37. Arrivo al cardiopalma

Non ho avuto il coraggio di raccontare a Ruben tutti i miei sospetti. Non consideratemi bugiardo: ho solo omesso alcuni particolari, particolari che in fondo sono solo ipotesi campate per aria a causa della battuta di un barista. Gli ho detto che Tanya ce l'ha con cui per qualche motivo, gli ho parlato del cosiddetto danno e ho visto una briciola di panico scatenarsi dietro i suoi occhiali. 

"Danno? In che senso? Cosa vuol dire?"

Io mi sono stretto nelle spalle, nel tentativo di impedire a me stesso di immaginarmi con la scritta Incinta marchiata in fronte. 

"Non ne ho idea, Bub. Comunque ha detto che dovresti parlarle tu, anche perché abitate a due laboratori di distanza."

"La fa facile lei." Ha brontolato il mio amico, affondando la faccia nella sua insalata di riso e chiudendosi in un cupo silenzio. Sicuramente Sam, tornati al lavoro, l'ha tirato su di morale, perché questa mattina l'ho visto uscire dalla sua stanza abbastanza attivo. 

Oggi è il gran giorno. Oggi arriva Anthea. 

Mi sono alzato verso le sei, anche se non devo andare al lavoro e lei arriverà nel pomeriggio, perché devo rendere presentabile la casa. Normalmente non viviamo in un porcile - più che altro grazie a me ed è inutile nasconderlo - ma ora i miei occhi si posano su qualsiasi cosa fuori posto, che sia un libro storto nella libreria del salotto o un pizzico di polvere elettrostatica sulla TV. Mi infilo una canottiera nera, un paio di calzoncini e pattino con i soli calzini passando l'aspirapolvere, per non lasciare impronte. Ovviamente quell'orso di Ruben si sporge dalla cucina per vedere cosa sto facendo, dal momento che sono le nove e io sto già facendo i mestieri, spargendo briciole di biscotto ovunque.

"Che fai?" Domanda, masticando come un castoro delle pubblicità. Se i miei sguardi potessero incenerire, di Ruben rimarrebbe solo un mazzetto di peli ricci e un paio di boxer a stelle e strisce.

"Prima di tutto, fammi il favore di tenere il tuo lerciume nei confini della tua camera." Lo apostrofo spazientito. "Quindi evita di sbriciolare in giro."

"Wo, stai calmo." Ribatte lui, sufficientemente preso di sorpresa da infilarsi in bocca il resto del frollino per fermare la caduta libera di carboidrati sul parquet appena pulito. "Quindi? Che fai?"

"A te cosa sembra?"

"Rompere i coglioni ai vicini alle nove del mattino."

"Alle quattro arriva Anthea."

"Sì. Lo so. Quindi?"

"Quindi vorrei evitare che lei vedesse la casa in disordine!"

"Jess." Ribatte lui, con un sorriso che mi dà immediatamente sui nervi. "Lo sai che anche le femmine mangiano, si sporcano, puzzano e cag..."

"Grazie, Kaloosh, lo so perfettamente." Lo interrompo sprezzante. "Ma sai, ci stiamo frequentando, ci stiamo conoscendo, vorrei davvero tanto che lei avesse la miglior opinione possibile di me, il che comprende tutti i campi, anche quello della pulizia. Lo so che per un animale come te non è una cosa così immediata da capire..."

"Hey!"

"... E per questo non ti ho chiesto di aiutarmi a pulire ma, per l'amor del cielo, cerca di tenere puliti almeno per due giorni gli spazi comuni. Grazie."

Ricomincio a passare l'aspirapolvere, pur sentendo lo sguardo di Ruben piantato tra capo e collo. Resisto fino alla fine del corridoio prima di insultarlo, ma quando faccio per aprire la bocca, lui mi anticipa con un: "Comunque lo sai cosa sembri con quella canottiera?"

"Vaffanculo."

"Oh! Perché?"

"Anticipo la cazzata che dirai. In via precauzionale."

"Beh, volevo solo dire che sembri uno della Triade cinese. Cioè, sembri davvero uno di quei cinesi super loschi dei film di Steven Seagal. Ti manca solo il puzzo di fritto e lo stuzzicadenti in bocca."

Lo fisso. Lui mi fissa. Decide quasi subito di battere in ritirata. 

"Vado a fare la spesa."

"Sarà meglio."

***

Con la casa tirata a lucido, una Honey felice e iperattiva che passeggia orgogliosa sul suo nuovo lettuccio di fieno e Ruben chiuso in punizione nella sua stanza, mi avvio verso la stazione. Ho sistemato anche me stesso, infilandomi nel completo più elegante che ho. Forse i lunghi pantaloni neri e la camicia bianca in estate inoltrata non sono una mossa geniale, ma voglio essere perfetto. Sento di essere sul punto di perdere il controllo a causa dall'emozione. Urlerei per dissipare un po' di tutta l'ansia che ho in corpo, ma sembrerei uscito di testa, quindi mi contengo e mi limito a comprare dei fiori poco distante dalla Stazione di Pennsylvania. Controllo l'ora: mancano dieci minuti all'arrivo del treno 7844 della tratta Northeast Corridor. Prendo fiato mentre osservo i fiori. Non so davvero cosa comprarle: rose, gigli, margherite? Cerco di concentrarmi su quello che so di lei, dei suoi gusti e delle sue preferenze. Anthea, fiore. Anthea che ama i fiori, le piante, gli animali, il mondo. Ho come un'illuminazione mentre guardo alcune dalie. Sì, forse ci sono. Scelgo, compro e pago. Mi dirigo verso la stazione, che è sotterranea e si trova sotto la Pennsylvania Plaza. Non è male come posto, anche se si trova completamente sottoterra: ha una hall grande e illuminata, con curiose colonne azzurrognole illuminate da un'aureola di piccole luci. Controllo i treni partiti da Trenton e mi dirigo al binario giusto. 

Ho il cuore in gola, le braccia che formicolano e un senso di irrealtà in testa, come se non mi trovassi davvero a Penn Station in attesa di quella che comincio a considerare la mia ragazza, la quale vivrà con me per qualche giorno. 

Una ragazza. Con cui ho una relazione. In casa mia. 

A volte capita, soprattutto con le cose belle: le vivi una volta, poi ti allontani da loro per qualche tempo e quando sai che tornerai a riaverle, è come se avessi paura di non meritarle più. Non mi sembra vero di star attendendo Anthea e soprattutto sono terrorizzato anche da un altro pensiero: potrebbe venire a New York solo per dirmi che è meglio se non ci vediamo più. Potrebbe anche starci, come idea. Magari ha riflettuto su di noi, magari ci ha pensato in treno. È una persona così corretta che potrebbe fare un viaggio fino a qui solo per dirmi in faccia che non siamo fatti per stare assieme. 

Mi siedo su una panchina, mancano tre minuti. Il ritmo del cuore sta diventando insostenibile. Potrebbe scoppiarmi dal petto? Ma la vera domanda è: sarei capace di accettare un rifiuto da parte sua con dignità? È la prima grande perturbazione nella mia vita: sarei in grado di riportare tutto a come vivevo un paio di mesi fa, quando non avevo mai baciato una ragazza e Anthea non era che una sconosciuta del New Jersey? Mi guardo contrito le scarpe e penso che è vero che è più facile vivere senza conoscere la felicità, che continuare a farlo dopo averla conosciuta e persa.  

Mi rendo conto di essere partito per la tangente solo quando l'altoparlante avvisa l'arrivo del treno e mi salva dalla caduta libera nel baratro dei miei pensieri neri. Scatto in piedi, per poco non faccio cadere il suo regalo e mi pianto per bene sulla banchina, in cui ci sono parecchie altre persone in attesa. Il treno rallenta e le carrozze iniziano a sfilarmi davanti. Una, due, tre. Anthea mi ha detto di trovarsi sulla quarta. La vedo passare, così la inseguo, cercando di concentrarmi sul primo sportello. 

Il tempo si dilata fino a darmi l'idea che i secondi siano ore ma, alla fine, il treno si ferma con un ultimo dolorante cigolio. Le porte si aprono quasi subito, con un sibilo arrabbiato, e una quantità incredibile di persone viene vomitata sulla banchina. Per poco non vengo investito da una signora grassa in uno sgargiante abito a fiori che non prevede ostacoli nell'abbraccio tra sé stessa e quella che temo sia sua figlia, evito con un passo di danza una banda di adolescenti in corsa e cerco di individuare l'unica persona che mi interessa in mezzo alla bolgia. Non la vedo. Il cuore arriva a pulsarmi nelle tempie, odo il mio stesso battito. So che sto sudando tutta la mia paura e che a breve comincerò ad avere un cattivo odore, ma non posso farci molto. Sono troppo nervoso. 

Fortunatamente la folla defluisce velocemente nel sottopasso e posso finalmente vedere Anthea. Sì, è lei: la riconosco dal modo di camminare e dalle lentiggini. Ha i capelli sciolti, gli occhiali da sole, un paio di pantaloncini bianchi e una maglietta azzurra. È così bella che potrei morire qui, seduta stante. E per un secondo mi sento davvero morire o meglio svenire per la gioia: ha con sé una valigia. Una valigia. Vuol dire che ha intenzione di fermarsi, vero? Se fosse venuta a New York solo per mollarmi non si sarebbe portata un trolley. Penso che come tesi possa essere valida. Lo spero.

Anche lei mi vede. Si ferma a due passi di distanza da me, posa la valigia e alza gli occhiali tra i capelli. Mi guarda, io guardo lei. C'è un istante che sembra eterno, in cui sono certo di aver avuto il tempo di morire e rinascere almeno tre volte. Non so cosa dire, non so cosa fare, mi stringo contro il suo regalo come se fosse un peluche e prego che Anthea sia ancora Anthea. Che pensieri stupidi che mi vengono in mente quando sto iperventilando. 

All'improvviso accade. Nella frazione di un secondo Anthea scatta in avanti nel momento stesso in cui un sorriso si allarga sul suo bel viso. Prima che possa anche solo recepire quello che sta succedendo, me la ritrovo tra le braccia. Fa scivolare le sue attorno al mio busto, si infila tra le mie che ancora sorreggono il suo regalo e mi abbraccia, posando la testa alla mia spalla. 

Provo un immediato, urgente desiderio di farmi del male. Sono uno scemo, stronzo per giunta. Dubito sempre delle persone, anche di quelle più innocenti. Non do loro la fiducia che meriterebbero e in questo modo le offendo. Stringo Anthea e intanto penso al fatto che non mi merito il suo affetto. Fortunatamente lei non mi legge nel pensiero - o forse sì, perché di sicuro nota quanto io sia rigido - e per sciogliere la tensione usa la sua personale, potentissima magia: allunga le braccia verso il mio viso, intreccia le mani tra i miei capelli e mi bacia. Immediatamente dimentico paturnie e piagnistei: Anthea è tornata. È tornata da me.

È la prima volta nella mia vita in cui sento la vera urgenza del bacio. La stringo con il mio ingombrante regalo incastrato tra le mani e sento che lei si appiattisce contro il mio petto. Normalmente inizierebbe a suonare un allarme nel mio cervello, ma non questa volta. L'unico imperativo che ora la mia sciocca mente lancia è: rendila di nuovo reale. Velocemente e voracemente mi riapproprio del suo profumo di gelsomino e vaniglia, della delicatezza della sua pelle, del suo calore naturale e dei molti particolari del suo viso, dalle lentiggini al colore così strano degli occhi, un pervinca che oggi è più vivo che mai. Quando si stacca da me per riprendere fiato, la prima cosa che fa è ridere. Anche di questo faccio tesoro.

"Scusa! È che..." Dice, tra un respiro e l'altro. "... che mi sei mancato e non sapevo come dirtelo a parole."

Sì, questa è sempre Anthea. L'Anthea che ho conosciuto un mese fa. Sono davvero uno stupido per aver anche solo pensato che lei potesse cambiare nel giro di un paio di settimane. Anthea è così. Meravigliosamente così. 

Così come io ho evidentemente un problema mentale, perché al posto di rispondere a parole, passo il regalo nella mano sinistra che libero dall'abbraccio e lo infilo tra noi due, mettendoglielo proprio sotto gli occhi. Anthea fa una faccia sbalordita, mi guarda e subito dopo si rimette a ridere. 

Forse è solo questo: forse voglio solo sentire quello splendido suono, il più bello di tutti, evocato dallo strumento migliore del mondo. 

"Tu sei matto!" Esclama, ridendo felice come una bambina, prima di afferrare il vaso in cui si trova piantata un'orchidea fiorita di piccoli boccioli rosa e un solo fiore aperto, bianco punteggiato di fucsia. 

"Non potevo prenderti un fiore reciso." Dico, quando finalmente la mia lingua decide che è il momento giusto. "Così ti ho comprato qualcosa di vivo."

"Mi conosce fin troppo bene, signor Liang." Ribatte lei, stringendosi il vaso al petto. 

Forse è vero. Forse no. Fatto sta che ci ho preso e ne sono felice. 

Anthea è qui. Anthea è di nuovo a New York. 


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