39. (Dis)Harmony in famiglia

All'inizio di Clinton Street c'è una piccola gelateria gestita da un anziano signore di colore da cui spesso Ruben e io ci fermiamo. Porto lì Anthea, mentre la tengo per mano e tento di non pensare a cosa diavolo stia facendo il mio coinquilino imprevedibile. 

"Pensi che a Ruben abbia dato fastidio vedermi lì con te?" Mi domanda, mentre entriamo dall'ingresso, una porta sempre spalancata da cui esce un intenso aroma di vaniglia. 

"Ma no. Avrà avuto bisogno della casa per portare a termine una delle sue idee bislacche."

"Ci ha mandati via in fretta."

"Sì, ma fidati: non era arrabbiato."

Anthea non mi sembra affatto convinta, ma la distraggo indicandole un bancone bianco come marmo. "Mi stai davvero dicendo che non vuoi vedere la mia faccia quando prenderai i tuoi discutibili gusti?"

Si gira subito a guardarmi, una delle sue frecciatine ben incoccata sulla punta della lingua.

"Non preoccuparti: per non darti fastidio non ti darò nemmeno un bacio fino a stasera. Così sarai sicuro di non dover sentire i miei discutibili gusti."

Dopodiché mi lascia la mano e si avvicina cauta per leggere i gusti del gelato mentre il proprietario, seduto a fianco del banco su una sediolina da regista e intento a leggere un giornale con un paio di occhiali da vista inforcati sul naso, cerca di trattenere discretamente un sorriso. 

La inseguo. "Hey! Non ho detto questo!"

"Sicuro? Guarda che lo sto facendo per te. Ti piace la liquirizia?"

"Peggio della vaniglia." Rispondo sospettosamente. Anthea mi sorride e sorride anche al proprietario che si è avvicinato per servirla. 

"Allora liquirizia e menta."

"Ma come!"

Lei mi guarda e ride per la mia espressione scandalizzata. Il signore attende pazientemente e si attiva solo quando Anthea, gentilmente, gli chiede un cono vaniglia e menta. 

"E per lui un cono solo caffè." Aggiunge, mentre un pericoloso portafoglio color carta da zucchero si palesa tra le sue mani. Fortuna che mi sono preparato: poso sul piattino di porcellana a fianco del registratore di cassa le monete giuste.

"Mi spiace, signorina." Dice il proprietario, dopo averci servito. "Il suo fidanzato è stato più veloce."

Anthea si accorge delle monete e mi guarda storto, nello stesso momento in cui dà una leccatina al suo gelato.

"Ti ricordi?" Le domando io, dopo aver salutato l'uomo, uscendo dalla gelateria. "Avevamo deciso che io mi occupo di pagare tutti i gelati."

"Sai che questa cosa non mi torna?"

"Forse sei stanca e non rammenti, ma io sono certo di questo patto." Le prendo la mano, gliela alzo e gliela bacio. Anthea decide che è fiato sprecato continuare a darmi contro, perciò sospira e si concentra sul suo gelato. Troviamo una panchina sotto gli alberi della via e lì ci sediamo. Continuo a pensare a quello che potrebbe star facendo Ruben e ormai ho un paio di sospetti al riguardo, ma non voglio esprimermi. Chiedo piuttosto ad Anthea com'è andato l'esame e se è pronta per laurearsi.

"Ci siamo quasi." Mi dice sorridendo, con le labbra sporche di vaniglia. "Ho già iniziato a scrivere la tesi."

"E dopo?" Le domando.

"E dopo... e dopo dipenderà tutto da mio padre."

"Come mai?"

Lei fa un giro completo del cono con la lingua prima di rispondermi. "Ha sempre posto relativamente poca fiducia in questa laurea."

"Hai paura che non ti paghi la magistrale?"

"Se me la pagherà, sarà solo una M.A.T. Sempre alla Rutgers."

Una M.A.T. è una Master of Arts in Teaching, una laurea magistrale per abilitare all'insegnamento. Anche se non abbiamo mai parlato delle sue aspirazioni lavorative, so per certo che insegnare non rientra tra queste. Lo si nota dall'espressione di delusione dipinta sul suo viso, mentre morde il gelato prima di pentirsene amaramente e toccarsi la fronte con la mano libera.

"Fitta?"

"Già..."

"Perché tuo padre non vuole farti fare un dottorato? O una M.A. vera e propria?"

Glielo domando perché mi interessa sinceramente. Perché la sua delusione è anche la mia. Non riesco a pensare che un genitore non possa essere più che felice di avere una figlia come questa: non sta di certo sprecando i suoi soldi e ha davanti a sé un gran bel futuro nel campo che ha scelto. Non trovo una motivazione più convincente che un problema di soldi. 

"Perché pensa che sia denaro sprecato." Risponde lei. "Non ha mai approvato questa laurea, è capitolato solo quando ha capito che Alec non sarebbe mai stato in grado di andare all'università."

Non abbiamo mai parlato tanto della sua famiglia e molte informazioni mi sfuggono. Ricordo che Alec è l'unico fratello vero e proprio che ha e che possiede almeno tre fratellastri maggiori. Vorrei farle mille domande, ma so che sarebbe sbagliato. Estremamente sbagliato. Rimango sull'argomento università, l'unico che mi sento di affrontare al momento.

"Quindi non vuole sborsare altro per una laurea in cui non crede?"

"Esatto. E non importa che per Kerry abbia speso migliaia di dollari: la sua era una laurea seria in un'università privata."

"Kerry?"

Sì, mi sono ripromesso di non far domande dirette, però non conosco i nomi. Anthea smette di leccare il gelato e mi guarda confusa. Poi si ricorda e accenna un sorriso. 

"Scusa. Kerry è la mia sorellastra più grande."

Le sorrido. "Ora è tutto molto più chiaro."

"Perdonami. A volte mi sembra di conoscerti da una vita e do per scontate delle cose."

Ci guardiamo e mentre lo faccio penso che in fondo posso farmi piacere sia la vaniglia sia la menta. Mi sporgo verso di lei e la bacio. Al diavolo tutto, quando meno me lo aspetto Anthea mi regala delle emozioni incredibili. Se questo è l'amore, temo proprio che non potrò più farne a meno, anche se sa di gusti di gelato che non mi piacciono.

Alla stessa cosa deve pensare lei, perché dopo qualche secondo mi allontana e si mette a ridacchiare.

"Pensavo avresti davvero aspettato."

"Pazza. Non sono così masochista."

Infila in braccio sotto il mio, intreccia la mia mano alla sua. 

"No. Neanche io." Risponde. 

"In cosa si è laureata tua sorella?"

"Economia, ovviamente. L'unica laurea che mio padre considera degna. Ci puoi fare in soldi con quella, puoi essere assunta nella sua azienda."

No. Non è un problema di soldi. 

"E i tuoi altri fratellastri? Loro non hanno una laurea in economia?"

"Brighton ci ha provato per parecchi anni, ma preferiva fare la vita del college che studiare. Sadie ha cambiato idea almeno settanta volte e intanto si è sposata e ha avuto un figlio. No, niente laurea in economia."

Kerry, Brighton e Sadie. Finalmente posso dare dei nomi a quelle figure ectoplasmatiche che popolano la vita quotidiana di Anthea. Capisco subito che non deve avere chissà quale bel rapporto con loro, ma non mi stupisco, date le informazioni sul padre. 

"E Alec?"

Il suo sguardo si modifica immediatamente: diviene meno intenso ma sfuma in malinconia. 

"Alec lavora. Per un vivaio specializzato in fiori per funerali e cimiteri."

Questa non me l'aspettavo: è decisamente un lavoro particolare, anche se in realtà non è niente di eccessivamente inquietante. Sono solo fiori, in fondo. Che vadano a finire in una corona funebre o nelle decorazioni centrotavola per un matrimonio, cambia poco.

"Beh..." Sorrido. "Fiori. Sicuramente gli piace."

"Gli piace molto. Non sarebbe mai stato in grado di lavorare con mio padre, anche se lui probabilmente avrebbe fatto di tutto per convincerlo. Ma..." Sembra che voglia aggiungere qualcosa, ma il ma rimane sospeso nell'aria, dimenticato, perché gli occhi di Anthea si spengono mentre si perdono a osservare la strada davanti a noi. Quando torna in sé, qualche secondo dopo, non prosegue la frase. "Comunque sto cercando di convincere mio padre, davvero. Non voglio una M.A.T. Non so cosa farci, non mi piace insegnare, soprattutto non in un liceo."

"Hai mai pensato di trasferirti alla NYU?"

"Privata, Jess. Non mi pagherebbe mai una privata."

"Ma per tua sorella lo ha fatto."

"Io non valgo neanche la metà di Kerry."

Con questa frase il discorso si conclude. Rimaniamo in silenzio per un bel po' di tempo, sufficiente per permettermi di finire il gelato, buttare il tovagliolo e tornare a sedermi al suo fianco.

"Che ne dici se andiamo a fare un giro? C'è un piccolo parco pubblico qui vicino." Le propongo, quando non sopporto più la quiete. Lei accenna un sorriso, si alza, mi prende per mano e mi segue. Non parliamo molto mentre passeggiamo, ma va bene così. So di essermi arrischiato in un territorio molto pericoloso, sono contento di sapere qualcosa in più di lei. Ma è meglio un passo alla volta, piano piano. Io non le ho ancora raccontato niente: abbiamo preferito conoscerci per quello che siamo ora, nel presente. Quando saremo più sicuri, inizieremo a ricordare il passato. Mentre cammino penso al fatto che Anthea si sta lentamente trasformando nella mia ragazza. Non avrei mai pensato che mi sarebbe capitata questa strabiliante metamorfosi nella vita. Sono grato di quello che ho, anche se passeggia al mio fianco in silenzio, persa nei suoi pensieri. So che il problema non sono io: me lo fa capire stringendo la mia mano, accarezzandola con le dita.

Solo quando il cielo inizia a imbrunire, decido che sia tempo di tornare, qualsiasi cosa stia facendo Ruben. Anthea è stanca: sbadiglia di frequente ed è proprio spenta. Le do un colpetto sulla spalla, mentre la stringo a me.

"Torniamo? Devo anche cucinare."

"A me va bene anche prendere una pizza." Sorride lei, con la lingua tra i denti e gli occhi socchiusi.

"Una pizza? No, non ci penso neanche. Guarda che sono abbastanza bravo a cucinare."

"Non ne dubito, ma se non ne hai voglia..."

"Cucinare per te è la mia massima ispirazione."

Sono contento di sentirla ridere, anche se si copre il viso con le mani e si gira verso di me per premere la fronte contro il mio petto. Sembriamo quasi brilli, mentre ridiamo e camminiamo in maniera un po' strana.

"Frase uscita da un libro Harmony." Dice, nascondendo un sorriso.

"Un Harmony di pessima categoria."

"Quindi cosa hai intenzione di cucinare, Gabriel?"

"Gabriel!?"

"Nome molto Harmony!" Anthea questa volta fatica a parlare, lo fa tra le risatine. "Quando andavo alle medie erano libretti trasgressivi perché c'era sempre una qualche scena d'amore. Una mia compagna, Libby Raynolds, ne rubava uno alla settimana dalla casa di sua nonna, che aveva una grande collezione. Li portava a scuola e li leggevamo durante gli intervalli. Il mio preferito era un certo Gabriel l'Immortale."  Mi lancia uno sguardo, cercando di capire la mia reazione. Posso fare solo una cosa: ridere. Ridere davvero, immaginandomi l'assurdità della situazione, per le ragazzine delle medie con in mano un Harmony o per la stessa Anthea intenta a leggerne uno. Perché questa ragazza mi stupisce con ogni parola che dice? Sono stupito da quanto la mia idea di lei sia diventata meno irreale e più concreta con il tempo. Quando l'ho conosciuta non mi sembrava nemmeno umana tanto pareva distante e impalpabile e invece eccola qui ora, a parlare delle sue prime scoperte del sesso tramite libri scontati da terza età femminile. 

"Non sapevo ti piacesse il genere!"

"Ero curiosa! Siamo tutti curiosi verso determinate cose!"

"Ammetto che gli Harmony sono un tocco di classe."

"Ancora più di classe la punizione dataci dalla nostra insegnante di inglese."

"Ah, alla fine vi hanno beccato?"

"Colpa di un'invidiosa a cui non piacevano gli Harmony."

Scuoto la testa, mentre cerco la chiave di casa e la infilo nella toppa. Apro e invito Anthea a precedermi. Saliamo assieme le scale, illuminate dagli ultimi raggi di sole. Arriviamo alla porta dell'appartamento e avverto quasi subito un profumo familiare filtrare da sotto la porta. 

Anche Anthea deve essersi accorta di qualcosa, perché la sento annusare l'aria. Apro, curioso di scoprire cosa diavolo ha ideato Ruben. Da una parte non mi stupisco quando una zaffata d'aromi poco occidentali mi investe, dall'altra invece stupito lo sono eccome, soprattutto quando davanti a noi, sporto dall'ingresso della cucina, spunta il mio coinquilino sorridente, vagamente sudato e munito di grembiule.

"Era ora! Ma dove siete stati fino a ora? Rischia che si raffreddi tutto!" Esclama, facendoci larghi gesti per invitarci a entrare. Io guardo Anthea e lei ricambia il mio sguardo. Poi si apre in un sorriso e mi supera. Ruben mi fa un occhiolino e mi lascia lì, basito e grato, sulla porta di casa.  

 

 

 

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