23. Vintage Tea Lady
La pioggia cade decisa, in uno scroscio di cascata. Ogni tanto un lampo illumina le prime tenebre come il flash di una macchina fotografica, ma i tuoni sono ormai un brontolio lontano da gattino infastidito. Il temporale è passato, anche se il diluvio non accenna a smorzarsi.
Anthea osserva il nubifragio con occhi tranquilli, sereni. Ha un profilo delicato, con un piccolo naso dritto e lunghe ciglia scure. La pelle bianca sotto le lentiggini è arrossata dal freddo improvviso, qualche goccia stenta ad asciugarsi, marcando una di quelle macchiette come se fosse tridimensionale. Una piccola ciocca di capelli ancora bagnati è scivolata a fianco del suo occhio destro. Allungo una mano e gliela scosto. Lei piega leggermente la testa e posa la sua guancia gelida contro la mia mano. Alza gli occhi e mi guarda, accenna un sorriso. C'è una gioia commovente dietro quei piccoli denti bianchi in mostra: trasmette pace, quiete, armonia.
Sono pervaso da una sensazione di benessere come mai prima d'ora. Avete mai provato a correre sotto la pioggia? All'inizio si prova solo un disagio persistente, quando i vestiti si inzuppano di acqua fredda e le scarpe annegano nelle pozzanghere. Poi, però, quando trovate un posto all'asciutto, dove potete sistemarvi come in un piccolo nido, mentre il calore della corsa abbraccia la frescura dei vestiti bagnati e si ritrova fiato e si gode postumi del divertimento di una piccola follia di quotidianità, vi sentite improvvisamente e inavvertitamente pervasi da una commozione bizzarra, che dura anche pochi istanti. Un momento perfetto di certezza positiva, di vitale ottimismo, quasi di euforia. Viene voglia di alzarsi e ridere e gridare e abbracciare la persona con cui si è condiviso quel momento così intenso e travolgente. Una gamma intera di emozioni, dal disagio all'esaltazione, un acquerello dipinto e guardato attraverso i riflessi delle luci nella pioggia. E poi, subito dopo l'eccitazione, rimane il benessere. Un improvviso, totale benessere. La pace dei sensi. Ogni cosa è al suo posto. Ogni conseguenza ha una causa. Il mondo è un ottimo posto in cui trascorrere una vita. La felicità esiste.
Così mi sento. Semplicemente, incondizionatamente bene.
Anthea e io abbiamo corso di nuovo, dopo il bacio alla pensilina. Non potevamo rimanere lì a causa di un tombino in ebollizione, così siamo tornati in Mott Street in una corsa piena di risate e di un mio scivolone e alla fine abbiamo scovato un androne coperto con delle splendide scale asciutte, di fianco a un fruttivendolo. Non ci siamo più mossi da qui e a me va bene così.
Anthea ispira profondamente, solleva il viso e con un piccolo saltello mi si avvicina. Posa la testa contro il mio braccio e io, mosso dall'istinto più che dalla volontà, le cingo le spalle. Percepisco un suo brivido.
"Hai freddo?" Le chiedo a bassa voce.
"Un poco. Ma sto bene."
Recupero l'ombrello abbandonato al mio fianco ed estraggo la sciarpa in cui avevo avvolto il libro per proteggerlo dall'acqua. È solo un po' umida, meglio di niente. Mi scosto per avvolgergliela attorno come uno scialle e mentre lo faccio lei mi osserva.
Mi lascio sfuggire un sorriso nervoso. "Stai riflettendo su quello che ti ho detto?"
"Lo sai che socchiudi gli occhi quando ti concentri su qualcosa?"
Non è la risposta che mi aspettavo e per questo ridacchio. "Dico sul serio."
"Su cosa devo riflettere?"
"Sulla cosa che ti ho detto prima."
"Perché ci devo riflettere?"
La guardo negli occhi e noto che è sinceramente curiosa di saperlo. Come fa a non capirlo?
"Beh... tutte le implicazioni che potrebbero conseguirne." Abbozzo, quasi con paura, come se temessi che una parola di troppo le aprirebbe gli occhi sulla verità. Una piccola parte di me crede fermamente che non abbia reagito male solo perché non ha ancora realizzato ogni cosa.
"Anthea." Dico, provando la dolorosa necessità di capire che lei abbia capito. "Io sono nato come una ragazza."
Lei non cambia espressione. Piega un poco la testa di lato, come un uccellino curioso che fissa uno strano animaletto davanti a sé e risponde: "Sì. Ma ora sei un ragazzo."
"Sì." Ribatto. "Ma non fisicamente."
Lei spalanca leggermente gli occhi, poi piega la testa dall'altro lato e sorride come se avessi appena detto una cosa divertente.
"Ma tu sei un ragazzo qui." Alza una mano e posa l'indice teso sulla mia fronte. "E anche per me lo sei."
È la frase dalla doppia chiave. Si infila nella toppa del regno della gioia e lascia che io sia inondato dalla luce della felicità, ma dall'altro lato socchiude di soppiatto la nera porta del terrore, che subito serpeggia in mezzo ai raggi di sole, portando con sé il tanfo dell'angoscia e del tormento.
"Non capisci." Mi ritrovo a piagnucolare, sentendomi stupidissimo. "Forse non hai realizzato ancora, ma... Anthea, non sono un ragazzo fisicamente. Non penso che tu voglia un ragazzo che in realtà è una ragazza, come puoi..."
Anthea posa l'indice che aveva usato sulla mia fronte davanti alla mia bocca, fermando la mia inutile e momentanea diarrea verbale.
"Jess, tu ti senti uomo?" Mi chiede. Annuisco in silenzio, perché so che la mia voce mi tradirebbe. "Allora dove sta il problema?"
"Che non sono quello che vuoi."
"Tu sei quello che voglio. Non un ragazzo. Non una ragazza. Te stesso."
Faccio fatica a crederci, ma a questo punto temo davvero che Anthea abbia non solo capito, ma che la situazione le stia perfino bene. Questo nuovo pensiero mi atterrisce. Deve essere lo stesso sentimento che prova un animale che è nato e cresciuto in gabbia, il giorno in cui la porta della prigione viene aperta e gli viene detto che è libero. È fin troppo bello per essere reale.
"Perché?" Chiedo con la voce strozzata. È una domanda sciocca, infantile. All'improvviso torno ad avere sei anni e sto chiedendo a mia madre il perché di molte cose incomprensibili del mondo che mi circonda. Perché il cielo è azzurro? Perché il rosa è un colore da femmine? Perché mi vuoi, Anthea?
"Perché mi piaci."
"E perché ti piaccio?"
"Per quello che sei."
"E cosa sono?"
Lei sorride tenera e risponde: "Il bel trobador d'Oriente."
All'improvviso un cocente imbarazzo manda a fuoco i miei pensieri. Cosa sto facendo? Sto mostrando alla ragazza che ho appena baciato, a cui ho ammesso la mia infatuazione, alla meravigliosa creatura che ha appena affermato di volermi nonostante tutto... la parte peggiore di me. Cerco di prendere abbastanza fiato per calmare la tempesta di sentimenti che imperversa nella mia testa, abbasso gli occhi e dico: "Scusami. Sto farneticando."
Mi comporto come un pazzo perché con la mente ho viaggiato molto al di là del futuro prossimo di una nostra possibile relazione. Giusto per aggiungere un'altra palata di imbarazzo al già condito disagio mentale.
Alzo lo sguardo su di lei e noto del rammarico nei suoi occhi. Oh no, l'ho messa in crisi.
"Forse sono stata troppo precipitosa, ma... è la prima volta che mi piace così tanto qualcuno... forse ti ho spaventato."
"No!" Ribatto con fin troppa verve. "Non è colpa tua, sono io che ho paura di tutto. Tu... cioè, io sono felice di quello che è successo." Poi mi rendo conto che devo dirglielo: "Anche tu mi piaci, Anthea. Davvero tanto."
È un sollievo pari al tornare a respirare. Finalmente sono sincero. Ed è splendido il sorriso con cui accoglie la mia confessione.
"Quindi possiamo provarci?" Mi domanda. So cosa mi sta chiedendo e improvvisamente il mio ciclone interiore si silenzia e scompare, lasciando dietro di sé solo un cielo color iris.
Non aver paura di cercare di essere contento della tua vita sentii dire una volta da mio zio durante il congedo di un ragazzo che aveva terminato la riabilitazione sociale e che a sorpresa non desiderava più lasciare la confortevole ma mediocre sicurezza del centro. In questo momento me lo ripeto, perché io stesso sono quel giovane.
Fisso Anthea e non sopprimo il sorriso che nasce spontaneo nell'istante in cui le dico: "Certo che sì."
Penso che non riuscirò mai più a togliermi dalla testa il momento di pura gioia che vedo riflesso negli occhi della ragazza che mi sta seduta accanto. In quell'unico secondo vedo foglie di felci che si distendono, pappi che prendono il volo, corolle che sbocciano, stagioni che si susseguono, neve che cade su fiumi ghiacciati e soli che sorgono e tramontano, in un tripudio di lode alla vita. È questa la cosa che più mi ha affascinato e tuttora mi affascina di Anthea: il suo amore spassionato per l'esistenza, per ogni forma di bellezza vitale, perché ogni elemento dell'universo è connesso con un altro. Ora lo sono anche io. Se questa non è una benedizione, non so cosa mai potrà esserlo.
Appoggio una mano sul gradino sopra il nostro e mi piego per baciarla. Tocca a me dimostrarle qualcosa, ora. È una sensazione stranissima baciare qualcuno, soprattutto se non lo si è fatto per quasi ventotto anni. Sì, non avevo mai sperimentato la cosa prima di Anthea. È la prima. Sento che sorride mentre chiude gli occhi e percepisco le sue mani attorno al mio collo, soprattutto per evitare di perdere l'equilibrio, vista la posizione precaria in cui l'ho appena messa. La pioggia ha intensificato il suo profumo e la fragranza di mughetto e lavanda mi penetra dentro facendomi perdere di vista per un secondo tutto il resto.
"Scusate, ragazzi."
Trasalisco così violentemente che per poco Anthea non scivola dallo scalino. Ci voltiamo entrambi di scatto verso l'ingresso dell'androne e immediatamente associamo la vocina flebile che abbiamo udito con il viso rugoso e bonario di un'anzianissima signora cinese. È piccolissima, uno scricciolo di donna che sorridente ci guarda con occhietti sottilissimi. Indossa un abito blu e sopra di esso un grembiulino bianco. Ci ha parlato in mandarino, per questo Anthea la guarda confusa.
Io sorrido e le faccio un cenno di saluto, rivolgendomi a lei in modo educato, chiedendole in cinese se l'abbiamo disturbata. Anthea segue lo scambio guardando prima me e poi lei, curiosa. La signora scuote la testa e allarga le braccia.
"Mio figlio vi ha visto correre sotto la pioggia fino a qui. Poverini, sarete tutti infreddoliti. Gli ho detto di preparare del tè caldo. Venite a berlo."
Ci fa cenno di seguirla e muove un passo impaziente - xióng qǐ, xióng qǐ, su su! ci dice - e io prendo per mano Anthea, con un sorriso rassicurante.
"Cosa ti ha detto?"
"Ci hanno preparato del tè perché ci hanno visto correre sotto la pioggia." Le dico e lei scoppia a ridere. La signora ci aspetta sotto la tettoia del fruttivendolo. Il figlio, il proprietario del negozio, ha sistemato un vassoietto di peltro sul tavolino della cassa circondata da cesti e cassette di frutta e ci sorride con lo stesso sorriso della madre.
"Prego, prego." Ci dice in inglese, mentre la signora sospinge gentilmente Anthea verso una tazzina da tè bianca con preziosi decori in oro. Ne prendiamo una ciascuno e io ringrazio entrambi, abbassando la testa e dicendo: "È buonissimo."
La mia ospite mi dà un colpetto sul gomito e io la guardo. Non si è ancora portata il tè alle labbra e mi guarda preoccupata. "Come si dice grazie?"
"Xiè xie."
"Xiè xie." Ripete lei convinta, prima guardando la signora, poi il figlio. Entrambi ridono e la donna mi si rivolge dicendo: "Mei nü." cioè graziosa ragazza, come a dire che ho una fidanzata molto carina. Dovrei dirle che non lo è, ma faccio finta di niente e le sorrido per ringraziare. Il tè è bollente e forte, riscalda mente e corpo. Lo sorseggiamo con i nostri benefattori, mentre l'acquazzone si trasforma in una calma pioggerellina musicale. Quando la mano riscaldata di Anthea si insinua nella mia, penso che potrei facilmente farci l'abitudine.
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