3. Gloria di Sax

L'Old Man Glory si presenta tranquillo stasera. Pochi clienti sussurrano tra loro seduti sugli alti sgabelli al bancone o appartati ai tavolini rotondi dispersi attorno alla piattaforma rialzata che funge da palco. Le luci sono basse. Ogni cosa è cosparsa di quel brillante alone di aspettativa tranquilla del pre-esibizione.

Ho smesso di essere nervoso da molto tempo, ma l'aria di positiva tensione che si respira è sempre emozionante. Stephanie e io stiamo aspettando che Benjamin si liberi dai suoi impegni: i fornitori non lo lasciano mai stare. Intanto lei gioca con il suo basco rosso, tortura la linguetta di tessuto soprastante.

Stephanie Aldobrando è la mia compagna di avventure in questo locale notturno: suoniamo assieme due volte a settimana, io il violoncello, lei il sassofono. Ha ventun anni, fuma come una ciminiera, parla poco e veste in modo alternativo. È scappata di casa a quindici anni. L'hanno ripresa. L'ha rifatto l'anno dopo. Al momento vive sola con due coinquiline e suona, suona, suona.

"Comunque ho parlato con quel tale." Mi dice a un certo punto con la sua voce roca, da fumatrice incallita. "Forse mi prendono."

Tre mesi fa Stephanie è stata contattata da una sorta di talent scout che si è innamorato della sua musica e del suo stile - rabbioso, intenso, emozionante! - e l'ha convinta a fare un provino per uno show televisivo musicale. E, incrociando le dita...

"È una gran bella notizia, Steph." Le rispondo sinceramente, girandomi a guardarla. Sembra molto più vecchia di quello che è con i capelli color platino e il trucco pesante attorno a stanchi occhi azzurri. Indossa un esemplare della sua collezione di magliette dark vintage: raffigura una sorridente madre di famiglia zombie intenta a sminuzzare il cadavere del marito.

"Già." È asciutta ma sorridente. "I provini iniziano venerdì."

Il sorriso che sto iniziando a formare si evolve in una smorfia di disappunto tanto evidente che Stephanie la nota e aggrotta le sopracciglia. "Che c'è?"

"Succederanno un sacco di cose venerdì."

"Tipo?"

"Ruben mi costringe ad andare con lui."

"Condoglianze."

Ruben e Stephanie si conoscono grazie a una serata al locale finita piuttosto male - per Ruben. Stephanie non lo tollera da quel momento.

"Una festa a Manhattan."

"Dove?"

"A casa di un tizio ricco che deve un favore a Bub."

"E non ci suoni?"

"Eh, no."

"Bella merda."

"Non ho scelta." spiego sconsolato "Ho bruciato tutte le scuse. Questa volta mi tocca andare con lui."

"Andare dove?"

Benjamin compare dalla porta dietro il bancone con la sua solita espressione stanca e sorridente. Deve aver appena messo a letto - dopo una lunga guerra fatta di preghiere, promesse e capricci - la sua bimba cinquenne, Stella. Benjamin è inglese ma ha genitori irlandesi emigrati in Cornovaglia. Li ho conosciuti: sono una coppia singolare. Lei è muta - nel vero senso della parola - e lui è un burbero orso. Hanno lavorato per una vita per un'eccentrica signora inglese e hanno permesso a Benjamin e al suo fratello maggiore Killian di emigrare a loro volta.

Il signor Kelly è l'orgoglioso proprietario dell'Old Man Glory.

"A una festa. Con Ruben."

"Beh. Che c'è di male?"

"Che io odio le feste."

"Da quando non vai a una?"

"Questo interrogatorio comincia a non piacermi più."

Benjamin ride con il vocione che ha ereditato da suo padre, nonostante entrambi siano uomini più bassi e piccini rispetto alla media. Io stesso lo supero di mezza spanna. La barba che ultimamente si sta facendo crescere non aiuta.

"Dov'è questa festa?"

"Upper East Side. Casa di ricchi."

"Cosa ti lamenti, allora?"

"Guarda che quello zotico di Ruben se lo porta dietro solo per rimorchiare in santa pace. Terrà semplicemente il moccolo." Dichiara Stephanie, risentita. Cara, buona Stephanie. Non hai nemmeno idea di quanta ragione tu abbia.

Ben la liquida con un cenno della mano. "Sciocchezze."

"Sciocchezze un cazzo."

"Stephanie, ti prego."

Ben ha un'idea molto chiara sulle parolacce: retaggio di quanto insegnato dalla signora Kelly. A volte il suo linguaggio dei segni appare più chiaro e severo di qualunque rimprovero. Non ho mai sentito uscire dalla bocca di Benjamin una parola più sporca di accidenti.

La mia collega accenna un sorriso velato sotto le sue labbra tinte di rosso e si alza, si stira e alla fine arrovescia le braccia sui fianchi.

"L'ora è propizia. Jess. Andiamo."

Sospiro e sorrido a Ben. Lui mi fa cenno di andare, mentre si cala nella parte di proprietario barman e chiama Farah, la cameriera, per chiederle se tutti i clienti hanno già ordinato. Seguo Stephanie e recuperiamo i nostri strumenti, entrambi in ingombranti custodie nere. Mentre estraggo il mio violoncello e il suo archetto, Stephanie mi guarda e commenta: "Voglio che sia una serata frizzante. Quindi vedi di pizzicare quelle corde."

"Non inizi a festeggiare venerdì?"

"Venerdì non ci sarai per festeggiare."

Ha ragione, per quanto la cosa mi urti.

Quando saliamo sulla piattaforma illuminata il timido pubblico di prima serata comincia a risvegliarsi. Qualcuno accenna addirittura un appaluso. Osservo i volti dei presenti e noto solo facce conosciute. Meglio così. Mi siedo sul mio sgabello, aspetto che Stephanie sia pronta con il suo sax. Nel mentre faccio tabula rasa dei miei pensieri e delle mie preoccupazioni: quando suono devo essere perfettamente lucido.

"Pronti." afferma all'improvviso. Attacca immediatamente a suonare, senza dirmi con cosa. Riconosco dalle prime note uno dei suoi brani jazz preferiti. È sempre così con Stephanie: o la si conosce o si può solo mangiare la sua polvere. Mi ha chiesto il pizzicato? E il pizzicato avrà. Mi sento uno di quei gatti del jazz degli Aristogatti. Per questo, in effetti, Ben ci chiama Jazz Cats.

Forse solo Stephanie può capire cosa significhi la musica - e il mio strumento - per me stesso. Diverso percorso, ma pur sempre medesimo risultato. Poche cose sono rimaste così costanti nella mia vita fin da piccolo. C'è qualcosa di magico nel modo in cui un minuscolo pizzico dia la giusta vibrazione per generare il suono perfetto, il primo gradino per una scala che porta direttamente al Cielo. La musica è la mia religione. È quel qualcosa che è stato in grado di impedirmi di cadere nelle azioni dei miei pensieri più cupi; è qualcosa in grado di mettermi in contatto con coloro che più non sono.

Il violoncello è stato uno degli ultimi regali di mia madre. Le sono grato per avermi dato la vita due volte.

Il pubblico conosce le regole: non si applaude e non si disturba fino alla fine della prima parte. Siamo artisti, non intrattenimento di sottofondo è la tipica frase di Stephanie quando mangia la testa a un cliente nuovo che ingenuamente pensa di poter scoppiare a ridere o urlare l'ordine al barista. In realtà non accade spesso: quando ho detto che un talent scout vuole a tutti i costi annoverare Steph tra le sue scoperte, intendevo per davvero. Ha le sue buone ragioni per ritenerla una grande scoperta: è praticamente impossibile distrarsi sentendo la musica che vibra dal suo strumento. Il sax è un prolungamento della sua anima; probabilmente quello attraverso cui sfoga le sue delusioni e frustrazioni. In effetti la musica di Stephanie ha qualcosa di aggressivo, graffiante e sconcertatamente malinconico. È una rabbia nostalgica quella della mia amica. Quando le ho chiesto perché, la risposta è stata: "Per tutto quello che ho perso e tutto quello che un giorno perderò".

Mentre pizzico le corde e avverto la sua tristezza mi chiedo per l'ennesima volta che cosa intenda per quello che ha perso. So così poche cose di lei: solo quelle relative alle fughe da casa e alla attuale situazione abitativa. Per il resto, Stephanie è uno scrigno chiuso a chiave zeppo di segreti. Ma va bene così. Ognuno ha i propri peccati e dolori, i propri fantasmi e ricordi. Io stesso ne possiedo un numero discreto, per questo rispetto il suo silenzio.

Non ho altro tempo per riflettere: la mia collega inanella una canzone dietro l'altra, componendo il suo personale gioiello artistico. È difficile ma incredibile starle dietro, cercando di capire il perché della scelta di quella particolare musica. In una sera è in grado di suonare la traccia blues più malinconica e trasformarla, con un repentino ma fluidissimo cambio di ritmo, in un pezzo jazz che profuma dei ruggenti Anni Venti.  

Poi, a un suo cenno, riprendo l'archetto e il suo sax tace. È il mio momento. Il mio momento da solista.

Il crine sfiora appena le corde e le prime note della Lacrimosa di Mozart s'intrecciano alle particelle dell'aria del locale. Ma non basta! Non basta mai. Adele abbraccia Mozart, subito dopo. Hello è dolorosa quanto l'altro capolavoro. Antico e moderno. Con il mio strumento ho il potere di fonderli. Armonizzarli. Trovare un equilibrio. Se la mia vita fosse scritta in un pentagramma, l'avrei trovato già da molto tempo.

Il mio pubblico respira la musica frammista all'aria e tace. Sento lo sguardo di Stephanie addosso e quando l'ultima nota si spegne sotto la cenere della chiusura, inizia uno scroscio di applausi, prima timido e poi sempre più forte. Mi alzo, prendo per mano la mia compagna e assieme facciamo un inchino. È il nostro modo per dire che la serata, almeno per noi, è conclusa.

"Avevo detto frizzante, non deprimente." Mi fa notare Stephanie, mentre andiamo a riporre i nostri strumenti. Accenno un sorriso e le rispondo: "Non ti è piaciuta?"

"Certo che mi è piaciuta. Ma Hello? Sul serio, Jess? Geniale, però che tristezza."

So che in parte scherza e in parte no. Steph non è certo tipo da muovere critiche casuali. Non posso darle torto sul fattore tristezza, ma con gli anni ho imparato che pensare che la bellezza si possa trovare solo nella gioia e nei sentimenti forti sia un po' riduttivo. Mi stringo nelle spalle e torniamo da Ben, che sta pulendo dei bicchieri. Ci fa un largo sorriso quando ci vede.

"Bravi. Proprio bravi. Cosa vi offro da bere?"

"Il solito." Comunica Stephanie.

"Una birra." Dico io.

Ben prepara subito la camomilla forte per Stephanie - ne beve una ogni sera - e mi prepara un bicchiere piccolo di birra. Ne prendo un sorso e gli chiedo: "Stella?"

"Stella è a letto. Non so come."

"Ha combinato ancora qualcosa?" Domanda Steph. La faccia comicamente sconsolata di Benjamin lascia intendere che certo! che sua figlia ha combinato qualcosa.

"Ha tirato un pugno a uno suo compagno di asilo."

Stephanie abbassa la sua tazza e sorride. "Bella tosta."

"Non c'è niente da ridere. Le maestre dicono che non hanno mai visto una bambina così irascibile."

"E cosa c'è di male?"

"Non è mica normale!"

"Anche io ero una bambina irascibile."

"E infatti."

Steph gli lancia un'occhiataccia ma non ribatte. Fa sparire il viso nella camomilla.

"Ti ha detto perché l'ha fatto?" Domando io, per appianare le tensioni. Ben si stringe nelle spalle.

"Mi ha solo detto che l'ha fatta arrabbiare."

"Magari l'ha presa in giro."

"Le maestre dicono che nessuno osa dirle niente che la faccia arrabbiare."

"Certo, perché le maestre sono sempre lì a guardare." Brontola Steph, risorta dal mondo degli offesi.

"In ogni caso Stella non può pestare tutti quelli che la fanno arrabbiare. Non capisco da chi abbia preso."

Sia la mia amica sia io stiamo zitti ma sappiamo entrambi a chi stiamo pensando. Ben sospira e si rimette a lucidare i bicchieri.

"Le parlerò ancora. Devo capire il problema prima che mi diventi un'emarginata sociale."

Stephanie storta la bocca ma non aggiunge altro. La tenue musica del vecchio juke-box che ci ha sostituito è l'unico rumore che ci avvolge.

Poco più tardi do la buonanotte a entrambi.

"Buona fortuna per il provino." Auguro a Stephanie. Lei mi fa un cenno, abbozza un sorriso. Non posso chiedere altro. Me ne vado: domani è il gran giorno.

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