo cuore, ma è talmente avvilito da non esserne capace. Ripenso a Kirti e al suo modo spiccio e prego che non sia per metà colpa sua l'attuale umor nero del ragazzo.
La mia giornata lavorativa trascorre così: tra silenzi, urla, cornette sbattute e tanta, tanta pazienza fino all'arrivo del tecnico che, si nota subito, ha paura di essere mangiato vivo. Tuttavia anche Serafina è stanca per tutto il nervoso che ha ingoiato e si limita a fargli presente tutti i problemi causati dall'impianto non funzionante. Comunque è troppo tardi: per me il fresco dell'aria condizionata tornerà lunedì.
"Mi tocca." Dico al mio capo, fermandomi sulla porta del suo ufficio con la mia tracolla in spalla. Lei alza gli occhi dall'articolo su cui sta tracciando secchi segnacci rossi e mi guarda, per un momento senza capire. Poi si ricorda e fa un sorriso che assomiglia più a un ghigno feroce.
"Buona fortuna, Jess."
Le faccio un cenno e sto per chiudere la porta, quando lei mi richiama di nuovo.
"Andrà tutto bene. Sii te stesso e basta." Mi dice e sorride. I suoi sorrisi sono tra i più belli del mondo, soprattutto quando, oltre alla ferocia, si nota anche dell'amore.
"Lo sarò. Promesso."
"E ricordati che è pur sempre una festa: cibo gratis."
Questa volta rido. Mi aspettavo un commento del genere da lei.
"Vuoi che ti porti qualcosa?"
"Ora di lunedì sarà tutto raffermo. È già tanto se riuscirai a portare a casa quel tuo coinquilino matto."
"Farò il possibile." Rispondo.
Scopro subito che la situazione a casa non è delle migliori. Ruben sembra di pessimo umore. Lo sento brontolare dal momento in cui apro la porta del nostro appartamento.
"Che hai?" Gli chiedo, affacciandomi nella sua camera.
"Niente."
Sta trafficando rabbiosamente con una camicia bianca davanti allo specchio del suo armadio. I suoi occhiali giacciono abbandonati sul letto. Devono essere rimbalzati almeno una volta prima di finire la loro corsa vicino al cuscino.
"Bub?"
"Ho detto che non ho niente."
"Hai per caso scritto a Tanya dicendo che vai a una festa?"
Lui rimane in silenzio. Come se non lo conoscessi.
"Hai scritto a Tanya." Sospiro, prendendo il suo silenzio come una conferma. "Tu sei scemo."
"Volevo solo sapere se aveva qualcosa da dire riguardo la mia uscita." Risponde lui risentito. "Cos'è, ora nemmeno le posso parlare?"
"Cosa ti ha risposto?"
"Che gliene frega poco."
"E cosa aspettavi che ti dicesse? No, ti prego, Bub, non andare, vieni da me piuttosto?"
"Non sarebbe stato male."
"Ma figurati! E a dire che la conosci più di me!"
Ruben non risponde. Piuttosto sbottona la camicia mettendo in mostra il suo scolpito fisico da salto sul divano - in questo periodo gli sta pericolosamente lievitando una pancetta mica male - e la riappende nell'armadio. Estrae invece un'orrenda camicia satinata nera. Il tipico capo d'abbigliamento dei trafficanti di droga latino-americani.
"Ma dobbiamo andare in un ritrovo di signori della mala?"
"Vai a cambiarti invece di star qui a farmi da stilista criticone."
So che quando è in queste condizioni è impossibile parlargli. Spera sempre che Tanya un giorno lo stupisca correndo in lacrime da lui e chiedendo perdono per tutto quello che si sono fatti e detti, ma è palese che lei lo farebbe solo se prendesse una botta in testa tanto forte da farle dimenticare chi è.
Me ne torno in camera mia. Io, a differenza di Ruben, ho già preparato i vestiti. Camicia bianca, jeans neri. Controllo che il cerotto non si veda e cerco l'orologio: questa serata sarà molto lunga, vorrò sempre sapere quanto manca alla fine della tortura. Quando sono pronto recupero dal comodino la scatolina di legno che uso come portagioie e ne estraggo la catenella d'argento che metto sempre nelle occasioni importanti. Ci sono incise due lettere: la J di Jess e la L di Lily, unite da un piccolo cuore. È un oggetto che potrebbe essere definito femminile, ma a me non importa. Non è mai stato importante. La allaccio al collo e penso alla persona che molti anni fa me ne ha fatto dono. So benissimo cosa mi direbbe in questo momento.
Jess, la vita è un gioco. All'inizio può essere difficile impararne le regole, ma poi tutto diventa facile e, soprattutto, divertente. È una gioia chiamata vita.
Mi direbbe questo e poi sorriderebbe, con la bocca e con i suoi vivaci occhi a mandorla.
"Mi sto impegnando, mamma. Giuro, è così." Sussurro a lei, ma più come rimprovero a me stesso. Prendo un lungo respiro e mi controllo allo specchio. Non sto male, ma ho già caldo. Apro i bottoni sui polsi e rigiro le maniche. Ecco, ora sembro anche casual.
"Carino." Commenta Ruben, che si sta ravvivando i ricci riempiendoli con la schiuma che usa per definirli e che gli ha consigliato la ragazza di Sam, che fa la parrucchiera.
"Mi piacerebbe dire la stessa cosa." Scherzo io, controllando che in salotto tutto sia tranquillo e che Honey sia già nella sua casetta piena di batuffoli di cotone. In realtà Ruben è grazioso, nonostante la camicia orripilante. Lo fa sembrare... Esotico. Rido quando vedo che si sta infilando le lenti a contatto.
"Ma che fai?"
"Le tipe non ti guardano se sembri un nerd patentato. The big bang Theory è tutta una gran cazzata." Proclama a gran voce, mentre si sistema la seconda. "Okay, ancora una spruzzata di profumo e sono pronto. Aggiungo il giusto quantitativo di feromoni."
"Ma..."
"Ti ricordo che tu di biologia non sai niente. Quindi taci."
In realtà so cosa sono i feromoni e so anche che Ruben non è né un tritone né una falena.
Lo aspetto sulla porta e quando finalmente ricompare ha attorno una nube di colonia maschile. Non gli dico niente: sarebbe inutile.
"Andiamo, dai." Mi mette addirittura fretta. Come se ce ne fosse bisogno: dato che non ci possiamo permettere un'automobile, andiamo in metro. E bisogna aspettare i suoi comodi.
"Miseria e povertà." Commenta infelice, fissando il pannello che segnala il tempo d'attesa. "Questo Paese non ha rispetto delle persone concrete e utili."
"Concreto e utile... Hai chiamato tua mamma?"
"Domani mattina. C'è tempo."
"Eh, sì. Così le viene l'ennesima crisi di panico perché pensa ti abbiano rapito... Chi ti doveva rapire?"
"Il Servizio Segreto Turco." Risponde lui, tutto soddisfatto. "Perché sono uno scienziato che a loro può tornare comodo."
"Nei loro peggiori incubi."
Mentre la locomotiva si ferma lentamente davanti a noi, Ruben si volta e mi guarda.
"Sei uno stronzo." Mi comunica, mortificato.
Salgo ridendo sulla metro. Sul nostro vagone ci sono solo un paio di adolescenti che chiacchierano con segretezza, un signore sovrappeso con un PC acceso sulle ginocchia e una gran tosse grassa e un tizio abbronzato che sorride smanettando con il cellulare. È facile trovare posto, anche se si vede che Ruben si sente osservato dalle due ragazzine.
"Mi trovano interessante." Nota tra sé e sorride. Io non direi la stessa cosa visto lo sguardo sarcastico che gli lanciano, ma d'altronde io sono stronzo. Controllo i messaggi, piuttosto. Sul gruppo del lavoro - che si chiama davvero Ciurma Celli e ha come avatar una foto di Goethe con la lingua sporgente e gli occhietti stralunati - si sta svolgendo la telecronaca della partita di football. Giocano i Giants contro i Redskins di Washington. Serafina scrive tutto in maiuscolo per esprimere la frustrazione della sua squadra del cuore e ha già inviato tre foto del suo cane, richieste a gran voce dal popolo. Martin, il suo storico avversario, risponde a colpi serrati con immagini dei suoi quattro gatti. Shelly, la collega di slavistica, mette tutti a tacere con Armando, l'iguana.
Vorrei tanto rispondere con una foto di Ruben, visto che tutti stanno mandando il proprio animale domestico.
Dobbiamo cambiare metro solo una volta e Upper East Side è ormai a un passo di distanza. Sento che si profila sempre più vicina, con le sue luci, i suoi palazzi e le sue feste. Una festa in particolare.
Quando finalmente scendiamo dalla metro ci troviamo nel centro incantato di una città che si sta risvegliando nel tramonto di giugno. Io sono nato in Michigan, in una città relativamente piccola, a volte più bosco che area urbana, ed è semplicemente impossibile definire come New York, a distanza di quasi sei anni, tuttora mi confonda. Ogni cosa è disegnata in maniera sproporzionatamente grande: gli edifici, i cartelloni pubblicitari, gli hotel, le strade con le loro chilometriche code di veicoli e taxi. Sto ancora a naso all'insù quando Ruben picchietta sul mio braccio e dice: "È quello là in fondo alla strada. Quello fatto tutto di vetro."
"Sono fatti tutti di vetro, Bub."
"Quello di vetro con le luci stroboscopiche allora."
In effetti, all'ultimo piano del palazzo indicatomi c'è un certo movimento di luci. Sono appena le otto e mezza ma la festa pare già iniziata da un pezzo.
"Sei certo che il signor Palmer si ricorderà di te?" Chiedo, non eccessivamente convinto, mentre entriamo nella lussuosa hall dell'edificio, dove un portiere alza appena gli occhi dallo schermo della TV dietro un vetro antiproiettile. Ruben chiama l'ascensore e risponde: "Chiaro."
"Che sì o che no?"
"Che sì, Biscotto della Fortuna."
L'ascensore arriva e io spero che lui abbia ragione, perché non ho alcuna voglia di essere sbattuto fuori da un omaccione della sicurezza. Saliamo in silenzio fino all'ultimo piano e quando le porte si aprono io mi aspetto di ritrovarmi davanti alle porte di una casa privata o nel mezzo di un appartamento. Non mi aspettavo di certo di mettere piede in una sorta di piccola stanza di vetro provvista di mega display e divani di pelle, aggettante sul più grande terrazzo che io abbia mai visto. A guardare la partita ci sono solo due buttafuori, uno dei quali si alza a chiedere il nostro nome. Non sembra particolarmente fiscale e gli basta sentire il cognome Kaloosh per essere soddisfatto e spuntarlo dalla lista. Ci lascia passare e finalmente la vera festa ci viene incontro.
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