25. Archaea Carroll e K-Pop Liang

Quando studiavo all'università, molti anni fa, durante una lezione di letteratura medioevale europea,  mi imbattei in un concetto espresso da due parolette latine: locus amoenus. Letteralmente: luogo gradevole. Rappresenta lo stereotipo degli ambienti edenici che richiamano il Paradiso Terrestre, con acque correnti, prati verdi e boschi fiorenti con, come unici abitanti, creature naturali o innocenti come pastorelli o ninfe. Il mio professore di allora aveva insistito parecchio per farci entrare in testa l'idea che un luogo simile non potesse esistere, esattamente come sulla Terra non può esistere un Eden, ma attualmente, viste le mie condizioni, provo il desiderio di sorridere e smentirlo. Gli direi: "Mi dispiace, professor Scott, ma non si parlava di stereotipi. Non è solo un bel prato a formare un locus amoenus. Quegli scrittori che l'hanno descritto condividevano molto più di una visita alle rive di un bel corso d'acqua: erano, probabilmente, tutti innamorati."  

Non saprei identificare in modo diverso la condizione ambientale e mentale in cui mi trovo. Disteso in un mare d'erba fresca e appena tagliata, gli occhi gettati in un cielo d'azzurro assoluto turbato solo da qualche minuscola nuvola a punta di cotton fioc, il profumo dell'estate nei polmoni e una leggera brezza sul viso, ho quasi paura di accorgermi di essere morto e assunto in Paradiso. 

"Devo essere stato bravo." Commento con voce strascicata e un sorriso instupidito in faccia. Anthea, che è sdraiata al mio fianco, si gira su un fianco appoggiandosi col gomito per guardarmi. Ho gli occhi fissi verso il firmamento e non la sto guardando, ma immagino il suo sguardo confuso, così mi metto a ridacchiare, giusto per completare il quadro di euforia pazza. Lei, al posto di irritarsi o di chiedermi se sono ammattito, ride e si arrende, posando la testa alla mia clavicola. Oh sì, ora il mio locus amoenus personale è completo. 

"A cosa stai pensando?" Mi domanda.

"A quanto sia bello."

"Che cosa?"

"Tutto. Tutto quanto. Il prato, il cielo, il profumo, l'aria, te."

È una splendida domenica pomeriggio e non posso dirmi pentito di aver saltato la consueta visita al Boschetto: le vecchie volpi sono partite per una settimana di relax sulla costa di Long Island. Non vorrei trovarmi nei panni degli infermieri o degli animatori che dovranno stare loro alle calcagna per quasi otto giorni. Quando mi è arrivata la notizia, ho subito scritto ad Anthea per invitarla fuori. E quale posto migliore di Central Park in una giornata così calda e soleggiata? 

Anthea sghignazza alla mia frase. Dimentico abbastanza spesso quanto in realtà sia poco romantica, nonostante il suo aspetto. Ora che ci penso è un bene: mi sentirei in imbarazzo se decidesse di rispondermi con una battuta simile. Scivola dalla mia spalla e torna a distendersi nell'erba. Sembra una ninfa, vestita di verde e bianco: un abitino estivo che ha sconvolto per un istante i miei ormoni e i capelli raccolti in una graziosa coda di cavallo alta. 

"Il profumo che senti" dice, "è geosmina e esanale." 

"Che per il linguaggio dei profani sono..?"

"L'odore della terra e il profumo dell'erba tagliata."

"Scommetto che questa cosa non l'hai letta sulla tua guida del piccolo naturalista."

Volto il viso di lato per vedere il suo sorriso allargarsi dolcemente sul volto che brilla alla luce del sole. Ha lentiggini anche sulle spalle e sul collo: la costellazione è divenuta una galassia. 

"No. Questa viene da mio fratello. Quando piove si siede sempre sul bovindo in camera mia e respira forte dicendo: La geosmina è il più buon odore della terra. E poi ride da solo." 

Anche Anthea ride. Deve avere un ottimo rapporto con suo fratello maggiore.

"Vive con te Alec?" Le domando, ritenendola una domanda neutra. Non sono sicuro che l'avanzamento nel nostro rapporto mi permetta istantaneamente di fare domande su cose personali. Perdonatemi tutti, ma è la prima volta che mi trovo in questa situazione. 

"Sì! In realtà viviamo più o meno tutti assieme."

"Anche i tuoi altri fratelli?"

Fa su e giù con la testa come cenno affermativo, alzando gli occhi verso il cielo. Le nubi di riflettono nelle sue iridi: un cielo in miniatura per nuvolette pigmee.

"In realtà è un po' più complicato di così, ma diciamo che sì, vivono tutti lì."

"Ambiente soffocante?"

"Qualitativamente discutibile."

Non posso fare a meno di sorridere e Anthea lo nota. Tende una mano verso la mia e l'accarezza, un po' pensosa. 

"Ieri sera Jenny ha tentato di presentarmi un ragazzo." Mi dice, come se questa fosse una considerazione sul tempo. Mi irrigidisco non appena finisce di pronunciare la O nell'ultima parola, ma non mi succede quello che pare succedere a un sacco di ragazzi nei libri moderni: non mi arrabbio. Non ne ho il diritto, e poi che problemi mentali bisogna avere per saltare addosso a una ragazza a cui si è interessato per una semplice frase? Io mi inquieto e basta, perché sono fatto così. La mia testa improvvisamente si svuota di tutti i pensieri e il mio corpo diviene una corda di crine sul violino dell'ansia. È come se stessi aspettando che lei continui a parlare. Che mi dia una sentenza. È una cosa assolutamente sciocca: mi ha solo detto che ha conosciuto e probabilmente parlato con uno, eppure cado immediatamente in uno stato di paranoia. Forse ha un po' ragione Ruben quando mi dice che il mio superpotere è la paranoia. 

Mi lancia uno sguardo dal momento che non ho risposto. Abbozzo un sorriso e chiedo: "Era simpatico?"

"Era un po' ubriaco." Constata lei, perplessa. "E penso abbia capito che mi chiamo Archaea."

Okay, questa volta riesce a strapparmi una risata. Ho pochi ricordi delle lezioni di microbiologia del liceo, ma rammento abbastanza bene alcuni nomi. 

"Quindi sei un batterio?"

"Un intero regno di organismi unicellulari!" Esclama Anthea, allargando le braccia a sfiorare l'infinita vastità del cielo, arcuando un poco la schiena, come se qualcosa l'attirasse verso l'alto. "E so anche vivere nei camini vulcanici oceanici."

"Come si chiamava, questo premio Nobel?"

"Travis, Trevor... non ricordo. Dopo due battute gli ho chiesto di prendermi un drink e mi sono eclissata."

Il crine si scioglie dolcemente dallo strumento delle mie paure e io mi rilasso. Non fraintendetemi: mi fido di Anthea, per quanto io possa pretendere fiducia, dato che ci stiamo solo frequentando, ma non mi fido di me stesso. O meglio: quello che le ho detto a Chinatown, la certezza che lei non voglia davvero un ragazzo che è una ragazza... è una delle mie oscure paure. Temo davvero che lei possa rendersi conto che un uomo nato tale vale più di me. Lo so, lo so: non dovrebbe essere vero perché siamo tutti uguali. Ma ce n'è di strada da fare tra il dire e il fare. In breve: mi fido di Anthea, non mi fido della bontà delle mie qualità. La gente va in crisi quando sbaglia il colore della tinta per capelli o acquista una maglietta troppo grande. Provate a immaginare com'è vivere intrappolati in un corpo del sesso sbagliato, quando la mente dice una cosa e l'organismo non risponde. Ricordo ancora il limite della psicosi che raggiunsi all'età di dodici anni, le preghiere deliranti che pronunciavo ogni sera a ogni possibile divinità, le fasce strettissime con cui mi cingevo il petto, quando cominciò a crescermi quel poco seno che ho, come se fosse stato un tumore e non un evento fisiologico. L'equilibrio psicologico che ho attualmente raggiunto - o almeno, che mi pare di aver raggiunto - è delicatissimo e, come avrete sicuramente capito, è semplicissimo distruggerlo. In fondo, basta una parola della mia cotta a farlo. 

"Davvero ti sei eclissata?"

"Avrei passato la serata chiusa nel mio silenzio." Risponde allegra. "La mia miglior difesa."

 "Sì, ricordo. In effetti funziona." Le sorrido e aggiungo: "Eppure non sei così."

"Dipende."

"Da cosa?"

"Se mi piace la persona con cui sono."

"Lo prendo come un complimento."

"Ed è proprio così." 

Abbandona il suo posto nel prato - in cui ormai si è formata una sagoma a forma di angelo d'erba - per girarsi sulla pancia e trovarsi a qualche centimetro dal mio viso. Potrei morire e rinascere ogni volta che mi sorride e chiude gli occhi, perché so cosa farà. Perché io non sono in grado di prendere l'iniziativa? Perché a lei viene così naturale? A volte mi chiedo se tutto funziona davvero nel mio cervello. Però di una cosa sono certo: non sono immune al suo bacio. E questa volta, anche se ci devo pensare e non mi viene ancora spontaneo, sono in grado di abbracciarla e stringerla a me, nonostante la costante preoccupazione che per caso posi le sue mani nel punto sbagliato del mio petto. Appena lo faccio, però, allontana la sua bocca dalla mia e sussurra: "Sai perché non avrei avuto alcuna voglia di parlare con Travos, Trevir... o come si chiamava, anche se fosse stato sobrio?"

"Perché?" Le chiedo di rimando, fissando perso la linea snella a doppia onda del suo labbro superiore. 

"Perché sono una donna già impegnata."

Le sorrido, perché non sono mai stato bravo a rispondere alle affermazioni d'affetto, ma giuro che se fosse in grado di leggermi il pensiero, rimarrebbe accecata dalla luce che improvvisamente ha acceso dentro di me. Anthea, non posso giurarti di smettere con i miei pensieri tristi e ossessionati, ma prometto che mi impegnerò a ricordarmi che con te non c'è bisogno di avere paura.

"Beh, anche io mi considero un uomo impegnato." Sussurro alla fine, sapendo di star arrossendo perché, hey, non è una cosa facile fare la persona normale. 

"L'ho detto anche alle mie amiche." Aggiunge subito dopo, stupendomi per la seconda volta. "Anche se all'inizio non erano contente."

"Perché?" 

Ecco la paura che torna prepotentemente. Che abbiano capito cosa sono e non siano d'accordo? Anthea sorride e poi ride proprio mentre dice: "Perché pensavano parlassi di Ruben."

"Cosa?!" 

Sì, ora rido anche io. Povero Ruben! Non deve aver lasciato un buon ricordo a quelle due ragazze. 

"Sì! Però poi ho chiarito che parlavo di te e ne sono state contente. Hanno detto che hai il fascino di quei cantanti... coreani? Sì, hanno detto coreani."

La fisso. Ho smesso di ridere perché sono un po' sconvolto e non voglio davvero credere a quello che ha appena detto. È una cosa buffissima ma anche imbarazzante. 

"Ti prego, dimmi che le tue amiche non si riferivano ai cantanti del K-Pop."

Anthea entra subito in allarme. "È una cosa offensiva?"

"No! È solo un po'... aspetta, ti faccio vedere." Tiro fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni e mi metto a cercare su Google un'immagine che le faccia capire il mio momento di incredulità. Lei posa la testa di fianco alla mia per guardare e spalanca gli occhi quando le mostro una foto di cinque bellissimi ragazzi coreani con capelli tinti, occhi truccati e fisico particolarmente androgino. 

"Beh..." Abbozza, leggermente imbarazzata. "Sono molto carini."

"Sì, ma io non voglio assomigliare a una bambola."

"Ma non sembrano bambole! Beh, magari sono un pochino, ma..."

Mi metto a ridere e Anthea si ferma nel suo soliloquio per seguirmi a ruota. 

"Mi dispiace." Afferma, tra le lacrime. "Non sapevo nulla di tutto questo. Avrei ricordato loro che non sei coreano."

"Esatto. Anche questo è grave. Ci sono differenze molto chiare tra coreani e cinesi, come tra cinesi e giapponesi."

"Ti sei offeso?"

Me lo chiede con preoccupazione, come se pensasse che stia parlando sul serio. Scuoto la testa e le sorrido, posando il cellulare sul petto. 

"Ma no, sto scherzando." Le rispondo, stuzzicandole la guancia con un dito. "Però, mi raccomando, sono cinese."

"Di terza o quarta generazione." Ricorda lei, con un sorrisetto. "Vuoi sapere da dove vengo io?"

"Certo. Anzi. Sai che non ho idea del tuo cognome?"

"Carroll." Ribatte. "È un cognome inglese di origini irlandesi."

"Nonché il cognome pseudonimo dello scrittore de Le avventure Alice nel Paese delle Meraviglie." 

"Esatto! Peccato non essere imparentati con lui. Comunque la famiglia Carroll vive da almeno nove generazioni negli Stati Uniti. La famiglia di mia madre, invece, è qui solo da due generazioni."

"Sempre Inghilterra?"

"No! Mio nonno è olandese. Il cognome da nubile di mia madre era Meijer."

"Meijer." Ripeto. "Quindi sei davvero più europea che americana."

Anthea sorride e scuote la testa. Mi sembra che sia rimasta serena, nonostante abbia parlato di sua madre. Forse è così che funziona: devo lasciare che sia lei a parlarmi di sé, senza che io imponga delle domande. In fondo penso che sia lo stesso ragionamento che ha fatto lei. Non ha mai avanzato quesiti sulla mia natura o sulle mie scelte, ha semplicemente accettato la cosa. Ora che ci penso, sono commosso dalla sua stupefacente capacità di fidarsi di me. 

"Un giorno, forse, mi convincerò a cambiare il mio cognome con questo." Mi dice, tornando a dominare sopra di me. Le accarezzo il viso, traccio un sentierino di lentiggini e le dico semplicemente: "Ti starebbe bene. Anthea Meijer."

Deve apprezzare il mio commento, perché mi bacia di nuovo, ma prima che il mio corpo cominci davvero a capire cosa sta succedendo, Anthea sparisce dalla mia visuale, sedendosi di scatto nell'erba accanto a me. 

"Hey! Hai portato la guida che ti ho regalato?" Esclama, risistemando la coda di cavallo che si sta lentamente sciogliendo. Do un colpetto di tosse - o di risate - e mi copro gli occhi con un braccio. 

"Certo che l'ho portata."

"Allora preparati a usarla. Ti farò scoprire le meraviglie del mare d'erba."

Sono pronto. Più pronto che mai. 

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